La controversia in materia di lavoro
legata alla finale scudetto del massimo
torneo nazionale di pallavolo femminile
2000/2001 ha fatto emergere la necessità
di ridisegnare i confini tra dilettantismo
e professionismo, in particolare
negli sport non individuali.
Una difficile opera di revisione che
dovrebbe:
a) partire da un esame dell’effettiva
situazione “lavorativa” del singolo
atleta;
b) prevedere una normativa speciale
per un lavoro atipico come quello sportivo,
esercitato sia in misura esclusiva
o prevalente, che complementare ad
altre forme di impiego.
Andiamo con ordine. Per la disputa
della finale, Reggio Calabria ingaggia
l’atleta Pirv (Romania), la schiera in
campo e vince lo scudetto. Bergamo
ricorre alla giustizia sportiva: mancato
rispetto del tetto massimo di sportivi
stranieri impiegati. Contro-ricorso di
Reggio Calabria alla giustizia ordinaria;
obiettivo: ottenere la sentenza-ter dopo
quella dei casi Sheppard (basket) ed
Ekong (calcio), per ribadire il diritto al
lavoro del lavoratore sportivo contro
i limiti protezionistici dei regolamenti
federali. Ma il Tribunale di Reggio
Calabria si rivela territorialmente incompetente
a dirimere la lite, lasciando in
sospeso nel merito il verdetto. Intanto la
federazione italiana pallavolo sostiene
la sua linea: l’analogia non è applicabile,
perchè i casi citati riguardano dei lavoratori
sportivi professionisti. I tesserati
della Fipav sono tutti dei dilettanti. Ecco
la questione di fondo nei confronti della
quale il giudice ordinario competente
avrebbe potuto emettere una sentenza
contenente un principio rivoluzionario:
al di fuori dell’età della scuola dell’obbligo
ed in costanza della carriera
universitaria, la sussistenza di alcuni
parametri (per esempio l’esclusività o
la prevalenza dell’esercizio remunerato
di una attività sportiva, in termini di
reddito di lavoro e di tempo impegnato
settimanalmente), determina lo status
di professionista o di dilettante del lavoratore
sportivo.
A questa stregua Sheppard, Ekong e
la Pirv si troverebbero molto probabilmente
allo stesso livello: essi esercitano
l’attività sportiva a parità di tempo e
modalità imposte dai rispettivi “datori
di lavoro”, la cui diversa qualifica (dilettante
o professionista) sulla base del
tipo di campionato partecipato non
può ribaltarsi sugli status dei lavoratori.
Che in quanto tali hanno diritto al lavoro
e, ricorrendone i requisiti soggettivi
di professionisti sopra ipotizzati, alle
relative tutele sociali (la pensione...).
Verrebbe così a capovolgersi l’attuale
principio della Legge 23-3-1981, n.
91, per cui lo status dello sportivo è
conseguenza diretta di quello del suo
committente.