Luis Sepúlveda è stato uno dei più grandi autori del nostro tempo e con La fine della storia  si è decisamente riconfermato come tale. Con il suo stile diretto e toccante ha saputo comunicare a un ampio pubblico le storie più originali e differenti esprimendosi abilmente in diversi generi. Ci ha sciolto il cuore con Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare mentre  con La fine della storia ci ha tirato un pugno nello stomaco descrivendoci gli orrori della dittatura cilena, per poi abbracciarci forte ricordandoci che la forza dell’amore vince sull’odio.

Questo romanzo è molto complesso dal punto di vista della trama: infatti, soprattutto all’inizio del racconto, si intrecciano eventi e vicende appartenenti a periodi storici anche molto lontani fra loro, con i protagonisti più disparati possibili. Leggendolo si possono notare le ricerche fatte in ambito storico da Sepulveda: si parla della Russia di Trockij, della dittatura seguita al colpo di Stato a opera del generale Augusto Pinochet in Cile, della Germania di Hitler.  I personaggi, frutto della fantasia dell’autore, sono inseriti quindi in un contesto storico molto preciso, arricchito da dettagli apparentemente marginali che tuttavia contribuiscono a rendere assolutamente verosimili le vicende narrate.

Il racconto è scandito da un ritmo ben determinato: un capitolo narrato in prima persona dedicato a Belmonte, il protagonista del libro, e uno riguardante certi antefatti storici oppure volto a chiarire alcuni aspetti della vicenda nell’ottica di altri personaggi. In questo modo sta al lettore scoprire il quadro generale della situazione e comporlo come un puzzle, un’informazione alla volta, una tessera alla volta; la storia si delinea man mano che si procede. Ciò riesce perfettamente grazie  allo stile che adotta l’autore: fluido e incalzante, non privo di dialoghi coloriti e situazioni di alta tensione pronte a sfociare in una violenza drammatica.

Passato e presente si incontrano in continuazione in questo libro, con una coerenza studiatamente graduale in modo da incastrare alla perfezione tutti i tasselli solo alla fine della storia. Su questo sfondo storico ogni personaggio agisce liberamente, inseguendo i propri interessi e  desideri dettati anche e soprattutto dai trascorsi personali di ognuno di loro: l’amore, la nostalgia, il dolore, il desiderio di vendetta e il senso di incompletezza crescono rabbiosamente mano a mano che impariamo a conoscere i personaggi, culminando nell’attimo finale in cui Belmonte fa la scelta che trasforma il futuro di ognuno di loro e, contemporaneamente,  li riappacifica con un passato fino a quel momento irrisolto.

Insomma, questo racconto in parallelo fa sì che nell’affrontare la lettura è necessario mantenersi sempre concentrati, perché facilmente si perde il filo. L’autore utilizza la latitudine del luogo per indicare dove si sono svolti i fatti; dopo un iniziale momento di smarrimento, ci si accorge che tutte le storie sono in realtà strettamente collegate le une con le altre,  e da quel punto in poi la narrazione diventa molto  più scorrevole e piacevole, perché le precedenti e  continue interruzioni  dalla trama generale possono distrarre. Il libro è ricco di riferimenti storici, potrebbe quindi essere necessario nel corso della lettura fermarsi un attimo e andare a ricercare su Google i vari personaggi storici protagonisti delle varie rivoluzioni e dei vari avvenimenti narrati (anche se nelle pagine finali  del libro c’è un breve glossario).

Juan Belmonte, veterano di diverse guerre, stufatosi del mondo dopo gli anni duri che ha passato, vive sereno agli estremi del Cile meridionale insieme all’amata Veronica, all’amico fidato Pedro e ai suoi cani. Ma presto il suo equilibrio viene turbato: delle vecchie conoscenze non molto gradite tornano a farsi sentire dalla Russia e hanno un compito per lui nella grande capitale, Santiago.

Ha inizio la fine della storia.

La vita personale del nostro protagonista è fatalmente e indissolubilmente legata alla storia della sua terra natia, il Cile. L’entusiasmo per la politica e la passione nel mettere a frutto gli anni di addestramento in Russia sotto la guida del comandante Slava, un grasso e vecchio oligarca, combattendo fianco a  fianco al presidente Allende negli ultimi attimi prima del definitivo colpo di stato; la lotta per la vita nei primi tempi della dittatura insieme alla sua amatissima e fedelissima compagna Veronica, la separazione forzata e la successiva cattura di lei; l’inferno di Villa Grimaldi, il principale centro di tortura della DINA,  la polizia segreta cilena;  la straziante fedeltà all’amore per Juan di Veronica, che seppellì dentro di sé la propria voce, estraniandosi completamente dal mondo pur di non tradire il suo compagno. Questi particolari della sua vita emergono piano piano nel corso della narrazione e acquistano un senso particolare soprattutto alla fine.

Parallelamente alle vicende al 33° Latitudine Sud, Sepulveda racconta un’altra storia, quella di due ex compagni d’armi di Belmonte, Salamendi ed Espinoza, entrambi cileni in esilio che combatterono prima in Afghanistan, e poi con i soldati cosacchi nel Nord della Russia.

Le vite dei personaggi si intrecciano di nuovo, dopo anni trascorsi in luoghi e condizioni di vita completamente diversi, quando Belmonte viene costretto dai servizi segreti russi ad abbandonare il suo rifugio, in una piccola isoletta del Pacifico, per intraprendere un ultimo servizio proprio per il vecchio Slava.

Uno dei personaggi più degni di ammirazione è proprio Veronica, una donna forte, più dello stesso Belmonte. Durante la dittatura, Veronica ha dovuto affrontare torture disumane, ha dovuto resistere fino allo stremo e alla fine è sopravvissuta. È una persona per cui la vita non ha davvero avuto nessuna pietà, segnata talmente in profondità da ciò che ha vissuto che ha perso l’uso della parola. Il suo silenzio rende però il suo personaggio ancora più saldo e profondo. Sepulveda cerca di trasmettere attraverso la complessità del personaggio di Veronica e il suo silenzio, il suo messaggio, che sembra arrivarci senza che lei parli, ma basta la sua estrema fragilità e nudità a trasmetterci la sua profonda lotta interiore in cui cerca di liberarsi dalle sbarre di una paura che l’ha perseguitata  per tutta la vita. Lo scenario di tutto questo è il Cile. L’amore tra Juan e Veronica unisce le pagine di questo libro, emergendo dalla tragicità del racconto e presentandosi come quella forza che spinge i protagonisti a resistere, lei nel passato, quando  subì le più crudeli  torture, lui nel presente, portando a termine l’ultima e pericolosa missione.

Sepulveda riesce a raccontare una storia d’amore senza cadere nel banale e nello scontato e riesce anche a mantenere l’attenzione del lettore fino alla fine, quando stupisce con un finale del tutto inaspettato.

Oltre a essere una fonte storica accurata, di questo libro si apprezza molto la chiarezza con cui Sepulveda è riuscito a far esprimere le emozioni e gli stati d’animo ai  suoi personaggi, e colpisce particolarmente il forte legame che tutti quanti provano per una terra che invece non è stata affatto gentile con loro, ma che tuttavia non hanno mai smesso di amare.

Le vicende politiche che hanno animato la storia del Cile nei primi anni settanta hanno un carattere molto personale per l’autore; Sepulveda infatti, oltre che a essere conosciuto per la sua produzione letteraria, è noto anche per il suo attivismo politico a fianco di Allende: egli stesso, come il suo personaggio Belmonte era un membro della GAP, Grupo de Amigos Personales, le guardie del corpo del presidente, e ha vissuto in prima persona la prigionia, le torture e infine l’esilio, in quanto oppositore del regime dittatoriale di Pinochet.

Ma la scoperta più grande è arrivata dopo aver concluso già da un pezzo la lettura del libro, quando ci siamo imbattuti in un’intervista rilasciata dallo scrittore a La Repubblica: che lo stesso Sepulveda si fosse rispecchiato nel personaggio di Belmonte era evidente anche prima, ma non sapevamo quanto ci fosse di autobiografico fino a quel momento.

 

 

Sei mai stato un uomo davvero felice?
“Mi chiedi troppo, però se ci penso una felicità speciale l’ho provata quando ho riavuto il mio passaporto cileno. Non molto tempo fa, del resto. Mi sono sempre sentito un uomo libero; ma quello straccio di documento, dopo 31 anni di esilio, dopo che avevo passato la vita a sentirmi un uomo cancellato, mi ha fatto uno strano effetto. Come un battesimo che non ti aspetti e quindi una rinascita”.

Per rinascere bisogna morire.
“Sono morto tante volte, se è per questo. La prima quando il Cile fu stravolto dal colpo di Stato; la seconda quando mi arrestarono; la terza quando imprigionarono Carmen mia moglie; la quarta quando mi tolsero il passaporto. Potrei continuare”. Dov’eri quando ci fu il golpe? ” Non fu un semplice golpe, fu un assedio. Facevo parte della guardia personale di Allende. Quel giorno mi trovavo a una trentina di chilometri da Santiago. Ero addetto alla sicurezza delle acque pubbliche; dovevamo difendere le fonti di approvvigionamento. Per ben quattro volte la milizia di Pinochet aveva tentato di avvelenarle”.

Come reagisti alla notizia dell’assedio?
“Cercammo di organizzarci, avanzando verso il centro di Santiago. Si combatteva lungo le strade. Poi sentimmo il rumore degli aerei e le esplosioni. Bombardarono il palazzo della Moneda. Provammo a resistere, soprattutto a Sud dove pensavamo che una controffensiva fosse ancora possibile. Ma il popolo non aveva armi”.

Cosa accadde a quel punto?
“Venni arrestato. Era il 4 ottobre del 1973. Giorno del mio compleanno. Insieme ad altri venimmo circondati dai soldati e dalla polizia. L’accusa che mossero fu alto tradimento della patria e banda armata. Fui torturato, processato e condannato alla pena capitale. Il mio difensore era un tenente dell’esercito. Lui poteva parlare con me, io no. Alla fine mi disse che era riuscito a trasformare la condanna a morte in 28 anni di carcere”.

Tu eri sposato?
“Anche mia moglie fu arrestata. C’eravamo conosciuti da adolescenti. Quando fu catturata non stavamo più assieme. Soprattutto per divergenze politiche. Carmen era di estrema sinistra io socialista. Lei fu portata nell’inferno di Villa Grimaldi. Venne tordi turata insieme ad altre tre donne. Alla fine pensando che fosse morta gettarono il corpo in una discarica. Un passante si accorse che era ancora in vita e fu così che si salvò”.

Come hai fatto a lasciare la prigione e poi il Cile?
“Potrei dirti che a volte la scrittura salva la vita. Il mio insegnante di liceo mandò una mia raccolta di racconti a un premio cubano. Non pensavo assolutamente di diventare scrittore. Ma accadde che due di quei racconti furono pubblicati e poi tradotti in tedesco. Anni dopo, una ragazza di Amnesty vide il mio nome su una lista di cileni condannati e l’associò all’autore di quei due racconti che aveva letto. E fu così che in Germania e in parte del resto d’Europa ci fu una mobilitazione nei miei riguardi che si concluse con la mia scarcerazione e l’espulsione dal Cile nel 1977”.

Lasciasti lì la tua famiglia?
“Quello che restava. Con Carmen ci saremmo rimessi insieme molti anni dopo. Lasciai Carlitos il maggiore dei miei figli. Aveva 5 anni quando lasciai il Cile, lo avrei rivisto solo anni dopo, in Svezia”.

Durante la lettura colpisce molto il fatto che la cruda realtà della dittatura che viene raccontata è dietro l’angolo, quegli anni non sono così lontani. E fa un certo effetto comprendere che il momento in cui Juan torna a Santiago nel Cile post-Pinochet è talmente vicino a oggi che si parla già di Putin, Google Earth e addirittura di iPhone.

In conclusione, pensiamo che sia un ottimo libro specialmente per noi ragazzi, figli di Internet e nati nei primi anni del Duemila, per conoscere meglio il mondo in cui viviamo e la complessa geopolitica del Novecento di cui ogni giorno ci portiamo gli strascichi; per riflettere sul fatto che mentre noi ora ci limitiamo spesso a condividere frasi a effetto con colori, simboli e bandiere su Instagram, non molto tempo fa i giovani davano la vita per un ideale e per salvare i compagni e per vivere quella che era stata  l’ultima avventura di Juan Belmonte.  Alla fine, il nostro autore ci invita, attraverso le parole del romanzo, ad agire per decretare la fine della nostra storia e ad affrontare la vita accettando tutti i suoi rischi e pericoli.

 

Hai paura della morte tu che sei “morto” così tante volte?

“C’ho fatto l’abitudine. E poi la vera saggezza è sapere quando le cose finiscono. Soprattutto uno scrittore deve sapere quando dire basta. Non ripetersi. Perché scrivere deve essere un gesto libero e non una condanna”.
Ti ha mai sfiorato questo dubbio?

“Sì, certo. So che un giorno anche per me verrà il momento di dire basta”.
A quel punto?

“In quel preciso istante Sepúlveda non smetterà di vivere, perché c’è sempre un pezzo di esistenza oltre il racconto, oltre le storie, oltre la letteratura. Sarà come abbandonare qualcosa che mi appartiene. Mi è accaduto con il Cile e l’ho ritrovato, trent’anni dopo. Potrebbe accadere anche con il romanzo, il giorno in cui me ne dovessi allontanare. Tutto finisce, ma niente è davvero definitivo”.


 

ALESSIA FINOTELLO

AURORA DE VITA

CESARE FINCO

GIACOMO PAGLIERO

LEONARDO DE MARCO

TERESA PIDELLO

VIOLA CORTIANA

DELLA CLASSE IV B DEL LICEO CLASSICO

SOTTO LA SUPERVISIONE DELLA PROF.SSA ANNARITA SAPORITO