Accanto all’Esercito Permanente (che raggiungeva nel periodo precedente la guerra la forza di 47 brigate di fanteria, pari a 94 reggimenti) si era creata la cosidetta Milizia Mobile, cioè una forza di riserva che poteva essere impegnata in caso di mobilitazione con una forza di altre 26 brigate di fanteria, pari a 52 altri reggimenti. I Distretti Militari avevano il compito della leva e del reclutamento, mentre la vestizione, l’armamento e l’addestramento erano compiti delle sedi reggimentali.

Dal punto di vista politico il problema del reclutamento era molto dibattuto e come tutte le cose “all’italiana” vedeva contrapposte due scuole di pensiero. La prima reputava opportuno procedere ad una forma di reclutamento nazionale perché solo così avrebbero avuto modo di amalgamarsi i giovani provenienti da diverse parti della nazione appena formata e tanto diversi tra loro che spesso non riuscivano nemmeno a capirsi a causa dei diversi dialetti parlati. La seconda propendeva per un reclutamento regionale o territoriale che avrebbe portato alla formazione di reparti omogenei per cultura e lingua parlata. La classe politica era favorevole alla leva nazionale, mentre i militari avrebbero preferito quella territoriale.

Nel periodo di pace si optò per la leva nazionale ed ogni reggimento doveva attingere in parti uguali agli arruolati di cinque distretti militari diversi, appartenenti ad altrettante zone militari, così da avere dei reparti con truppe provenienti da tutto il territorio nazionale.

Con la mobilitazione il nostro esercito si trovò in una condizione di carenza di organico, che prevedeva l’assoluta necessità di chiamare alle armi i corpi della riserva onde raddoppiare gli organici esistenti.

Nella formazione dei nuovi reparti si abbandonò il metodo della leva nazionale in quanto avrebbe rappresentato un’impaccio  a causa dello spostamento di una così gran massa di uomini e nel contempo avrebbe permesso un notevole risparmio proprio sulle spese di viaggio.

Alla costituzione delle nuove unità di Milizia Mobile dovevano provvedere i Depositi Reggimentali (o centri di mobilitazione) situati nella stessa regione dei distretti ai quali appartenevano i militari.

Tra le 25 brigate di nuova formazione ci fu appunto la Brigata Catanzaro , costituita dal 141° Reggimento di Fanteria e dal 142°. Il 14 gennaio 1915, presso il deposito del 48° Rgt. Fanteria, a Catanzaro Marina nasceva il 141° Reggimento Fanteria               Milizia Mobile, mentre il 142° si formò dal deposito del 19° Rgt. Fanteria, a Monteleone di Calabria (attuale Vibo Valentia).

Il 1° marzo 1915, la Brigata prese vita a Catanzaro Marina e da «Catanzaro» ne prese il nome. Ebbe assegnate come mostrine i colori rosso e nero, colori che stanno ad indicare “sangue e morte” e da essi sorse il motto, mai smentito, «Sanguinis mortisque colores gestamus: ubique victores» e cioè «Portiamo i colori del sangue e della morte: ovunque vincitori».

Il 141° Rgt. ebbe una prevalente fisionomia calabrese poiché calabresi erano la maggior parte degli elementi che lo costituivano.[4] Questo reggimento, nato nell’imminenza della guerra, fu impegnato per oltre due anni sul fronte più duro, quello del Carso, con la sola eccezione di due brevi parentesi, ad Oslavia, in un periodo particolarmente critico del primo inverno di guerra, e sull’Altipiano d’Asiago, nel momento culminante dellaStrafexpedition. La sua vicenda di guerra, che ne vide la bandiera decorata di medaglia d’oro al valor militare già nella primavera del 1917, è segnata dalla drammatica pagina della rivolta di luglio di quell’anno, chiusa la quale i suoi fanti tornarono a battersi con il valore di sempre, al punto di meritare la citazione sul bollettino di guerra.

La sua storia fu tragica e gloriosa insieme. Un reggimento senza tradizioni, che dopo la guerra sarebbe scomparso dall’ordinamento dell’esercito, per tornare a figurare fugacemente soltanto tra il 1940 ed il 1941 e poi ancora tra il 1975 ed il 1995, è stato sempre protagonista degli eventi bellici e sicuramente è rappresentativo del sacrificio e della gloria della fanteria italiana. I suoi uomini non furono eroi omerici né cavalieri senza macchia e senza paura e, quantunque probabilmente non avessero mai sentito parlare di Trento e di Trieste, fecero sempre e comunque il proprio dovere uscendo vincitori, insieme con i loro commilitoni, dall’aspra contesa con un esercito che vantava una storia di lunga data.

La fase di preparazione dei reparti risentiva comunque di carenze sia di organico che di armamenti ed emblematica era la mancanza di quelle sezioni mitragliatrici che ogni   reggimento doveva avere.

La Brigata Catanzaro all’atto della mobilitazione del 24 maggio 1915 fu dapprima inquadrata nelle truppe a disposizione del Comando Supremo poi, dopo pochi giorni, fu inviata in Friuli dove fu inquadrata in quella Terza Armata che in seguito ebbe l’appellativo di “Armata del Carso” e che si gloriava di obbedire agli ordini di Emanuele Filiberto di Savoia, Duca d’Aosta.

Adolfo Zamboni, glorioso ufficiale del 141° di origine ferrarese, nei suoi scritti decantò le doti umane e di combattenti dei calabresi per come egli stesso ebbe modo di conoscerli, ma non mancò di sottolineare le difficoltà che gli stessi riscontravano nei rapporti interpersonali.

 

“Piccoli, bruni, curvi sotto il peso del grave fardello, scesero alle stazioni delle retrovie e si incamminarono verso le colline Carsiche gli umili fantaccini della remota Calabria, la forte terra dalle montagne boscose e dai clivi fioriti dove pascolano a mille i placidi armenti. Chiamati lontano dalla Patria in armi, questi poveri figli di una regione abbandonata lasciarono le loro casette sperdute tra i monti, abbandonarono i campicelli e le famiglie quasi prive di risorse e vennero su nelle ricche contrade che il nemico mirava dall’alto, bramoso di conquista e di strage. Percorsero tutta la penisola verdeggiante e sostarono nelle trincee scavate nella roccia e bagnate di sangue.

 Fieri e indomiti, cresciuti nella religione del dovere e del lavoro, i Calabresi non conobbero la viltà, non coltivarono nell’animo gagliardo il germe della fiacchezza: alla Patria in pericolo consacrarono tutta l’energia dei loro rudi cuori, tutto il vigore delle floride vite. Apparivano selvaggi, ed erano pieni d’affetti nobilissimi; sembravano diffidenti, ed aprivano tutto il loro animo a chi sapeva guadagnarsi il loro amore; all’ingenuità ed al candore quasi puerili univano il coraggio e la risolutezza dei forti. Un piccolo servigio, una cortesia usata loro, ve li rendeva fedeli fino ad affrontare per voi con indifferenza il pericolo.

I compagni d’arme delle regioni del Nord, dividendo un vecchio pregiudizio, per il quale i fratelli dell’Italia inferiore erano considerati alquanto retrogradi e selvaggi, guardarono da principio con una certa noncuranza sdegnosa quei soldatini dalla parlata tanto diversa e così schivi di convenzioni; «terra mata» e «terra da pipe» erano gli appellativi che talvolta scherzosamente venivano indirizzati ai modesti gregari nati e cresciuti nelle terre del meridione. Però, quando la fama incominciò a diffondersi e a divulgare il loro valore e la loro audacia; quando si videro quei forti campioni muovere decisamente e costantemente all’assalto sanguinoso di posizioni inespugnabili; quando infine seppe l’ecatombe offerta dal popolo dell’Italia negletta, allora in tutto il Paese nostro si levò una voce concorde di ammirazione e di plauso e si benedirono quelle coorti di giovani dalla salda fede e dal fervido entusiasmo”.

Numerosissime furono le località che videro in azione i Reggimenti della Brigata “Catanzaro”, ma, sicuramente, una menzione particolare la merita il Monte Mosciagh. Questo monte fu scenario di aspre lotte nelle quali la Brigata fu decimata e legò indissolubilmente il proprio al nome del 141° dopo l’operazione del 27 maggio 1916. La stessa si svolse in un momento molto difficile del conflitto e      portò il 141° Fanteria agli onori della cronaca ed ebbe eco in tutta la nazione.

I nostri fanti recuperarono alcuni pezzi d’artiglieria da una posizione ancora tenuta dagli Austriaci sulla vetta della montagna, e dopo circa due ore di attacchi alla baionetta, riuscirono a cacciare definitivamente il nemico dalle posizioni iniziali conquistandone in definitiva anche l’armamento.

L’episodio meritò la seguente citazione sul Bollettino di Guerra del 29 maggio 1916 n.369 a firma del Gen. Cadorna: “Sull’altopiano di Asiago, le nostre truppe occupano attualmente, affermandovisi, le postazioni a dominio della conca di Asiago. Un brillante contrattacco delle valorose fanterie del 141° reggimento (Brigata Catanzaro) liberò due batterie rimaste circondate sul M. Mosciagh, portandone completamente in salvo i pezzi”. La cosa fu ripresa dalla stampa nazionale dell’epoca tanto da meritare la prima pagina sulla Domenica del Corriere che con una bella illustrazione di A. Beltrame fece conoscere all’Italia intera come “Un brillante contrattacco deivalorosi calabresi del 141° fanteria libera due batterie rimaste circondate sul monte Mosciagh”.

Da questo glorioso fatto d’arme il 141° ne trasse quello che da allora fu il suo motto: «Su Monte Mosciagh la baionetta ricuperò il cannone».

Tra le pagine della storia della Brigata Catanzaro, però, ve ne sono alcune tra le più tristi dell’intera storia del nostro esercito. Era il 27 maggio del 1916 e la Brigata era stata trasferita da alcuni giorni sull’Altopiano di Asiago. I tragici avvenimenti che culminarono con la fucilazione di 12 militari si svolsero sulle pendici del Mosciagh e furono la conseguenza dello sbandamento in condizioni difficili di quasi tutta la 4a compagnia del 141°. Il Col. Attilio Thermes, comandante del reggimento, in ottemperanza alle disposizioni emanate dal Comando Supremo, ordinò l’esecuzione sommaria senza processo per un sottotenente, tre sergenti ed otto militari di truppa da estrarre a sorte nella ragione di uno a dieci. Per questo ordine il Col. Thermes fu il primo ufficiale italiano ad essere citato in un Ordine del giorno del Comando Supremo e questo non per un glorioso fatto d’arme ma per aver fatto fucilare i propri soldati! In realtà la brigata si comportò piuttosto bene nei combattimenti di quei difficili giorni e non meritava un tale trattamento, dovuto in buona parte al fatto che i successi austro-ungarici facevano perdere la testa ai comandi.

Questo episodio, comunque non intaccò il morale della Brigata che continuò sempre e comunque a fare il proprio dovere tanto che S.M. il Re, con decreto del 28 dicembre 1916, concesse motu proprio alla bandiera del glorioso 141° Reggimento la MEDAGLIA D ’ORO al valor militare con questa motivazione: «Per l’altissimo valore spiegato nei molti combattimenti intorno al San Michele, ad Oslavia, sull’Altopiano di Asiago, al Nad Logem, per l’audacia mai smentita, per l’impeto aggressivo senza pari, sempre e ovunque fu di esempio ai valorosi (luglio 1915 – agosto 1916)». Anche la bandiera del 142° ebbe la sua meritata decorazione con la concessione della Medaglia d’Argento al valor militare.

Diversi mesi dopo, i soldati dei due reggimenti della Catanzaro furono protagonisti della più grave rivolta nell’esercito italiano durante il conflitto. Questo triste episodio si svolse a Santa Maria La Longa dove la brigata era stata acquartierata a partire dal 25 giugno 1917 per un periodo di riposo. La notizia di un nuovo reimpiego nelle trincee della prima linea fece, pian piano, montare quella che in poche ore sarebbe diventata una vera e propria rivolta. I comandi, avendo avuto notizia da informatori di quanto doveva accadere fecero infiltrare nei reparti alcuni carabinieri travestiti da fanti e si era disposta la dislocazione di più di cento carabinieri nelle immediate vicinanze. Alle ore 22 del 16 luglio 1917 iniziò il fuoco che durò tutta la notte. I caporioni di ogni reggimento assaltarono i militari dell’altro inducendo gli stessi ad ammutinarsi e ad unirsi a loro. Molti caddero morti sotto il fuoco dei rivoltosi, altri ne rimasero feriti. Appena il Comando d’Armata ebbe notizia di quanto stava avvenendo dispose le opportune contromisure inviando sul posto altri carabinieri su autocarri, quattro mitragliatrici, due autocannoni e con il preciso ordine di intervenire in modo fulmineo e con estremo rigore. La lotta durò tutta la notte e cessò all’alba dopo l’intervento degli ufficiali della brigata e dei carabinieri con mitragliatrici ma, soprattutto, dopo l’arrivo ed il posizionamento degli autocannoni. Sedici militari presi ancora con l’arma scottante furono immediatamente condannati alla fucilazione. A questi avrebbero dovuto aggiungersi altri 120 uomini, ma per limitare le fucilazioni si dispose di procedere al sorteggio del decimo di essi e, quindi, altri 12 si andarono ad aggiungersi alla lista. I 28 militari furono fucilati immediatamente nel cimitero di Santa Maria, alla presenza di due compagnie, una per ciascun reggimento.

Il 16 luglio i soldati vennero fucilati sul muro del Cimitero di Santa Maria La Longa. Gabriele D’Annunzio assistette all’episodio: inizialmente sembra che i ribelli si stessero dirigendo nella villa in cui era acquartierato, forse per coinvolgerlo nella protesta o per protestare anche contro di lui, simbolo dell’interventismo. D’Annunzio decise poi di assistere all’esecuzione e lasciò una testimonianza dell’episodio: “Dissanguata dai troppi combattimenti, consunta in troppe trincee, stremata di forze, costretta a ritornare nella linea del fuoco, già sovversa dai sobillatori l’eroica Brigata Catanzaro una notte si ammutinò […] I fucilieri del drappello allineati attendevano il comando, tenendo gli occhi bassi, fissando i piedi degli infelici, fissando le grosse scarpe deformi che s´appigliavano al terreno come radici maestre […] I morituri mi guardavano […]. Non voglio sapere se siete innocenti, se siete colpevoli. So che foste prodi, che foste costanti. La legione tebana, la sacra legione tebana, fu decimata due volte. Espiate voi la colpa? O espiate la Patria contaminata, la stessa vostra gloria contaminata? Ci fu una volta un re che non decimava i suoi secondo il costume romano ma faceva uccidere tutti quelli che nella statura non arrivassero all’elsa della sua grande spada. Di mezza statura voi siete, uomini di aratro, uomini di falce. Ma che importa? Tutti non dobbiamo oggi arrivare con l’animo all’elsa della spada d’Italia? Il Dio d’Italia vi riarma, e vi guarda. […] Tornai verso gli uomini morti che con le bocche prone affidavano al cuor della terra il sospiro interrotto dagli uomini vivi. E tolsi le frasche ignobili di sul frantume sanguinoso. Chino, lo ricopersi con l’acanto”.

Dopo questo spiacevole fatto, i fanti della Catanzaro intrapresero la loro marcia verso il fronte dove continuarono a battersi per il resto del conflitto con la grinta e la disciplina che avevano sempre dimostrato, tanto da ottenere una seconda citazione sul Bollettino di Guerra del 25 agosto 1917 nel quale si riportava che: “Sul Carso la lotta perdura intorno alle posizioni da noi conquistate, che il nemico tenta invano di ritoglierci. Negl’incessanti combattimenti si distinsero per arditezza e tenacia le Brigate Salerno (89° – 90°), Catanzaro (141° -142°) e Murge (259° e 260°)”.

Gli ultimi mesi della guerra furono trascorsi dallo stremato 141° nelle retrovie del Piave, a disposizione del Comando Supremo, dove in ottobre si incominciò a trasferire ed attraverso una serie di marce raggiunse Mestre nei giorni della vittoria.

Tutta la Brigata Catanzaro si imbarcò a Venezia sulla nave “Re Umberto” il 15 novembre 1918 ed il 17 successivo sbarcò in una Trieste festante. La meta radiosa dei suoi cruenti sacrifici era raggiunta.

Per oltre un anno il 141° ne rimase a presidiare la città, ospitato nella caserma “Oberdan”, fino a quando venne disciolto. Il 21 giugno 1920, nella caserma “Cernaia” di Torino, il cappellano militare Can. Chelli salutò con un appassionato discorso l’amata bandiera che i fanti baciarono ad uno ad uno, con le lacrime agli occhi. Il glorioso vessillo, adorno del più alto segno al valor militare, si inchinò l’ultima volta davanti alla tomba del Milite Ignoto e fu collocato “là dove si conservano le più fulgide reliquie della Patria”. Lo scioglimento del Reggimento, però non cancellò il ricordo delle gesta dei suoi uomini, e lo stesso Duca d’Aosta ebbe modo qualche anno più tardi di dire:“… ho sempre nel cuore questa magnifica legione di prodi che dalla terra di Calabria trasse la tenacia e l’anima pugnace”.

A conclusione, è doveroso rivolgere l’ultimo ricordo all’impegno di tutti i calabresi di ogni arma e specialità che contribuirono in modo determinante alla vittoria finale. Nell’immane tragedia della Grande Guerra ne perirono 20.046. Fino all’anno 1923, le medaglie al valore militare individuali concesse ai calabresi ammontavano a 2.884, così distinte: 12 M .O., 980 M .A., 1.565 M .B., 8 croci militari di Savoia, 319 croci di guerra al valore; delle quali 1.711 a ufficiali e 1.173 a sottufficiali, graduati e militari di truppa. Le medaglie d’oro erano equamente distribuite tra le 3 antiche provincie calabresi.