Giovanna de Monduro
Ovvero, il complotto della mascarìa nel Biellese
«In nome del signore, così sia. L’anno del 1470, addì 13 febbraio della sua Natività. Questa è un’Inquisizione e il titolo dell’inquisizione che si sta facendo e si intende di fare, per opera del Reverendo Padre in Cristo, frate Giovanni Domenico di Cremona, professore di Sacra Teologia, e del Reverendo Padre in Cristo e signore, frate Nicola de Constaninis, dello stesso ordine, dottore di Facoltà e Inquisitore della Sacra Inquisizione dell’eretica pravità, specialmente deputato dalla Sede Apostolica [quale] Vicario in particolare per la diocesi di Vercelli – [è] contro ed avverso Giovanna, moglie di Antoniotto di Monduro». Così si presenta la formula di rito che apre il processo a Giovanna Monduro da Salussola, «donna eretica, di cattiva condizione, voce e fama», accusata di molti e nefandi crimini, di malie e malocchi, da uno stuolo di parenti, vicini e di semplici conoscenti, giudicata colpevole e «gettata sul fuoco così che la sua anima si separi dal corpo» nella tarda estate di quello stesso anno a Miagliano. Un processo a suo modo esemplare che, seppur assai noto a livello locale nella sua dimensione cronachistica, merita ulteriori analisi interpretative, in un quadro di decifrazione antropologica del fenomeno.
Che epoca è la fine del ‘400, per la stregoneria? Sullo scorcio del XV secolo i tempi per il definitivo scatenarsi della “caccia alle streghe” si possono dire oramai maturi tanto a livello strutturale quanto sul piano culturale. Il processo a Giovanna, dunque, non è un unicum, né si distingue per eccezionalità, apparendo anzi quasi idealtipico. La teologia, in quegli anni, viene trasformando degli atti percepiti come minacciosi ed oscuri in “fatti” reali, proponendo una equipollenza sostanziale della mascarìa con l’apostasia e con l’eresia, fondendo e confondendo, in tal modo, fenomeni eterogenei e diversi fra loro nell’ambitonegativo ma funzionale del Male. Le potenze demoniache, in un villaggio del ‘400 come Salussola, hanno del resto manifestazioni assai pratiche e concrete, e, nell’orizzonte psicologico e mentale delle persone, mostrano i loro interventi soprattutto sotto la forma di morti innaturali (improvvise e inspiegabili) di individui o animali domestici. Nelle campagne del Nord le donne che vengono identificate come streghe, partendoovviamente da vicende e storie individuali differenti, mostrano tutte dei profili simili, che sono sempre “costruiti” socialmente. Lo schema che riproduce ogni evento stregonesco, allora, sarà semplice e ripetitivo. Si parte da un diverbio, uno sgarbo, un rifiuto, una baruffa, una predizione cattiva: così avviene anche per Giovanna che, a detta della cognata Antonia, giusto l’estate del 1469, ha predetto la morte del ‘più considerevole’ dei maschi di casa Monduro, morte a quanto pare inveratasi. Poi, nel corso di un litigio, le ha detto: «Antonia, ti farò venire tali maledizioni, che mai sarai contenta!». E così, poco dopo, i due figli della cognata vengono ritrovati soffocati – astricti, ed affascinati – fassinati, nel sonno, spirati ambedue perché maschati, d’improvviso e senza ragione visibile. Giovanna si vanterà di aver previsto anche la morte di un terzo bambino, figlio di Elena Monduro, e così, sbruffonaggine o estrema indelicatezza, è lei stessa a innescare un circuito di voci e rancori irrazionali. Le accuse di stregonerie sono infatti, tipicamente, delle spiegazioni date a disgrazie non altrimenti comprensibili, e sono anche, al contempo, modi di risoluzione deiconflitti interpersonali. Le persone ricorrono a questo genere di accuse, in modo più o meno consapevole, per giustificare un evento straordinario, ma anche per riparare qualche rottura dei rapporti, dei meccanismi di solidarietà di gruppo così tipici delle società face to face. Quando questo processo prende corpo, nelle menti e nei comportamenti, allora gli individui della comunità di solito superano il senso di colpa che provano nel dir male degli altri proiettando tutte le responsabilità del malfatto in una sola persona, che può essere una vecchia, strana ed emarginata, oppure una giovane, come è Giovanna, inserita in un nucleo famigliare a sua volta in relazione con gli altri, e però, magari, litigiosa e fumantina, oppure troppo determinata e prepotente, o, ancora, addetta a mestieri particolari, come sono la mugnaia e la levatrice (cibo e riproduzione: i pilastri della vita), o, infine, dedita a pratiche sospette in ipsa natura, come il saper riconoscere erbe e il preparar medicamenti. Il punto di partenza, comunque, è sempre la pubblica voce e fama, e infatti è per consenso unanime che anche Giovanna viene segnalata alle autorità ecclesiastiche quale eretica e apostata, ovvero come strega, sprofondata nel nephandissimus mascariæ vitium. A denunciarla, in questo caso, sono addirittura i suoi parenti prossimi, ancorché acquisiti, Martino e Guglielmino Monduro (marito, quest’ultimo, di Antonia), mentre a confermare l’accusa è un’altra confessa strega, tale Maddalena, che dal carcere sostiene che Giovanna è un’incantatrice (mascha), della setta delle streghe (strigarum), e di averla veduta spesso in mascarìa. A queste testimonianze si aggiungeranno poi quelle di vicini e conoscenti, e anche la deposizione di un nobile, il signor Manfredo de’ Guidolardis, il quale riferisce che, quattro anni prima, sua nuora, avendo un bambino ammalato, ricevette la visita di Giovanna e che questa le fece molta paura, perché aveva udito e si sospettava che fosse una strega, e, dopo Giovanna, un’altra strega sua complice era sopraggiunta, tale Lanfranca, la quale predisse che il bambino, ammaliato, sarebbe di certo morto in capo ad un anno, dacché aveva iniziato a piangere per quella malattia, e che nessuna medicina lo avrebbe potuto salvare, e così era avvenuto. Anche Elena Monduro, nipote di Antonio, di sua iniziativa si avvicina al Vicario sulla strada per Villanova, dicendogli che Giovanna, fra le altre cose, ha avvelenato tempo prima un certo pozzo che sta tra le cascine dei fratelli Monduro, perché le avevano negato il permesso di attingervi l’acqua.
Così il 6 febbraio Giovanna è convocata in tribunale. Acconsente a presentarsi di fronte agli inquisitori, ma poi scappa, in preda al terrore. La riprendono facilmente e, nel corso degli interrogatori preliminari, nega tutto: «Io sono accusata di andare alla stregheria ma non è vero, ammenocché io non vi vada in sogno». Il 13 febbraio del 1470 inizia il processo vero e proprio, ovvero si passa dal tempo di grazia(che corrisponde più o meno alla nostra fase istruttoria) al tempo di giustizia. Si decide allora d’ottenere la confessione di Giovanna intorno a sette punti: se appartiene alla setta maledetta delle streghe; se ha bevuto dal cosiddetto “bariletto” (un recipiente che contiene il liquido iniziatico), e che sapore ha; dove o da chi o mediante chi ha avuto notizia della setta delle streghe e quando vi è entrata, quante volte è andata al sabba (cioè il convegno delle streghe) e con chi; se ha rinnegato Dio, il battesimo e la croce e se ha calpestato la croce; se ha visto il principe di questa setta malefica (il diavolo o un suo aiutante) e se ha ricevuto da lui delle cose o delle promesse e se lo ha adorato e come, e se abbia giaciuto con lui; se ha commesso incantesimi, venefici e sortilegi, se sa fare e sciogliere malie, con quali strumenti, quante volte e a chi, e se conosce l’arte della guarigione; infine, se sia già finita nelle mani dell’inquisizione e se abbia abiurato.
Fermiamoci un attimo, perché il processo a Giovanna Monduro cade in un momento molto particolare della storia della lotta della Chiesa contro l’eresia diabolica. È proprio tra la fine del Quattrocento ed i primi anni del Cinquecento, infatti, che si registra in Italia la maggiore concentrazione dei processi per stregoneria, in sostanziale controtendenza rispetto alle persecuzioni che avvengono in ambito europeo. Tutti questi processi quattro-cinquecenteschi, vedono, come nel caso biellese, un crescente concorso di giudici ecclesiastici, sempre più spesso inquisitori (è in questi anni che nei documenti viene anche introdotto il termine cursus, corso, che poi diventa quasi ovunque sabba), anche se il consolidamento delle pratiche e delle norme che regolamentano tali questioni è lento, e questi giudici mostrano, nel corso dei processi,atteggiamenti ancora ambigui o anche irresoluti, che si possono spiegare sia con l’incertezza della dottrina, sia richiamandosi a una prassi giudiziaria che non prevedeva ancora particolari approfondimenti. Comunque sia, le similitudini di fondo sono sempre evidenti e si possono ricondurre a una traccia narrativa uniforme: la strega si reca al sabba, invitata da donne (da streghe) più anziane; al sabba incontra il diavolo, cui si dà sia spiritualmente sia carnalmente, poi, con altre persone, compie dei riti d’adorazione che sono l’inversione del comportamento “normale”; infine ritorna al suo luogo di residenza e, nei giorni successivi, con l’aiuto del demonio compie alcune malvagie azioni. Spesso sia l’andata e sia il ritorno avvengono con mezzi innaturali,in un’atmosfera magica. All’interno della narrazione, la struttura portante è data dalla interconnessione di tre elementi: l’apostasia di fede, la partecipazione al sabba (il convegno diabolico), i malefici e i malocchi perpetrati da quel momento in poi. Questa grande uniformità, che contrasta con la vividezza dei particolari, produce sempre nei contemporanei la convinzione che il sabba sia reale, convinzione tanto più forte in quanto cercata e rassicurante, nella misura in cui offre tutta una serie di significati e di soluzioni a paure collettive e a conflitti interpersonali. È su questa base che, in una ampia zona a cavallo dei due versanti delle alpi occidentali, si diffonde alla fine del XIV secolo la credenza della setta delle streghe e degli stregoni,inimici della cristianità, una costruzione culturale grandiosa, che risolve ed al contempo solleva timori reali, i quali a loro volta rimandano a stereotipi religiosi e sociali, che portano la massa dei fedeli a percepirsi come asserragliati in una cittadella assediata dal demonio. L’invenzione mitopoietica della setta stregonesca, quindi, è lenta e complessa e alla fine porta alla fissazione di paradigmi tipicamente multifunzionali, come le teorie sul complotto ad opera di lebbrosi ed ebrei (e poi, appunto, streghe) contro la società cristiana, complotto alle spalle del quale c’è quasi sempre un capo o un principe mussulmano. A partire da gruppi che si situano ai margini della comunità, un po’ alla volta, il nemico esterno, supremo, l’anello di congiunzione fra le varie teorie, diviene l’Avversario, il diavolo, signore del male. Quest’immagine finisce per assorbire tutte le altre, comprese quelle del volo notturno e delle metamorfosi animali (che sono di chiara ascendenza popolare e rappresentano la parte più folklorica del sabba). La difficoltà d’analisi di questi processi è notevole, e discende dal fatto che noi li vediamo già estrapolati dal loro contesto culturale originario e inseriti nella cornice dotta e “strutturante” del complotto diabolico: le due visuali, quella dal basso e quella dall’alto, inquisitoriale, oltretutto, si influenzano e si compenetrano a vicenda; alla propensione demonologica del clero, si affianca pertanto l’attrazione irresistibile che l’immaginario demoniaco (depositario censurato del desiderio di sesso sfrenato, di potenza e di ricchezza) esercita sugli individui, specie quelli provenienti dagli strati più marginali della società. A suggellare il tutto, quest’azione mitopoietica, circolare, è resa ancor più efficace e più pervasiva dalla stessa predicazione del clero, dai racconti popolari, dalle letture dei ceti colti e dalle dicerie di paese (e in tal senso non ci si deve stupire se i racconti della cognata di Giovanna, Antonia, hanno il medesimo tenore e pressappoco lo stesso contenuto dei pettegolezzi riportati all’inquisitore dal nobile Manfredo). Tutto ciò spiega come, una quarantina di anni prima del processo a Giovanna, il modello eziologico ed interpretativo del sabba sia di fatto pronto. In un testo scritto dal domenicano Johannes Nidera Basilea tra il 1436 e il 1438, dal titolo Formicarius (i vizi degli uomini sono accostati ai comportamenti delle formiche), c’è già tutta quanta la descrizione della bevanda di cui parla ai frati Giovanna, e che è, dice, il «battesimo» del suo demone (un liquido dall’aspetto ripugnante che sa di urina e che i processi ai valdesi nella fascia pedemontana piemontese, negli anni ’80 del ‘300, avevano spiegato essere ricavato da sterco di rospo e da cenere di capelli e peli pubici; Giovanna ne beve da un «bariletto», mentre di un «barilotto»parlavano certi fraticelli francescani accusati a Roma nel 1466 da speciali delegati papali e rinchiusi in Castel Sant’Angelo, ma qui, nel liquido, ci son pure del vino e i resti di un bambino ucciso). A questo punto Giovanna ha già violato l’impegno assunto con il battesimo di «rinunciare alle opere di Satana» e di «mantenere e osservare la fede cattolica»; a rendere più delicata la sua situazione c’è il coito sodomitico, che pure è, a sua volta, molto frequente, tanto che una ventina di anni dopo il processo alla Monduro, per esempio, Caterina Bonivarda di Rifreddo (Cuneo) ricorderà che «non aveva ricavato piacere alcuno, poiché il demone aveva un membro virile molto freddo e dissimile da quello degli altri uomini [ipsa non delectebatur, quia dictus demon habebat membrum valde frigidum et dissimilem aliis hominibus]». Anche Giovanna bacia il fondoschiena del demonio, che abusa di lei per due volte e le inietta in ventre una sostanza fredda da un membro virile altrettanto freddo, «frigidum sicut glacies». Anche lei si reca al sabba, e fa i tripudi (in località Brianco). Racconta che la sua iniziazione data più di venti anni prima e che, per ciò che concerne i sacramenti, il demone che le fa da amante, e che si chiama Zen, le ha ordinato di non prendere mai la comunione: quando il sacerdote la domenica a messa alza l’ostia consacrata, Giovanna non lo guarda, o fa le “fiche” sotto le vesti (un gesto osceno che consiste nel tendere il pugno chiuso col pollice stretto fra l’indice e il medio e sporgente in fuori); una volta ha sputato l’ostia e in un’altra occasione l’ha portata di nascosto a casa e l’ha calpestata. Quando non può fare a meno di comunicarsi, le si strozza la gola («deglutire non potebat»). Si tratta, come si diceva, di racconti del tutto ricorrenti e stereotipati, come le saltuarie prese di distanza dalla realtà degli eventi raccontati, descritti talora come sogni o come ricordi confusi e poco chiari.Quanto alle malie ed ai venefici, comunque, Giovanna sta bene attenta a non compromettersi, sostenendo di non averne mai praticati. Proprio per questo, tuttavia, viene torturata, pur in forma leggera. A quel tempo una qualsiasi forma di tortura (quæstio), spesso definita come procedura con diligenza, prevede il rispetto di certi tempi (sessioni di circa mezz’ora, non oltre) e di certe modalità (non si torturano bambini, o donne gravide, e per tutti quanti si possono arrecare soltanto danni non permanenti, sine effusione sanguinis). Non sono scelte “discrezionali”. Solo rispettandole la confessione è considerata giuridicamente valida (chi confessa/abiura, per altro, se viene perdonato, non è tuttavia mai assolto). Si tratta, insomma, di praticheregolate: «A differenza della tortura quale può essere praticata dalle nostre polizie contemporanee, la tortura dell’Inquisizione, all’interno di quel tipo di procedura, non [è] l’utilizzazione di tutti i mezzi possibili per strappare alla fine all’individuo la verità che [può conoscere]. [Essa è] in realtà un esercizio ben determinato, nel quale il giudice [detiene] il diritto di utilizzare l’una o l’altra tortura con l’uno o l’altro strumento, per un certo tempo, [e] oltre non [può] andare […]. Si spiega così il fatto che l’accusato stesso [possa] in qualche modo vincere, se [resiste] alla prova». Gli inquisitori medievali sanno l’inutilità di torture troppo prolungate,o di confessioni estorte: in effetti, il ruolo della confessione giudiziaria è capovolto rispetto al nostro processo penale e la procedura inquisitoriale vede nella tortura semplicemente un mezzo (drammaticamente) persuasivo per indurre ad una confessione che sia vera, piena e senza paura, remotis omni metu et causa metu. Misurare la severità di questi tribunali di fede col metro delle pratiche di tortura o col numero dei roghi, perciò, fraintende completamente ciò che è l’oggetto di studio, perché finisce per farci dimenticare che non si tratta di tribunali penali ma religiosi, il cui fine ultimo è sradicare la devianza ed il dissenso, un errorintellecti, come si dice allora, in situazioni che spesso concernono reati senza vittime (oggi si parlerebbe di victimless crimes). Con Giovanna, ad ogni modo, le torture sortiscono esiti modesti, limitandosi questa a farequalche nome di streghe, viventi e soprattutto morte, di Biella, Andorno e Salussola, così che il Vicario si convince che «la piena verità non si sia avuta, né si possa avere, ammenocché, forse, consumandola con le torture», cosa che gli inquisitori rinunciano a fare.
Dal momento che la dimensione demoniaca è da collocarsi sul piano dell’immaginario, ovvero dando per scontato che la verità di tali fatti, anche per i contemporanei, non è empiricamente accertabile, la natura delle confessioni deve essere sempre ricondotta «nel metareale, da intendersi come la costruzione culturale che afferma e descrive l’esistenza dell’universo demoniaco». In quest’ultimo, tuttavia, credono tutti, imputati, inquisitori, spettatori, protagonisti ed accusate. Insomma, il punto è che, prima di una sfuggente ed ambigua mentalità intollerante degli inquisitori, vi è tutto un contesto repressivo che si vuole difendere dal “male”: ad abolendam, ad purgationem, ad extirpandam, ad exterminandum. È una violenza linguistica e prassica, che procede con cautela: per la salvezza delle anime, attraverso la punizione dei corpi, i frati inquisitori/predicatori non hanno fretta: nel caso di Giovanna dall’escussione dei primi testi alla emanazione della sentenza passano circa sedici mesi. I tempi degli interventi degli inquisitori sono lunghi, ma inesorabili, una volta messa in moto la macchina poliziesca e giudiziaria; e siccome la loro attività trae legittimità da parte del potere pontificio ed è regolata dal diritto canonico, a sua volta fondato sul medesimo potere, l’aspetto giuridico-istituzionale, nei processi contro le streghe, ha un valore eminente. Però la paura nei confronti di Giovanna è, infondo, anche una paura riflessa: una excusatio non petita, perché si tortura per cacciare la paura dell’altro ma anche propria, si marginalizza nell’ormai evidente consapevolezza di quanto sia semplice venire marginalizzati. La modernità mostra la vergogna che ormai promana automaticamente dall’allontanamento dal centro della vita civile e del consorzio umano, lo scadimento al rango di «viles et abiectæ personæ», un segno di anonimato infame, come Machiavelli che «rinvolto in tra […] pitocchi [trae] il cervello in muffa».
Così Giovanna viene condannata. La sua sentenza è decisa e controfirmata da 33 uomini, i quali tutti attestano che non hanno mai veduto o saputo o sentito dire che la predetta sia o sia stata scema o demente o instabile nei sensi, nei detti, nei fatti. Il verdetto di morte corporale, promulgato dall’egregio signor Francesco Bertodano, figlio e luogotenente dello spettabil signor Ludovico Bertodano, conte palatino e signore dei luoghi, è eseguito nel luogo della giustizia, vicino al ruscello di Dunasco, che confina con la pubblica via fra Tollegno e Miagliano, mediante l’opera di un maestro a ciò deputato. Come quasi sempre le vittime di rogo, è probabile che muoia soffocata dal fumo che si leva dalle fascine in fiamme. Il fuoco, dice Esther Cohen, riduce in cenere ciò che in precedenza ha infiammato mente e genitali. Ne fa spazzatura. E lo storico, come scrive Benjamin nei suoi Passages, altro non è se non un raccoglitore di rifiuti: salva dal macero ciò che è stato rigettato, perso, rifiutato e disprezzato. Così si è cercato di fare anche in questo caso.
M. Franco, Il complotto della mascarìa,
in «Rivista Biellese», XXIV, 4, ottobre 2020, pp. 30-37
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