Corriere della Sera di sabato 23 luglio
1994: “Calcio in rosso, slitta il calendario”;
a seguire la richiesta all’allora
Governo Berlusconi di maggiori denari
dagli introiti della schedina e l’intervento
congiunto in autunno nelle sedi
delle società di Guardia di Finanza e
Magistratura.
Corriere della Sera di mercoledì 21
agosto 2002: “Calcio in crisi, rinviato
il campionato”; a seguire la richiesta
al governo di “aiuti” (da definirsi) e
nuova operazione “piedi puliti” nell’aria.
Insomma dopo otto anni il calcio professionistico
italiano si ritrova allo stesso
punto morto: l’attività spettacolistica
non produce utili e moltiplica i debiti.
Una realtà che sta interessando i principali
Paesi europei calciofili. Ed allora è
questo il punto su cui è necessario riflettere:
i mercati nazionali non sono ormai
ristretti per le prime sedici/venti società
europee di spettacolo di una classifica
per fatturato negli ultimi cinque
anni tra biglietti, diritti tv, internet ed
Umts, sponsorizzazioni, merchandising
e sfruttamento commerciale stadio?
In altre parole il campionato continentale
per club a numero chiuso
produrrebbe due effetti economici:
di espansione dei ricavi per le società
ammesse e di ridimensionamento dei
costi di gestione per quelle operanti a
livello regionale e nazionale.
Ma i segnali che provengono oggi
con diverse sfumature dai vari Paesi
non sono incoraggianti; riscontriamo:
- un certo risentimento generalizzato
verso il prodotto calcio;
- la consolazione per il mal comune a
livello continentale;
- un auspicato ritorno ad un non
meglio specificato calcio d’altri tempi,
un football no-business;
- l’invocazione alla “specificità” dell’azienda
calcio rispetto agli altri settori
dell’economia, in nome della quale l’impresa
è privata, ma la perdita di esercizio
è “sociale”, cioè di tutti, dello Stato;
- l’inevitabile sistematico ricorso a
strumenti distorsivi quali la mutualità
od il ricatto nel “dialogo” fra club di
diversa potenza finanziaria all’interno
di entità non economiche (federazioni,
leghe, consorzi ...).
Che cosa significa tutto questo? Una
triste realtà: che il calcio europeo non
conosce né lo spirito, né la cultura di
impresa, in nome delle quali quelle
sedici/venti società di spettacolo, consorziate
in una equivalente Nba americana,
portino a compimento il progetto
del campionato europeo per club.
Tutto il resto del calcio, che dovrebbe
corrispondere (il condizionale è d’obbligo)
all’attività sportiva nazionale universitaria
negli Usa, è destinato ad un
sostanziale semi-professionismo. Cioè a
quel “calcio d’altri tempi”.