La questione del rancio durante la prima guerra mondiale è resa celebre dal film La Grande Guerra, di Mario Monicelli (https://www.youtube.com/watch?v=bBdKqdoTaXY, qui la scena): il soldato, interpretato da Alberto Sordi, interrogato dal comandante sulla qualità del cibo, risponde “Ottimo e abbondante”; la replica del comandante è lapidaria: “Invece è una schifezza”. A quanto pare, avevano ragione entrambi. Nei diari e nelle lettere alle famiglie, il giudizio dei nostri soldati sulla quantità del rancio risulta sempre positivo: dopotutto, la razione giornaliera era studiata per apportare mediamente circa 4000 calorie (4700 per le truppe sottoposte a lavoro intenso in alta montagna), salvo poi ridurla ne corso del ’17, quando, a causa della mancanze di scorte alimentari, scese a poco più di 3000 calorie. Questo tipo di dieta doveva risultare pertanto più ricco rispetto a quello a cui erano abituati i nostri soldati: in Veneto, ad esempio, la pellagra non era stata ancora del tutto debellata. I problemi rilevati dai soldati riguardano, semmai, la qualità del cibo, che spesso giungeva freddo e scotto nelle trincee; curiosamente (ma neanche troppo) i vini ed i liquori non mancavano mai, (soprattutto prima della battaglia), mentre, a rendere critica la situazione, era la scarsità d’acqua.Inizialmente la questione dell’approvvigionamento non emerse in maniera forte, anche perché si pensava che la guerra sarebbe stata breve: già dal primo inverno di guerra si dovette affrontare la questione, inizialmente delegata agli enti locali, poi, provvisoriamente, ad un apposito ente, l’UTAG, che faceva da tramite con il Joint Committee, alleato dal quale l’Italia approvvigionò tutto il suo grano per la popolazione e per l’esercito. Con l’aggravarsi della situazione nel 1916 e l’inizio delle proteste popolari, l’Italia e la Francia dovettero rinunciare alla propria indipendenza nei confronti della Gran Bretagna per mantenere la pace sociale all’interno e continuare la guerra.

I contenitori all’interno dei quali le vivande venivano conservate erano quelli che poi passeranno alla storia: la Borraccia Guglielminetti, indispensabile per ricevere il rancio tanto in battaglia quanto nelle retrovie e differenziata a seconda dei reparti (ai reparti Alpini e di Artiglieria da montagna, presumibilmente a causa dell’ambiente operativo venne data in dotazione una gavetta con capacità doppia rispetto alla solita). Lo scatolame era poi utilizzatissimo: venivano distribuite scatolette di burro, di alici, di sarde, di tonno, di funghi e persino di mortadella; le scatolette erano spesso decorate con dei motti patriottici (dal ritratto di Garibaldi alle incitazioni come “Avanti Savoia!”, “Trento e Trieste”). Le stime sono impressionanti: durante la Grande Guerra vennero distribuite ai soldati circa 230 milioni di scatolette di carne, in gran parte prodotte dagli stabilimenti militari di Casaralta e Scanzano.

Perchè, allora, la qualità del rancio era oggetto di critiche così forti? Per farla breve, questo era trasportato, per lo più a dorso di mulo, dalle retrovie fino alle gavette mediante le casse di cottura, dei recipienti simili alle moderne pentole a pressione contenenti una trentina di razioni; in queste casseruole la temperatura interna raggiungeva i 60° per oltre 24 ore, per cui la cottura avveniva in gran parte durante il trasporto: una volta giunte ai singoli soldati, le vivande erano oramai mollicce e poco appetitose. Quando i muli non riuscivano a raggiungere le linee, gli stessi soldati adibiti a questo compito portavano a spalle i contenitori termicamente isolati; quando proprio il rancio arrivava semicongelato, si ricorreva agli scaldaranci, funzionanti grazie all’uso di combustibili come carta, cera, alcool solidificato o grasso di bue.

Al di là della qualità del rancio, il problema pare però essere fondamentalmente di ordine igienico: il cibo veniva preparato in un ambiente sporco, fangoso, arrabattato tra cassette sfondate, ferri arrugginiti, filo spinato e, perché no, cadaveri. La diffusione di malattie come tifo e colera era inevitabile: bisogna dire che si ricorse a vaccinazioni di massa per arginare il problema (rimanevano però frequenti altri morbi quali meningiti, dissenterie e altre malattie batteriche). Come si diceva prima, la razione del cibo cambiava a seconda della disponibilità di viveri: la razione, all’inizio della guerra, si componeva mediamente di 750 gr di pane, 375 di carne, 200 di pasta, poi cioccolato, caffè e formaggio, mentre per i reparti che operavano in montagna venivano distribuiti supplementi di lardo, pancetta, latte condensato. Nel dicembre 1916 la razione diminuì per i problemi alimentari di cui soffriva l’Italia, passando a poco più di 3000 calorie, cioè 600 gr di pane e 250 di carne, spesso sostituita da pesce poiché la carne bovina era in larga parte di importazione. Dopo Caporetto, gli italiani chiesero insistentemente più grano agli alleati, ma a quel punto la strettoia era diventata la marina mercantile che falcidiata da affondamenti poneva il drammatico dilemma: carbone o grano. In ogni caso, nel giugno 1918, la razione, che nel novembre 1917 era ancora di 3067 calorie, venne aumentata a 3580 per sorreggere lo spirito dei combattenti. E le altre potenze? Gli alleati francesi distribuivano una razione di 3400 calorie a testa, gli inglesi di 400, mentre gli avversari austriaci pativano duramente la fame.

Un aspetto curioso è lo scambio di ricette locali che avveniva tra le linee: la Brigata Calabria assaporò le Tagliatelle alla bolognese, che i Veci del Val Brenta gustarono le Zeppole leccesi, che la Sassari si sfamò con il Baccalà alla vicentina, che la Tevere conobbe il Fricandò friulano, ecc. ecc.

La fame era argomento discussione, di scambio e di stimolo per inventare nuove ricette o adattarne di vecchie alla trincea: venivano infatti pubblicati dei simpatici ricettari, praticamente dei manuale di autodifesa con proposte di ricette di cottura rapida (per risparmiare combustibile) e realizzate con ingredienti super-economici, gradevoli e nutrienti. Qualche esempio?

Funghi molliccati

“Si prendono le cappelle dei funghi porcini e si leva la parte verde spugnosa che si riempie di mollica di pane, con uovo, alici a pezzetti, aglio e poche droghe. Si cuociono in forno.

Zuppa del soldato

Ingredienti: (da 1 a n+1 persone).

Farina 100 gr;

Tre cucchiai di olio di oliva;

Tre patate;

Acqua;

Dopo esservi procurati, in qualsiasi modo, gli ingredienti, trovate un anfratto al riparo dai bombardamenti e procedete come segue. Mettete la farina nella pentola, o nell’elmetto, e accendete il fuoco piuttosto basso continuando a mescolare finché non raggiunge un bel colore di autocarro incendiato.

I problemi riguardavano semmai la qualità del cibo, che spesso giungeva freddo e scotto nelle trincee. Se non mancavano il vino ed i liquori, che servivano, assieme ai sigari toscani, a mitigare il puzzo dei cadaveri in decomposizione, era soprattutto la limitata disponibilità di acqua a rendere ancor più drammatica per il fante la vita in trincea. Indicativamente, ciascun soldato riceveva ogni giorno 650 grammi di pane, 150 grammi di carne, 100 grammi di pasta o riso, talvolta frutta e verdura, un quarto di vino, caffè; qualche ulteriore integrazione era prevista per le truppe dislocate in zona di operazioni o per le truppe alpine che avevano in dotazione una gavetta più capiente rispetto alla fanteria. Per la cottura del pane, oltre ai forni mobili Weiss, si utilizzarono forni militari in muratura costruiti nelle retrovie, per la carne, dopo il primo anno di guerra, fu decisa un’importazione massiccia dall’America di bovini congelati che servirono a integrare l’insufficiente disponibilità di animali da macello nel territorio nazionale, dato che al fronte vi erano ormai 2 milioni di soldati.

Vennero anche distribuite ai soldati 230 milioni di scatolette di carne, in gran parte prodotte dagli stabilimenti militari di Casaralta e Scanzano. In trincea, il rancio arrivava normalmente dalle cucine poste nelle retrovie, trasportato di notte, a dorso di mulo, durante il giorno le corvée non potevano muoversi perché fatte segno dal tiro dei cecchini che volevano così affamare i soldati in prima linea. Ciascun reparto era anche dotato di casse di cottura con fornello e soprattutto delle marmitte da campo, vere antenate delle nostre pentole a pressione, in numero da 3 a 4 per ogni compagnia e del peso di kg 55, cadauna. In realtà il problema del rancio in trincea era soprattutto di ordine igienico.

L’ambiente in cui si era costretti a pranzare era un miscuglio di cose sparse per ogni dove nel fango alto: cassette sfondate, munizioni, ferri arrugginiti, filo spinato, vecchie marmitte bucate, cadaveri. Carlo Salsa, ufficiale nella Grande Guerra e scrittore del libro “Trincee”, ebbe a scrivere : “Da per tutto si pesta nella merda, che sprigiona un puzzo insopportabile” . Era inevitabile che si diffondessero tifo e colera, arginati nel corso della guerra grazie alla vaccinazione di massa; poco si poteva fare purtroppo contro meningiti, dissenterie e altre malattie batteriche che decimarono le truppe in trincea.

Durante la guerra il pane assurse a vero alimento principe, difficilmente veniva mangiata tutta la razione, un pezzo lo si teneva nel tascapane e serviva ,se si rimaneva bloccati nella terra di nessuno, a sfamare il fante sino a notte fonda quando si tentava il rientro nelle trincee di partenza. Alla mancanza della maschera antigas, in caso di attacco, si ovviava mettendosi in bocca un pezzo di pane bagnato tenuto fermo da un fazzolettone a coprire bocca e naso e legato stretto sulla nuca, non si hanno notizie sulla efficacia di tale sistema. Il pane era usato anche come merce di scambio. In alcuni punti del fronte le linee erano talmente ravvicinate da avere i reticolati in comune, le sentinelle erano a pochi passi l’una dall’altra, subentrava allora una specie di tacito accordo, una tregua di fatto che portava a non spararsi a vicenda e addirittura si scambiavano alcune parole, appena sussurrate; non di rado quelle austriache chiedevano cibo in cambio di tabacco, non deve stupire perché l’esercito austriaco già nel 1915 aveva problemi alimentari.

Barana Mattia – 4A