Il medico della peste era un dipendente pubblico che veniva assunto dalle città colpite dalle pestilenze. Aveva tre compiti fondamentalmente: alleviare le sofferenze delle persone colpite dalla peste, compilare il libro pubblico che conteneva le ultime volontà degli ammalati e raccogliere nei registri funebri il numero approssimato dei morti. Durante le fasi acute delle pestilenze era l’unica persona che poteva girare liberamente senza essere condannato a morte, pena inflitta a chi veniva scoperto a girare per la città. Inoltre aveva il compito di trasmettere la memoria storica degli eventi ricordando alla popolazione cosa era successo durante il periodo di pestilenza. Ne è un esempio Alvise Zen , medico della peste a Venezia durante la peste del 1630, che scrisse una lettera a monsieur d’Audreville raccontando gli avvenimenti.

Eccellentissimo monsieur d’Audreville, vi racconterò quei terribili giorni solo perché sono convinto che senza memoria non c’è storia e che, per quanto amara, la verità è patrimonio comune. E poiché, dopo l’orrore, quella vicenda si trasformò in una festa, anzi in una delle feste più amate dai Veneziani, mi è meno gravoso ricordarla. Ma veniamo ai fatti.
Per secoli non ci fu calamità più spaventosa della peste. Il morbo veniva dall’Oriente e dunque tutte le strade del commercio, che era per Venezia la principale fonte di ricchezza, si trasformarono in vie di contagio. Era il 1630. Assieme alle spezie e alle stoffe preziose, le navi della Serenissima trasportarono anche la morte nera.
Ah! mio caro amico, nemmeno le guerre e le carestie offrivano uno spettacolo così desolato. La Repubblica approntò subito una serie di provvedimenti per arginare l’epidemia: furono nominati delegati per controllare la pulizia delle case, vietare la vendita di alimenti pericolosi, chiudere i luoghi pubblici, perfino le chiese. I detenuti vennero arruolati come “pizzegamorti” o monatti. Potevamo circolare liberamente solo noi medici. Gli infermieri e i becchini dovevano portare segni distintivi visibili anche da lontano; noi indossavamo una lunga veste chiusa, guanti, stivaloni e ci coprivamo il volto con una maschera dal naso lungo e adunco e occhialoni che ci conferivano un aspetto spaventevole. Alzavamo le vesti dei malati con un lungo bastone e operavamo i bubboni con bisturi lunghi come pertiche. Uomini e donne malati venivano portati nell’isola del Lazzaretto Vecchio; le persone che erano state a contatto con gli appestati erano invece trasferite in quella del Lazzaretto Nuovo per più di venti giorni a scopo cautelativo. Su una nave era stata issata una forca per giustiziare i trasgressori delle ordinanze igieniche e alimentari. La peste straziava i corpi che erano ricoperti da “fignoli, pustole, smanie” e mandavano un odore fetido. I ricchi morivano come i poveri. Volete sapere quanti Veneziani se ne andarono al Padreterno? Ottantamila, pensate, in diciassette mesi; dodicimila nel novembre del 1630; in un solo giorno, il 9, furono cinquecentonovantacinque.

 

Non c’era più chi seppelliva i cadaveri. Per i canali transitavano barche da cui partiva il grido “Chi gà morti in casa li buta zoso in barca”. Per le strade cresceva l’erba. Nessuno passava. Illustrissimi medici dell’università di Padova, chiamati per un consulto, disconoscevano addirittura l’esistenza del morbo; guaritori e ciarlatani inventavano inutili antidoti; preti e frati indicavano nell’ira divina la vera causa di tutto quell’orrore calato su Venezia.
La situazione era davvero tragica. Allora il doge Nicolò Contarini, a nome del Senato, fece voto solenne di edificare una chiesa “magnifica e con pompa” alla Madonna della Salute se la Vergine avesse liberato la città dalla spaventosa malattia. Promise, inoltre, che ogni anno il 21 novembre, giorno della presentazione al Tempio di Maria, si sarebbe colà recato in processione. Durante l’inverno la peste si affievolì, ma nel marzo del 1631 ebbe una recrudescenza. Solo in autunno fu debellata. Contarini era morto e il nuovo doge, Francesco Erizzo, volle subito adempiere il voto. Bandì dunque un concorso per l’edificazione del tempio ma intanto fece erigere una chiesa di legno riccamente addobbata dove governo e popolo, dopo aver attraversato il Canal Grande su un ponte di barche, si recarono in processione a esprimere la loro riconoscenza alla Madonna. Questo è quanto, monsieur: ve ne affido la testimonianza per i posteri.

L’abito del medico della peste , divenuto uno dei simboli più riconoscibili della Morte Nera, assunse la sua forma all’inizio del 1600 grazie a Charles de Lorme, medico di Luigi XIII.L’abito era nero ed era fatto di tela cerata.

La maschera disponeva di un lungo becco all’interno del quale venivano inseriti fiori secchi, lavanda, timo, mirra, ambra, foglie di menta, canfora, chiodi di garofano, aglio e spugne imbevute di aceto, elementi che avrebbero dovuto ridurre al minimo l’inalazione di miasmi (esalazioni malsane,escrementi riversati in strada, acqua stagnante, scarti di produzione e via dicendo).Inoltre disponeva di due buchi per gli occhi coperti da lenti di vetro.L’origine della maschera risale alle prime epidemie che colpirono l’Europa durante il XIV secolo,tuttavia aveva una struttura più rudimentale.

(Maschera utilizzata da un medico della peste: indossata alla fine del 17 ° secolo dai medici che visitano le piante pestifere. Proveniente dal lazzaretto di Venezia)

Lo scopo della maschera era di tener lontani i cattivi odori, all’epoca ritenuti, secondo la dottrina miasmatico-umorale , causa scatenante delle epidemie, preservando chi l’indossava dai contagi.Infine ,come accessorio, veniva usato un bastone speciale. allo scopo di esaminare i pazienti senza toccarli, per tenere distanti le persone e per togliere i vestiti agli infettati. Le persone di quell’epoca erano convinte che la maschera rendesse realmente invulnerabile chiunque la indossasse. Ne è una prova un componimento del XVII secolo che oltre a sottolineare l’efficacia della maschera, descrive il resto dell’abito del medico:

Come si vede nell’immagine,
a Roma i medici compaiono
quando sono chiamati presso i loro pazienti
nei luoghi colpiti dalla peste.
I loro cappelli e mantelli, di foggia nuova,
sono in tela cerata nera.
Le loro maschere hanno lenti di vetro
i loro becchi sono imbottiti di antidoti.
L’aria malsana non può far loro alcun male,
né li mette in allarme.
Il bastone nella mano serve a mostrare
la nobiltà del loro mestiere, ovunque vadano.

Tuttavia la popolazione non amava l’abbigliamento indossato dai medici della peste, accostandolo all’idea della morte. L’abito del medico della peste cadde in disuso durante il XVIII secolo.


 

SITOGRAFIA

https://it.wikipedia.org/wiki/Abito_del_medico_della_peste

https://www.vanillamagazine.it/il-macabro-ma-indispensabile-mestiere-di-medico-della-peste/


ARTICOLO DI LORENZO BIANCO DELLA CLASSE III I DEL LICEO LINGUISTICO