È il 1945 e le truppe inglesi, oltre a combattere contro i soldati tedeschi in Germania, hanno un altro compito: girare filmati dei campi di concentramento liberati. La richiesta è del Ministero dell’Informazione britannico, che vuole realizzare un documentario — di propaganda, pensato per i tedeschi e non gli inglesi — con cui mostrare alla popolazione la realtà dei campi di concentramento.

Già nel febbraio del 1945 il regista Sidney Bernstein è incaricato di occuparsi di questo lavoro: prendere i filmati che arrivavano dal fronte e trasformarli in un film. E Bernstein, conscio della mole e della difficoltà dell’opera, chiede aiuto dell’amico Alfred Hichcock e i due si mettono insieme al lavoro sul documentario. Bernstein si occupa della regia, mentre Hitchcock scrive uno script per accompagnare le immagini e lavora con i montatori per scegliere i filmati e trasformarli in una narrazione coerente.
Il progetto, però, viene presto bloccato. Nell’agosto 1945 i rapporti politici tra Regno Unito e Germania sono già cambiati e il Ministero degli Esteri (non più quello dell’Informazione) invece di calcare la mano sui campi di concentramento, preferisce percorrere la strada della riabilitazione del Paese.

Da lì in avanti, il film rimane fermo negli archivi del Imperial War Museum per quasi quarant’anni e conosciuto semplicemente per il suo numero d’archivio: “F3080”. Il film esce dagli archivi solo nel 1984, quando viene proiettato in una versione incompleta al festival del cinema di Berlino. Poi, nel 1985, il programma Frontline della della rete statunitense PBS acquisisce i diritti per trasmettere il film e lo manda in onda, esattamente come è stato trovato, intitolandolo Memory of the Camps. Il film è ancora incompleto: manca la sesta e ultima bobina di filmato e il soggetto scritto da Hitchcock non è mai stato registrato. PBS chiede allora all’attore Trevor Howard di registrare la traccia sonora e manda in onda il film senza video nella parte conclusiva, montando la voce di Howard sopra immagini statiche.

 

Hitchcock era stato arruolato dal suo amico e mecenate Sidney Bernstein per aiutare la realizzazione del doc, sulla base del materiale filmato dai militari inglesi e dell’Armata Rossa durante la liberazione del campo di concentramento di Bergen-Belsen. Il suo ruolo è stato minore ma significativo, è stato coinvolto a metà progetto e ha consigliato i produttori sulla seconda parte del lavoro. I cameraman della British Army Film Unit che filmarono le scene erano soliti scherzare sulla reazione di Hitchcock di fronte al loro orribile girato: ne venne così traumatizzato che rimase lontano dai Pinewood Studios londinesi per una settimana.

Situato in Bassa Sassonia (Germania orientale), a pochi chilometri dalla cittadina di Celle, il campo di concentramento di Bergen Belsen è stato operativo per tutta la durata della Seconda Guerra Mondiale. Le atrocità che vi furono commesse resero Bergen Belsen simbolo dei crimini contro l’umanità commessi dai nazisti.

Aperto fra la fine del 1939 e l’inizio del 1940 come luogo di detenzione per i prigionieri di guerra e «campo per la detenzione di civili» (Zivilinterniertenlager), nel quale prigionieri ebrei, mantenuti in condizioni accettabili, venivano usati come pedine di scambio per prigionieri tedeschi, ospitò fino alla primavera del 1942 soprattutto soldati sovietici: 20.000 uomini circa, che sarebbero morti di stenti, freddo o per le ricorrenti epidemie di tifo esantematico.

Le condizioni per i detenuti di Bergen Belsen peggiorarono progressivamente dalla metà del 1942: prima la trasformazione di Bergen Belsen in «campo di concentramento» (Aufenthaltslager); poi, nell’aprile del 1943, la cessione del controllo del campo alle SS. Un anno dopo, grosso modo a partire dal marzo del 1944, Bergen Belsen viene destinato ad alloggiare i prigionieri malati, che venivano trasportati lì da altri campi.

La situazione degli internati, già obiettivamente disumana, subisce un ulteriore peggioramento alla fine del 1944: l’offensiva dei russi nell’est europeo convince le autorità tedesche della necessità di evacuare i prigionieri di altri campi, che vengono fatti confluire tutti a Bergen Belsen; la Germania, stremata da lunghi anni di guerra e ormai minacciata nella sua stessa integrità territoriale, non dispone più di risorse sufficienti per alimentare i reclusi né ha l’interesse di occuparsene.

Al fine di mantenere la situazione sotto controllo, viene designato un nuovo comandante: lo SS-Hauptsturmführer Joseph Kramer, passato alla storia come Bestie von Belsen, la Belva di Belsen, per la crudeltà spaventosa mostrata verso i prigionieri. Agli occhi dello Stato Maggiore Tedesco quest’uomo, nel cui curriculum figurava la direzione di Birkenau, aveva le qualità necessarie per garantire l’ordine.

Secondo quanto attestano gli atti dei processi nei quali venne implicato nell’immediato dopoguerra, Joseph Kramer non fece assolutamente nulla per migliorare la situazione. Mentre lui e gli ufficiali godevano di un trattamento signorile, nei primi mesi del 1945, a Bergen Belsen morirono circa 40.000 persone per la denutrizione, le inesistenti condizioni igieniche, le malattie e il freddo. Fra questi sventurati anche Anna Frank e la sorella Margot.

 

 

Se mai, nella storia, su questa terra è esistito l’inferno, si trovava a Bergen Belsen nell’aprile del 1945.

 

 

 

 

Il campo di Bergen Belsen fu liberato dalle forze armate inglesi il 17 aprile 1945. Dieci giorni dopo arrivano i primi ambulanzieri dell’American Field Service. La loro sezione è comandata da Whitfield J. Bell, che ha lasciato questo resoconto:

«Il Campo venne liberato il 17 aprile 1945 dal 115° Reggimento scozzese della Seconda Armata Britannica. Il Campo si trovava due miglia a sud est di Belsen, una piccola città tedesca a circa 75 miglia a sud est di Brema. I soldati trovarono qui fra 40.000 e 50.000 internati, che a stento potevano essere considerati vivi. C’erano anche circa 10.000 corpi insepolti. L’area totale del campo era inferiore a 50 acri (poco più di 20 ettari, N.d.T.). In Gennaio morirono 6.000 persone, 10.000 in febbraio, 17.000 in marzo e fra l’1 e il 16 aprile 17.000. Durante le ultime due settimane di controllo tedesco, i morti erano approssimativamente 2.000 al giorno. 
Dopo la liberazione, fra il 17 aprile e il 1 maggio, nonostante tutti gli sforzi delle autorità mediche britanniche, morirono altre 10.000 persone e furono sepolte. La media giornaliera di morti in quel periodo era di circa 600 al giorno. Poi, cominciò a calare, e dopo il 12 maggio era scesa sotto i 100 morti al giorno.

Durante gli ultimi dieci giorni di controllo tedesco, non si trovava nessun genere di cibo. La razione normale di cibo era un litro di zuppa di rape al giorno, una fetta di pane nero alla settimana. Nel campo, i sessi erano separati, soprattutto nell’intento di dividere le famiglie…. Le persone vivevano ammassate in baracche di legno a un piano di circa 100 piedi per 30 (circa 30 metri per 10, N.d.T.). Nella maggior parte di questi rifugi non c’erano letti, solo pagliericci e tavole di legno. In una baracca delle sezione femminile c’erano, secondo un calcolo preciso, 1.351 donne.

Tutti nel campo erano malati, e molti avevano diverse malattie contemporaneamente. Verso la fine del dominio tedesco, il cannibalismo nella sua forma più orribile – consumo di cuori o di viscere, sia dei morti sia di chi era ancora in vita – stava diventando prevalente».

Gli ambulanzieri dell’American Field Service non cercano solo di salvare vite umane, ma provano a dare conforto a questi sventurati: tentano di comunicare con loro, di essere gentili, provano a restituire una speranza. Il compito si rivela al limite delle umane possibilità. Per numerosi ambulanzieri la parola scritta, tramite diari o lettere ai familiari, si rivela uno strumento utile ad analizzare la situazione: per trovare ogni giorno forze nuove e non cedere, sopraffatti dallo strazio.

Questo scrive Lewis M. Allen in una lettera privata: «Quando siamo arrivati, nel campo c’erano circa 65.000 persone di varie nazionalità – Polacchi, Russi, Cechi, Francesi, Greci, Belgi etc. – e tutti erano praticamente morti, esito di una sistematica denutrizione.

Sembravano tutti degli scheletri viventi; soffrivano di tubercolosi e di tifo, senza contare tutte le altre malattie e le complicazioni. Ma la cosa peggiore erano i cadaveri. Circa 30.000 cadaveri giacevano nei dintorni del campo, insepolti – non credo tu possa immaginarlo.

Gli internati non ricevevano nessuna assistenza. Appena qualcuno moriva, veniva scaraventato fuori dalla finestra dagli altri, se ne avevano la forza. In molti edifici, i prigionieri erano troppo deboli per riuscirci e i cadaveri rimanevano a marcire in mezzo ai vivi. Alcune di queste stanze erano talmente piene che non c’era lo spazio per distendersi, a meno di non giacere gli uni sugli altri. In certi casi, alcuni cadaveri si erano così strettamente uniti al corpo dei vivi, che è stato necessario staccarli a forza. So che tutto questo potrebbe sembrare assolutamente incredibile, ma io non sto cercando di impressionarti.

Ambulanzieri a Bergen BelsenEravamo in un reparto pieno di donne, una delle quali cercava di dire al medico qualcosa in tedesco, che lui però non riusciva a comprendere. Qualcuno indicò me dicendo che io sapevo parlare tedesco: immediatamente venni avvicinato da questa donna, mentre tutti gli altri che riuscivano a parlare gemevano e piangevano, rivolgendosi a me. Questa donna continuava a chiedere perché non li portavano in ospedale, perché non li facevano uscire dal campo, perché non davamo loro del cibo… Io le ho detto che noi eravamo ancora pochissimi, che c’erano pochi rifornimenti, che non avevamo abbastanza letti o ospedali dove metterli, che ci sarebbe voluto del tempo per curare così tante persone. Ma lei mi ha preso per un braccio e mi ha portato davanti a diverse ragazze, indicandole una a una – questa qui, ha solo quindici anni con un viso di settanta e un corpo di cinque, e così via, e mi chiede perché almeno non hanno portato via i giovani, che hanno ancora una vita da vivere. Non potevo fare altro che ripetere che stavamo facendo tutto il possibile – ma loro ancora non capivano, non potevano capire».

L’8 maggio 1945 la Germania si arrende senza condizioni agli Alleati. La guerra è finita, ma a Bergen Belsen l’emergenza continua. Sembra di vivere in un incubo: ogni giorno i morti sono centinaia; le condizioni dei sopravvissuti sono spesso gravissime; numerosi prigionieri, stremati da anni di sofferenze, hanno perso la ragione.

Il lavoro degli ambulanzieri è particolarmente duro, sia per le condizioni oggettive del servizio sia perché negli occhi degli assistiti non c’è la gratitudine del soldato che è stato soccorso sul campo di battaglia, ma la paura e la diffidenza di chi ha subito tante e tali violenze da perdere la ragione. Queste sono le condizioni: eppure non solo gli ambulanzieri in servizio resistono al loro posto, ma altri si offrono volontari.

Per ridare salute e dignità umana ai prigionieri liberati, il campo viene attrezzato con strutture nuove. Uno degli edifici più importanti è la cosiddetta Human Laundry, la Lavanderia umana, dove gli sventurati vengono portati uno a uno per essere lavati e liberati dai parassiti. Questa la testimonianza dell’ambulanziere John M. Evans:

«Il nostro lavoro era quello di evacuare le persone dal campo e portarle nella Human Laundry. Lì c’erano circa venti tavoli e due infermiere tedesche per tavolo. Le persone venivano scaricate dalle ambulanze da inservienti tedeschi – cioè soldati tedeschi prigionieri. Le persone venivano stese sui tavoli e lavate completamente; i capelli venivano tagliati solo se era necessario e l’intero corpo era spolverato accuratamente con antiparassitari. Erano poi avvolti in coperte pulite e trasportati in ambulanze decontaminate fino all’ex caserma tedesca… Di loro si prendevano cura delle suore inglesi infermiere che erano state portate a Belsen prima che noi ambulanzieri cominciassimo a lavorarci.

Ambulanzieri a Bergen BelsenLe persone dovevano essere nutrite; con diete speciali per ogni malattia e condizione. Esistevano edifici particolari che ospitavano pazienti affetti da malattie simili. Come puoi immaginarti, prendersi cura di queste persone era un compito piuttosto triste e quelle suore meritano un immenso ringraziamento. Era un lavoro ingrato: appena le persone erano in grado di rimettersi in piedi lasciavano il ricovero e puntavano immediatamente i pozzi dell’immondizia, alla ricerca di cibo. Il loro istinto animale era ancora predominante e la loro guarigione molto lenta».

L’ambulanziere Thomas O. Cole scriveva, la sera dell’8 maggio: «Abbiamo la sensazione di essere utili, una sensazione che non abbiamo mai provato con così tanta forza e che probabilmente non proveremo mai più. Talvolta queste persone, che non hanno sentito un grammo di gentilezza per anni, non riescono più neppure a concepirla. Spesso sono confusi e convinti che chiunque abbia un’autorità sia pronto a picchiarli duramente. Altri scoppiano in singhiozzi e pianti alla minima gentilezza. Altri ancora sono troppo scioccati per reagire in qualunque modo.

Il dolore si nasconde in ogni cosa. Oggi ho parlato con una ragazzina francese di dodici anni. È stata lontano dalla Francia per quattro anni, ha detto. Dal modo in cui il suo viso si è contratto, ho pensato che sia stata picchiata, torturata o stuprata. Mentre parlavamo, si è accorta di avere dimenticato un bel po’ della sua lingua madre – probabilmente per aver parlato tanto a lungo tedesco o polacco, e si è messa a piangere. Anche io ho pianto. Era come se i Tedeschi, non contenti di tutto il resto, le avessero preso anche il suo bene più prezioso – la sua identità, il suo essere francese».

 

 

 

 

 

 



 

The Holocaust film that was too shocking to show

In 1945, overseen by Alfred Hitchcock, a crack team of British film-makers went to Germany to document the horror of the concentration camps. Despite being hailed as a masterpiece, the film was never shown. Now, in a documentary called Night Will Fall, the full story of its creation and suppression is being told

“In the spring of 1945,” says the narrator, over bucolic springtime shots of the German countryside, “the allies advancing into the heart of Germany came to Bergen-Belsen. Neat and tidy orchards, well-stocked farms lined the wayside, and the British soldier did not fail to admire the place and its inhabitants. At least, until he began to feel a smell …”

So begins a British film about the Holocaust that was abandoned and shelved for 70 years because it was deemed too politically sensitive. The smell came from the dead, their bodies burned or rotting; or from malnourished, often disease-ridden prisoners in the concentration camp of Bergen-Belsen, near all those thriving German farms.

As allied troops liberated such camps across what had been German-occupied Europe, the British Ministry of Information’s Sidney Bernstein (who later founded Granada Television) was commissioned to make a documentary that would provide incontrovertible evidence of the Nazis’ crimes.

Bernstein assembled a remarkable team, including the future Labour cabinet minister Richard Crossman, who wrote the film’s lyrical script, and Alfred Hitchcock, who flew in from Hollywood to advise Bernstein on its structure. They set to work on a documentary entitled German Concentration Camps Factual Survey. As they worked, reels of film kept arriving, sent by British, American and Soviet combat and newsreel cameramen from 11 camps, including Auschwitz, Buchenwald, Dachau and Bergen-Belsen. As well as the dead, the footage showed starved survivors and human remains in ovens.

In one piece of film, from Majdanek concentration camp, we see huge bags containing human hair. Collected from the murdered, it would have been carefully sorted and weighed. “Nothing was wasted,” says the narrator. “Even teeth were taken out of their mouth.” Bernstein’s film then cuts to a large pile of spectacles. “If one man in 10 wears spectacles,” we are asked, “how many does this heap represent?”

Now, 70 years on, director and anthropologist André Singer has made a documentary called Night Will Fall, to be screened on Channel 4 later this month, telling the extraordinary story of filming the camps and the fate of Bernstein’s project.

Singer tracked down and interviewed survivors who appeared in the original footage. Among them was Anita Lasker-Wallfisch, now 89, who recalled the day British troops arrived at Belsen-Bergen. “It was an unbelievable moment. Suddenly, you hear English spoken. ‘You should remain calm. Don’t leave the camp. Help is one the way.’ That sort of thing.” Lasker-Wallfisch and her sister, Renate, had been moved from Auschwitz as the Nazis retreated from the advancing Red army the previous year. At Auschwitz, Lasker-Wallfisch had been a member of the camp orchestra, playing cello as the slave labourers left camp for work each day and again when they returned. She also performed at concerts for the SS.

“It is difficult to describe,” Lasker-Wallfisch says of her liberation. “You spend years preparing yourself to die and suddenly you’re still here. I was 19. Every British soldier looked like a god to us. It was not what we expected, to be still alive – but there we were.” The sisters settled in Britain after the war. Anita played in the English Chamber Orchestra and became renowned as a solo cellist.

The sisters were exceptional. “I should have known this but didn’t,” says Singer. “Some of those who were liberated remained in those camps for five years after liberation. Often they had nowhere else to go – certainly not to Britain or the US. We didn’t want them.”

Singer also interviews another illustrious Holocaust survivor, a Croatian named Branko Lustig. He was a child in Belsen, so sick at the time of liberation that when he heard a strange noise he thought he’d arrived in heaven to a chorus of angels’ trumpets. In reality, they were the bagpipes played by Scottish soldiers.

Many years later, Steven Spielberg chose Lustig, by then a film-maker, to be a producer for Schindler’s List. Lustig has a theory about why British authorities suppressed Bernstein’s film. “At this time, the Brits had enough problems with the Jews.” By that, no doubt, he means that Britain was dealing with Zionists agitating for a Jewish homeland in the British mandate of Palestine – and seeing the full extent of Jewish suffering would only inflame them.

Singer says he’s already had flak for including Lustig’s theory. “Why the film was scuppered is not very well documented,” he says. “But Branko may well have a point.” Singer points out that in 1945, the incoming Labour government’s foreign secretary, Ernest Bevin, was anti-Zionist and unsympathetic to the foundation of a Jewish state. But he concedes there is no strong proof. “The only documentary evidence we have is a memo from the Foreign Office saying that screening such an ‘atrocity film’ would not be a good idea.”

Part of the reasoning for that memo, Singer argues, is that the British thought the Germans needed to be nurtured as allies against the growing power of the Soviet Union. But were such compunctions realistic? Would showing the film to postwar Germany have been a propaganda reverse for the British, serving to alienate the Germans and tip the emerging cold war in the Soviets’ favour? Singer doubts it.

No matter. The film, which some have called a forgotten masterpiece of British documentary, was shelved for 70 years. Bernstein died in 1993 and, according to Singer, one of his regrets was not completing his Holocaust documentary.

Footage from his unfinished film, however, proved key to the prosecution of camp commandants at the Nuremberg and Lüneburg trials in 1945. Anita Lasker-Wallfisch recalls testifying at Lüneburg against, among others, Bergen-Belsen commandant Josef Kramer, known as “the Beast of Belsen”. Her evidence was supported by film that contradicted the accused’s defence. “Kramer had said he didn’t have the food to feed his prisoners and that was why they were in such a state. The footage destroyed that,” says Singer. Kramer and other officers from Bergen-Belsen were hanged that year.

Bernstein’s film never got the chance to be as revered as later Holocaust documentaries, including Lanzmann’s Shoah, Resnais’s Night and Fog, and Ophüls’ The Sorrow and the Pity. As Singer explains, an incomplete version was shown at the Berlin film festival in 1984 and on PBS in the US in 1985 under the title Memory of the Camps. Only recently did a team from the Imperial War Museum complete and digitise the picture.

Into the gap left in 1945 by the suppression of Bernstein’s film came another documentary, made by the great Hollywood director and exiled Austrian Jew Billy Wilder. But Wilder’s Death Mills was a hectoring piece of propaganda, keen to indict Germans, while Bernstein and Crossman had attempted to make their film a warning to all of humanity. “Bernstein’s was a work of art by comparison,” says Singer, “mainly because of Crossman’s lyrical script.”

Certainly, German audiences didn’t enjoy Death Mills. Wilder recalls that when it was screened in Würzburg, there were 500 in the audience at the start and only 75 at the end. Whether German Concentration Camps Factual Survey would have had a similar reception is debatable. It would have been anything but easy viewing, not least when Crossman’s script indicted those who lived near Dachau concentration camp but affected ignorance of the barbarism that took place there: “Germans knew about Dachau but did not care.”  

Crossman’s script ends with these words: “Unless the world learns the lessons these pictures teach, night will fall. But, by God’s grace, we who live will learn.” Does Singer go along with that? “I wish they had proven to be correct, but since 1945 there have been a number of genocides that have not been stopped by lessons from the past.”

That said, Singer still thinks such deeply upsetting and horrific images should be seen. “I was born on 4 May 1945, so I’m of a generation who knew about these things, but I have sons of adult age who knew little. We need images like this for the new generation.”

 

 direttore Bergen Belsen

 

So does he think Night Will Fall should be shown in schools? “I do,” he says, “but there’s a strong body of opinion against. It’s seen as too upsetting. But we’re in an age where such imagery is so prolific. I think the imagery in Bernstein’s film and mine, if used in the right context, can only help understanding.

“We can only truly understand the horror of war if we use images like this.”