Umberto I (Umberto Rainerio Carlo Emanuele Giovanni Maria Ferdinando Eugenio) è stato re d’Italia a partire dal 9 giugno 1878, giorno della morte del padre Vittorio Emanuele II, sino al 29 luglio 1900, quando fu assassinato a Monza. Il suo modus regnandi destò pareri contrastanti da parte della sudditanza: si prodigò personalmente nei soccorsi dei colerosi durante l’epidemia di Napoli del 1884 (motivo per il quale fu soprannominato “Re Buono”), ma negli anni successivi fu aspramente contestato per il suo duro conservatorismo, che lo portò alla decisione di reprimere le insurrezioni (prevalentemente di matrice anarchica) nel sangue e a premiare i soffocatori con medaglie al valore (per questo motivo lo schieramento subente lo appellò “Re Mitraglia”).

IL PRIMO TENTATIVO DI OMICIDIO

Giovanni Passannante

Appena salito al trono, Umberto I decise di recarsi nelle maggiori città del Regno per mostrarsi di persona ai sudditi. Il 16 novembre, alla stazione di Foggia un certo Alberigo Altieri tentò di lanciarsi verso il sovrano, non riuscendo nel suo intento omicida a causa della vigile prontezza delle forze dell’ordine. Nonostante la stampa non proferì parola circa il caso, la polizia segreta si occupò di indagare le possibili connessioni ed affiliazioni tra l’attentatore e società terroristiche organizzate. Venne alla luce che Altieri agì nell’ambito di «un complotto per l’assassinio dell’Augusto sovrano» che aveva «il proposito di farne eseguire il tentativo nelle diverse città visitate». Era il preludio  di quanto sarebbe accaduto il giorno seguente. Approdato a Napoli il 17 novembre 1878, Umberto subì un tentativo di assassinio che fece molto più scalpore: si trovava, insieme alla moglie, il figlio e Cairoli (l’allora Presidente del Consiglio) su una carrozza scoperta, quando venne attaccato improvvisamente, con un coltello, dall’anarchico lucano Giovanni Passannante , il quale fallì il colpo. Durante la deplorevole azione, Passannante urlò: «Viva Orsini, viva la repubblica universale». Il re riuscì a difendersi e un ufficiale dei Corazzieri del seguito si scagliò contro l’attentatore ferendolo alla testa con la sciabola (il Re subì un leggero taglio a un braccio), mentre Cairoli, nel tentativo di bloccare l’aggressore, fu ferito ad una coscia. In seguito, Giovanni Pascoli, durante una riunione di socialisti a Bologna, cominciò la pubblica lettura di un componimento inneggiante a Passannante, consegnatogli da un presente. Accortosi del contenuto gettò via la carta ed espresse parole di sdegno.Pascoli verrà arrestato, in seguito, per aver protestato contro la condanna di alcuni anarchici che avevano manifestato in favore dell’attentatore. L’anarchico venne condannato a morte, ma Umberto I commutò la sentenza in carcere a vita, dato che la pena capitale era solo prevista in caso di regicidio. Le pessime condizioni di Passannante in carcere suscitarono, comunque, polemiche da parte di alcuni esponenti politici, i quali promuovettero proteste decisamente poco accondiscendenti. Il re, riconoscente nei confronti del Presidente del Consiglio per l’ottimo lavoro, gli assegnò la medaglia d’oro al valor militare, ma il Parlamento, pur ammirandone il coraggio e la devozione, rimproverò il governo circa la cattiva gestione della politica interna, in particolare riguardo alla sicurezza del re e dello Stato; fu quindi presentata un’interrogazione parlamentare che si concluse l’11 dicembre di quell’anno, con le dimissioni del ministero, il quale fu nuovamente affidato a Depretis.

IL SECONDO TENTATIVO DI OMICIDIO

Pietro Acciarito

Il 22 aprile 1897, il sovrano subì un secondo attentato da parte di Pietro Acciarito. L’anarchico si mimetizzò tra i presesenti presso l’ippodromo delle Capannelle a Roma, dopodiché  si buttò verso la sua carrozza armato di coltello. Il re notò in anticipo l’attacco e riuscì a schivarlo rimanendo illeso. Acciarito venne arrestato e condannato all’ergastolo. Durante il periodo di detenzione, le sue condizioni psico-fisiche degenerarono fino a rendere l’uomo ufficialmente pazzo. Come per il precedente tentato regicidio, si ipotizzò una cospirazione anti-monarchica, composta da socialisti, anarchici e repubblicani. I maggiori esponenti dei suddetti partiti vennero arrestati e furono processati con l’accusa di aver avuto contatti con l’attentatore. Tra questi venne incarcerato Romeo Frezzi, un amico di Acciarito, perché in possesso di una foto dell’attentatore. Frezzi morì al terzo giorno d’interrogatorio. Sorsero alcune illazioni sul suo decesso (suicidio e aneurisma) ma l’autopsia confermò che la morte avvenne per mutilazioni subite dagli agenti di pubblica sicurezza, nel tentativo di estorcere una confessione di connivenza con Acciarito.

 

IL TERZO FATALE TENTATIVO DI OMICIDIO

Gaetano Bresci

Il 29 luglio 1900, Umberto I si recò a Monza per onorare con la sua presenza la cerimonia di chiusura del concorso ginnico organizzato dalla società sportiva “Forti e Liberi”; egli non era necessariamente tenuto a presenziare, ma fu convinto dalla presenza delle squadre sportive di Trento e Trieste, composte da atleti con i quali, in seguito ai formali convenevoli di rito, si intrattenne a parole. “Sono lieto di trovarmi tra italiani”, disse il monarca con tono solenne, scatenando gli applausi della folla massiva. Sebbene fosse solito indossare una cotta di maglia protettiva sotto la camicia, a causa del gran caldo, e contrariamente ai consigli degli attendenti alla sicurezza, quel giorno fatidico Umberto non la indossò. Tra la folla si trovava anche l’attentatore, Gaetano Bresci, un anarchico toscano emigrato negli Stati Uniti e tornato in patria con il solo scopo di adempiere alla fede politica ed assassinare il re, con in tasca una rivoltella a cinque colpi. Il sovrano si trattenne per circa un’ora, momento in cui (attorno alle 22:30) si diresse  verso la carrozza, mentre la folla applaudiva e la banda intonava la Marcia Reale. Approfittando della confusione, Bresci fece un balzo in avanti con la pistola in pugno e sparò alcuni colpi in rapida successione. Non si è mai appurato con precisione quanti furono effettivamente : la maggior parte dei testimoni disse di aver sentito l’eco di almeno tre proiettili, tesi sostenuta anche dall’omicida stesso durante l’interrogatorio, mentre la polizia scientifica, dopo averne trovato un altro conficcato nella regia carrozza, asserì a verbale che i colpi sparati in totale furono quattro (l’uccisore avrebbe pertanto avuto una precisione del 75%, che gli permise comunque di portare a  compimento la missione). Umberto venne colpito a una spalla, al polmone e al cuore. Egli ebbe appena il tempo di mormorare: «Avanti, credo di essere ferito», prima di cadere riverso sulle ginocchia del generale Ponzio Vaglia, che gli sedeva di fronte in carrozza. Subito dopo, i carabinieri comandati dal maresciallo Locatelli cercarono, riuscendovi, di sottrarre il Bresci al linciaggio della folla, traendolo in arresto. Intanto la carrozza col sovrano ormai cadavere era giunta alla reggia di Monza; la regina, avvisata, si precipitò all’ingresso gridando: «Fate qualcosa, salvate il re!».  Ma non c’era ormai più nulla da fare; Umberto era già spirato.L’omicidio suscitò in Italia un’ondata di deplorazione e di paura, tanto da indurre gli stessi ambienti anarchici e socialisti a prenderne le distanze; Filippo Turati ad esempio rifiutò di difendere il regicida in tribunale. Molti di coloro che l’avevano criticato in vita, tra cui il liberale Papafava, ebbero parole di cordoglio per il defunto («gli volevamo più bene di quanto credessimo») e il repubblicano Bovio disse che l’indignazione suscitata dall’attentato aveva allungato la vita alla monarchia di parecchi decenni. E poi ancora, Giovanni Pascoli scrisse di getto l’inno “al Re Umberto”, dedicato al sovrano scomparso. Il funerale fu celebrato durante una insolitamente grigia giornata di agosto. Il clima di terrore ed insicurezza generale creatosi in seguito all’attentato si poté ugualmente riscontrare durante la funzione religiosa: bastò un mulo del Corpo degli Alpini, infastidito dalla moltitudine presente al punto di imbizzarrirsi, per generare una fuga disordinata.  A causa dell’infondata credenza che un convoglio terroristico avesse colpito nuovamente, si alzò il grido: “Al riparo dagli Anarchici!”

IL SOSIA DEL RE

Il 28 luglio, giorno che precedette quello della sua morte, Re Umberto I, durante la visita dell’ultima città italiana che ammirerà con i propri occhi, si soffermò a desinare presso un ristorante monzese, caldamente indicatogli dai cortigiani a causa della gemellare somiglianza fisica tra il proprietario ed il monarca stesso. Essi vennero a dialogare e fu con grande sgomento che scoprirono di non avere solo in comune alcuni tratti facciali e corporali, ma anche di essere nati lo stesso giorno, alla stessa ora, di avere entrambi una consorte di nome Margherita e un figlio chiamato Vittorio. Per di più, il giorno stesso in cui Umberto salì al trono, il ristoratore avviò la sua attività. I due uomini vollero incontrarsi nuovamente nei giorni a venire, ma ciò non fu possibile, dal momento che l’indomani il sosia fu ferito a morte da un colpo partito involontariamente durante la pulizia e l’ispezione di un fucile che teneva in casa e lo stesso re, come visto in precedenza, fu assassinato con tre letali colpi di pistola.

ARTICOLO REDATTO DALL’ ALLIEVO VALZ ALESSANDRO DELLA CLASSE V A DEL LICEO CLASSICO