Dilettanti allo sbaraglio

10 Agosto 2001

La controversia in materia di lavoro

legata alla finale scudetto del massimo

torneo nazionale di pallavolo femminile

2000/2001 ha fatto emergere la necessità

di ridisegnare i confini tra dilettantismo

e professionismo, in particolare

negli sport non individuali.

Una difficile opera di revisione che

dovrebbe:

a) partire da un esame dell’effettiva

situazione “lavorativa” del singolo

atleta;

b) prevedere una normativa speciale

per un lavoro atipico come quello sportivo,

esercitato sia in misura esclusiva

o prevalente, che complementare ad

altre forme di impiego.

Andiamo con ordine. Per la disputa

della finale, Reggio Calabria ingaggia

l’atleta Pirv (Romania), la schiera in

campo e vince lo scudetto. Bergamo

ricorre alla giustizia sportiva: mancato

rispetto del tetto massimo di sportivi

stranieri impiegati. Contro-ricorso di

Reggio Calabria alla giustizia ordinaria;

obiettivo: ottenere la sentenza-ter dopo

quella dei casi Sheppard (basket) ed

Ekong (calcio), per ribadire il diritto al

lavoro del lavoratore sportivo contro

i limiti protezionistici dei regolamenti

federali. Ma il Tribunale di Reggio

Calabria si rivela territorialmente incompetente

a dirimere la lite, lasciando in

sospeso nel merito il verdetto. Intanto la

federazione italiana pallavolo sostiene

la sua linea: l’analogia non è applicabile,

perchè i casi citati riguardano dei lavoratori

sportivi professionisti. I tesserati

della Fipav sono tutti dei dilettanti. Ecco

la questione di fondo nei confronti della

quale il giudice ordinario competente

avrebbe potuto emettere una sentenza

contenente un principio rivoluzionario:

al di fuori dell’età della scuola dell’obbligo

ed in costanza della carriera

universitaria, la sussistenza di alcuni

parametri (per esempio l’esclusività o

la prevalenza dell’esercizio remunerato

di una attività sportiva, in termini di

reddito di lavoro e di tempo impegnato

settimanalmente), determina lo status

di professionista o di dilettante del lavoratore

sportivo.

A questa stregua Sheppard, Ekong e

la Pirv si troverebbero molto probabilmente

allo stesso livello: essi esercitano

l’attività sportiva a parità di tempo e

modalità imposte dai rispettivi “datori

di lavoro”, la cui diversa qualifica (dilettante

o professionista) sulla base del

tipo di campionato partecipato non

può ribaltarsi sugli status dei lavoratori.

Che in quanto tali hanno diritto al lavoro

e, ricorrendone i requisiti soggettivi

di professionisti sopra ipotizzati, alle

relative tutele sociali (la pensione...).

Verrebbe così a capovolgersi l’attuale

principio della Legge 23-3-1981, n.

91, per cui lo status dello sportivo è

conseguenza diretta di quello del suo

committente.









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