Calcio crack: Europa colpevole

23 Settembre 2002

Corriere della Sera di sabato 23 luglio

1994: “Calcio in rosso, slitta il calendario”;

a seguire la richiesta all’allora

Governo Berlusconi di maggiori denari

dagli introiti della schedina e l’intervento

congiunto in autunno nelle sedi

delle società di Guardia di Finanza e

Magistratura.

Corriere della Sera di mercoledì 21

agosto 2002: “Calcio in crisi, rinviato

il campionato”; a seguire la richiesta

al governo di “aiuti” (da definirsi) e

nuova operazione “piedi puliti” nell’aria.

Insomma dopo otto anni il calcio professionistico

italiano si ritrova allo stesso

punto morto: l’attività spettacolistica

non produce utili e moltiplica i debiti.

Una realtà che sta interessando i principali

Paesi europei calciofili. Ed allora è

questo il punto su cui è necessario riflettere:

i mercati nazionali non sono ormai

ristretti per le prime sedici/venti società

europee di spettacolo di una classifica

per fatturato negli ultimi cinque

anni tra biglietti, diritti tv, internet ed

Umts, sponsorizzazioni, merchandising

e sfruttamento commerciale stadio?

In altre parole il campionato continentale

per club a numero chiuso

produrrebbe due effetti economici:

di espansione dei ricavi per le società

ammesse e di ridimensionamento dei

costi di gestione per quelle operanti a

livello regionale e nazionale.

Ma i segnali che provengono oggi

con diverse sfumature dai vari Paesi

non sono incoraggianti; riscontriamo:

- un certo risentimento generalizzato

verso il prodotto calcio;

- la consolazione per il mal comune a

livello continentale;

- un auspicato ritorno ad un non

meglio specificato calcio d’altri tempi,

un football no-business;

- l’invocazione alla “specificità” dell’azienda

calcio rispetto agli altri settori

dell’economia, in nome della quale l’impresa

è privata, ma la perdita di esercizio

è “sociale”, cioè di tutti, dello Stato;

- l’inevitabile sistematico ricorso a

strumenti distorsivi quali la mutualità

od il ricatto nel “dialogo” fra club di

diversa potenza finanziaria all’interno

di entità non economiche (federazioni,

leghe, consorzi ...).

Che cosa significa tutto questo? Una

triste realtà: che il calcio europeo non

conosce né lo spirito, né la cultura di

impresa, in nome delle quali quelle

sedici/venti società di spettacolo, consorziate

in una equivalente Nba americana,

portino a compimento il progetto

del campionato europeo per club.

Tutto il resto del calcio, che dovrebbe

corrispondere (il condizionale è d’obbligo)

all’attività sportiva nazionale universitaria

negli Usa, è destinato ad un

sostanziale semi-professionismo. Cioè a

quel “calcio d’altri tempi”.









Museo Alessandro Roccavilla

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