Ci sono due delicate questioni che
stanno interessando l'industria del calcio:
- in materia di trasferimenti degli
atleti, il monito della Cee alle autorità
sportive per l'adeguamento delle
norme del settore a quelle comunitarie,
che da sempre sanciscono il libero passaggio
dei dipendenti da una azienda
all'altra senza alcun obbligo in capo al
nuovo datore di lavoro di pagare una
somma al precedente;
- in materia di tutela dell'infanzia l'intervento
ufficiale del Governo nei confronti
della Figc (federcalcio), designata
quale garante per conto delle associazioni
e delle società affiliate, della applicazione
della normativa che regola l'immigrazione
alla fattispecie dei calciatori
minorenni extracomunitari (5.300 casi
circa nel 1999): dal loro ingresso in Italia
condizionato da una richiesta ufficiale
del "provino", al rimpatrio di coloro (più
del 95%) risultati bocciati.
Questi aspetti agli antipodi sono le
due facce dell'industria professionistica
del calcio europea ed italiana in particolare:
a) una offerta di lavoro da una parte
insufficiente a soddisfare la domanda
crescente (Terzo Mondo), e dall'altra
sovradimensionata rispetto alle risorse
disponibili (indebitamento del settore);
b) l'assenza di un sistema formativo
della manodopera (istituzioni riconosciute
dallo Stato, reclutamento regolamentato,
tutele ...).
Il secondo punto è il vero handicap
che impedisce l'adozione di una misura
continentale adeguata alla drammaticità
della situazione: il doppio numero
chiuso.
Per intenderci:
- un'area di professionismo limitata
alle aziende calcistiche in grado di
affrontare il futuro campionato europeo
per club, i cui organici potranno essere
sotto contratto di lavoro subordinato
(dipendenti) o d'opera (autonomi come
gli artisti);
- la formazione della manodopera
presso centri autorizzati legati principalmente
all'istituzione scolastica pubblica
e privata (e quindi ad un sistema
di selezione) nei vari gradi.
Misure a prima vista che sembrano
limitare proprio quella libera iniziativa
invocata dai Trattati Cee, salvo poi
scoprire che sono le colonne portanti
del campionato sportivo più ricco
del mondo (Nba) della superpotenza
americana che vive di mercato, ma che
nonostante 250milioni di abitanti non
si è mai sognata di avere 128 società
professionistiche di basket.