Alcune settimane fa abbiamo assistito
all’operazione Palermo: il recupero di
una clientela allo stadio e di fronte alla
pay-tv rilevante come quella del capoluogo
siciliano, con le sue appendici nel
Nord America, attraverso il rilancio nella
massima serie dell’azienda calcistica
attualmente operante al terzo livello del
professionismo (C1). Un fatto nel panorama
economico sportivo che merita
alcune considerazioni per le diverse
chiavi di lettura.
Politica. Il progetto dell’Eurolega, il
campionato europeo per club, è sempre
vivo. Quasi per allontanarlo e per
ribadire il primato dei tornei nazionali,
a partire da quello italiano, nell’operazione
Palermo si può vedere anche un
tentativo di riequilibrio dell’industria del
calcio metropolitano fra il nord ed un
sud orfano di Napoli e Palermo.
Diritto. L’acquisizione delle quote del
Palermo Calcio dovrebbe essere stata
effettuata da parte di uno o più azionisti
del football (Sensi da solo od unitamente
a Cecchi Gori, Cragnotti e Tanzi) attraverso
una società intermediaria non
calcistica. Se questo è l’escamotage per
aggirare il divieto, imposto dal diritto
sportivo, del possesso di partecipazioni
in più società delle leghe professionistiche,
ebbene operazioni tipo quella di
Palermo potrebbero avere il tempo contato,
perchè con il calcio in Borsa all’investitore,
tifo a parte, sarà dura impedire
di sottoscrivere titoli di diverse società
calcistiche quotate.
Economia. L’industria sportiva moderna
sembra ormai avviata ad una distinzione
netta: da una parte la produzione
dello spettacolo e dall’altro quella
di una manodopera specializzata. Per
intenderci il modello Nba, dove delle
major fabbricano lo show sportivo e la
scuola (university) cura la formazione,
garantendo un ricambio di atleti.
Se il calcio italiano prende coscienza
di essere una industria di spettacolo, la
rivoluzione sarà inevitabile: una serie A
a numero chiuso senza retrocessioni, il
doloroso sacrificio di una serie B priva
di un ruolo economico ed una serie C
ridimensionata, con obbligo di impiego
di atleti giovani da parte delle società
partecipate nel capitale sociale da quelle
della massima serie.
Sentenza Bosman e costi di ingaggio
devono però essere rivisti. Perchè al club
di serie A che ogni anno investe circa
2miliardi di lire nella gestione della sua
succursale in serie C occorre riconoscere
delle garanzie circa il diritto di prelazione
sulla titolarità del cartellino del
giovane calciatore formato ed in attesa
del primo contratto di lavoro. Dall’altra
un contenimento degli ingaggi potrebbe
ridimensionare la ricerca crescente di
manodopera extra-comunitaria. In Italia
c’è un manager con una forza contrattuale
tale da affrontare programmi di
questa portata?