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ASSOCIAZIONE MAZZINIANA ITALIANA
http://www.associazionemazziniana.it/il-risorgimento-nellopera-lirica-dopo-lunita/
LIRICAMENTE
http://www.liricamente.it/trama-opera.asp?opera=ernani
DIDATTICA APERTA
http://www.magistralinuoro.it/files/9_Verdi.pdf
ERNANI
Parte prima: il bandito
Nel 1519, in un bosco sulle montagne d’Aragona, un gruppo di ribelli festeggia la futura rivolta contro il re. Appare l capo dei banditi, il nobile proscritto Ernani, che vuole vendicare il padre ucciso dal padre dell’attuale re Carlo. Egli annuncia di voler di rapire Elvira, di cui è innamorato e che dovrà sposare invece il vecchio zio, Don Ruy Gomez de Silva (Come rugiada al cespite). Elvira, nel castello dei Silva, attende di fuggire con Ernani (Ernani, Ernani involami). Appare invece re Carlo, anch’egli innamorato della ragazza, e deciso a convincerla a seguirlo. Elvira lo respinge, quando arriva Ernani. Lo scontro è interrotto dall’irrompere del vecchio Silva, che, non riconoscendo subito il sovrano, lo sfida a duello insieme a Ernani (Infin che un brando vindice). L’arrivo degli scudieri di Carlo chiarice la situazione: Silva si placa e chiede perdono; Carlo salva Ernani, che intanto ha scambiato con Elvira promessa di reciproco amore, e spiega a Silva che si trovava nel castello per discutere con lui sulla futura elezione dell’imperatore.
Parte seconda: L’ospite
Al castello di Silva, dove intanto si svolgono i preparativi per le nozze. Arriva Ernani che, fallita la congiura contro il re, fugge travestito da pellegrino. Silva gli accorda ospitalità, ma poi lo sorprende con Elvira. Furente, medita vendetta: tuttavia al giungere del re, che sta dando la caccia ai fuggitivi, in nome degli obblighi di ospitalità nasconde Ernani e si rifiuta di consegnarlo (Lo vedremo, veglio audace). Perlustrato il palazzo, Carlo parte, portandosi via però anche Elvira (Vieni meco, sol di rose). Silva sfida nuovamente a duello Ernani. Quando questi gli rivela che Carlo è loro rivale e gli propone di unirsi nella vendetta contro il re, dopo di che potrà disporre della sua vita: ne sarà pegno un corno da caccia, al cui squillo Ernani si impegna a morire (Odi il voto).
Parte terza: La clemenza
Ad Aquisgrana, luogo della tomba di Carlo Magno, si attende la nomina del nuovo imperatore. Carlo (Oh, de’ verd’anni miei) si introduce nel sotterraneo della tomba, ove Silva, Ernani e i cospiratori della lega si preparano momento della vendetta. I cospiratori estraggono a sorte il nome di colui che dovrà uccidere Carlo: sarà Ernani. Silva prega Ernani di cedergli l’incarico in cambio della vita: questi rifiuta. La cospirazione (Si ridesti il leon di Castiglia) viene interrotta da alcuni colpi di cannone, che annunciano I’avvenuta elezione. Carlo riappare per l’incoronazione, seguito da dame e cavalieri: tra essi c’è anche Elvira, che lo supplica affinché perdoni i ribelli e risparmi loro la vita. Il sovrano concede amnistia, e magnanimamente concede inoltre che Elvira si unisca a Ernani, che ha rivelato la propria identit&eagrave;. L’atto si conclude con un’apoteosi del novello imperatore, successore di Carlo Magno (O sommo Carlo). Solo una persona non emette grida di giubilo ma di vendetta: è Silva
Parte quarta: La maschera
Terrazza nel palazzo di Don Giovanni d’Aragona (il vero nome di Ernani). Si festeggiano gli sposi, quando viene notato dai servitori un uomo dallo sguardo pieno d’ira, avvolto in un mantello nero e coperto da una maschera, che si aggira con fare furtivo. Elvira ed Ernani sono al colmo della gioia, ma mentre si scambiano il tanto sospirato eterno amore, odono il suono di un corno. Ernani, riconoscendo il segnale, impallidisce e allontana Elvira con un pretesto. Poco dopo appare Silva, che, togliendosi la maschera e facendosi riconoscere, ricorda il patto. Ernani cerca di dissuaderlo; quindi anche Elvira, che nel frattempo è tornata e intuisce quello che sta accadendo, si scaglia contro il vecchio, dapprima con violenza, poi con dolcezza, ma tutto è inutile. Silva è irremovibile. Ernani non può che tener fede al giuramento: con un pugnale si trafigge il petto e muore.
LIRICA E RISORGIMENTO
La sera del 18 febbraio 1861 si festeggiava a Torino, in piazza Castello, l’inaugurazione del nuovo Parlamento italiano avvenuta quel giorno. Era in programma un concerto del corpo di musica della Guardia nazionale che, insieme a un centinaio di coristi, affrontava una serie di arie di ispirazione nazional-patriottica. La serata si apriva con un galopintitolato alla battaglia di San Martino e si chiudeva con l’inno di Michele Novaro e Goffredo Mameli, Fratelli d’Italia. Tra questi due pezzi si snodavano una serie di cori e di sinfonie d’opera in cui primeggiava la produzione verdiana, presente il maestro a Torino nella inedita veste di deputato a cui era stato convinto dallo stesso Cavour. Erano previsti sia il Giuseppe Verdi degli anni Quaranta, con un coro di Ernani, sia quello più recente di Aroldo, e infine quello più internazionale di Traviata. A completare la serata celebrativa contribuiva un pezzo dalla Gazza ladra di Gioacchino Rossini e uno dagli Orazi e Curiazi di Saverio Mercadante, anch’essi protagonisti della grande stagione operistica del primo Ottocento. Se si escludono alcuni inni, la colonna sonora di questa festa inaugurale era costituita essenzialmente da arie tratte da melodrammi e ciò doveva apparire del tutto ovvio agli ascoltatori, trattandosi della musica italiana per eccellenza, quella che aveva in vario modo accompagnato gli eventi risorgimentali.
Negli anni che seguirono l’unificazione, e in modo particolare a partire dagli anni Ottanta, l’accostamento tra opera e Risorgimento divenne parte della celebrazione dell’epopea nazionale, insieme all’immagine patriottica del maestro di Busseto come precoce cantore della nazionalità. Ma, al di là della retorica celebrativa postunitaria, quale ruolo sociale e politico, oltre che ovviamente culturale, il teatro d’opera aveva effettivamente giocato nei decenni precedenti il raggiungimento dell’Unità? Da questo primo interrogativo è necessario partire per ricostruire i percorsi teatrali e musicali del processo di unificazione nazionale.
«La nostra musica – aveva scritto Verdi all’amico Giuseppe Piroli nel 1883 – a differenza della tedesca che può vivere nelle sale con le sinfonie, negli appartamenti coi Quartetti, la nostra, dico, ha il suo seggio principale nel teatro» (Verdi 1935, 3° vol., p. 162). Non si tratta solo di un accenno marginale rintracciato tra le pagine dello sterminato epistolario verdiano. È una considerazione che va inquadrata nel dibattito sulle «identità nazionali» in musica, che tanto ampiamente circolava nel mondo musicale degli anni Ottanta, ed esprime con chiarezza il pensiero di un compositore che stava assumendo, ben più consapevolmente che negli anni risorgimentali, il ruolo di riconosciuto portavoce dell’italianità. Alludendo al fatto che tra le maggiori specificità della tradizione musicale italiana doveva essere compresa la sua intrinseca teatralità, egli mostrava una chiara percezione del ruolo che, nella particolare fortuna dell’opera romantica, avevano giocato la diffusione e la vitalità dei luoghi teatrali nella società italiana del periodo.
La funzione culturale e civile svolta dall’opera può essere pienamente compresa solo considerando la portata della presenza degli spazi teatrali e l’importanza che essi avevano acquisito nei centri urbani piccoli, medi e grandi degli Stati preunitari. La dimensione quantitativa della loro diffusione è rintracciabile nel censimento delle sale teatrali che il ministero di Agricoltura, industria e commercio effettuò alla fine degli anni Sessanta.
Nei primi anni che seguirono l’unificazione, una fitta rete di richieste e di sollecitazioni collegava i ministeri del nuovo Regno alle singole prefetture. In questo quadro anche le strutture teatrali furono oggetto di un’indagine conoscitiva che doveva accompagnare l’operato dei nuovi legislatori, soprattutto in merito al diritto d’autore sul quale era stata emanata nel 1865 una prima normativa. La finalità dell’inchiesta non era dunque di inventariazione storico-artistica, ma di ordine fiscale, legata alla necessità di censire tutti quei luoghi di spettacolo che ricadevano nell’ambito della nuova normativa. Nella primavera del 1866 i prefetti del regno ricevettero una circolare in cui erano pregati di inviare al ministero un prospetto di tutti i teatri esistenti nella rispettiva provincia, che comprendesse le informazioni necessarie a identificarne lo stato e la tipologia e cioè: la denominazione e l’anno di fondazione della sala; la sua localizzazione e la sua capienza; chi ne avesse la gestione; a quale tipo di spettacoli fosse destinata; se avesse una dote annua; quali fossero le sue condizioni strutturali.
La documentazione raccolta e inviata a Roma tra il 1868 e il 1869 consente oggi di cogliere l’immagine d’insieme delle strutture teatrali all’indomani dell’Unità e dell’imponente processo di costruzione avvenuto lungo la penisola a partire dalla fine del XVIII secolo. Si contavano infatti sul territorio allora italiano (ne erano esclusi il Lazio, il Trentino e la Venezia Giulia che vi sarebbero entrati più tardi) 942 sale teatrali attive, distribuite in 650 comuni. Quasi due terzi di esse erano state costruite o rinnovate dopo il 1815. In effetti non si può dire che gli edifici teatrali fossero una presenza nuova nelle città italiane. La costruzione dei primi teatri per un pubblico pagante risaliva in Italia al XVII secolo e quelli che sarebbero rimasti gli elementi principali dell’«armatura» teatrale italiana erano stati edificati nel corso del Settecento. Il cantiere del San Carlo a Napoli era iniziato nel 1735 (anche se il teatro venne poi ricostruito nel 1816 dopo un incendio), quello della Pergola a Firenze nel 1738, il Regio a Torino venne edificato a partire dal 1741, il Comunale di Bologna dal 1763, la Scala dal 1778, mentre l’inaugurazione della Fenice veneziana fu nel 1791. Se, dunque, i teatri erano già una presenza importante nelle città italiane settecentesche, ciò che accadde a partire dalla fine del secolo e per tutta la prima metà dell’Ottocento fu un fenomeno diverso, che non sembra avere riscontri a quella data in altri paesi europei. Si trattava di una diffusione capillare lungo la penisola, anche nei centri urbani di piccola o piccolissima dimensione, di sale teatrali che riproducevano esattamente, nelle facciate come nell’architettura e nell’articolazione interna, i maggiori teatri settecenteschi appena citati. Erano in realtà edifici molto diversi, per importanza e capacità: grandi sale come il Carlo Felice di Genova (1825) o il Ducale di Parma (1829), che riproponevano il tradizionale modello del teatro di corte e potevano contenere più di 2.000 spettatori, fino a piccolissimi teatri per 2-300 persone, disseminati nei comunelli delle Marche, della Puglia o della Toscana. E poi sale di media dimensione, da 800 a 1.500 posti, costruite in città forse non di primo piano come Cesena, Rovigo o Viterbo, ma che non rinunciavano a competere con quelle delle città vicine in quanto a magnificenza e importanza. Fu una catena di emulazione tra città, che ben rispecchiava la densità della geografia urbana italiana, a guidare questa moltiplicazione delle sale sul territorio preunitario (Sorba 2001).
Ad accomunare le varie realtà, pur nella diversità dei contesti locali, sono l’attribuzione a questi edifici di una sorta di centralità simbolica e rappresentativa all’interno della trama urbana, e l’individuazione di un medesimo meccanismo di finanziamento che faceva del teatro un luogo insieme pubblico e privato. A partire soprattutto dagli anni della dominazione francese – quando il processo di «laicizzazione» degli spazi urbani aveva conosciuto un’accelerazione importante con la vendita dei beni ecclesiastici e la liberazione di vaste aree edificabili – il luogo teatro aveva gradualmente assunto il ruolo di un nuovo polo di gravitazione della vita cittadina, diventando quasi l’edificio simbolo del periodo. Qualcosa di simile sarebbe avvenuto più tardi, nella seconda metà del secolo, con edifici come le stazioni ferroviarie, oppure, sul fronte privato, con le imponenti costruzioni delle grandi banche. Gran parte di questi edifici teatrali presentava infatti un carattere monumentale, facciate neoclassiche che rimandavano al modello del teatro-tempio, una posizione prospetticamente felice che fungeva spesso da raccordo tra parti diverse della città.
D’altronde si trattava di una centralità per nulla casuale: era infatti tra le loro mura che si giocava la parte più importante della vita di società. Tutti i resoconti dei viaggiatori stranieri del periodo, più o meno benevoli che fossero nei confronti delle peculiarità italiane, ci dicono che nelle piccole come nelle grandi città era necessario andare a teatro per incontrare ogni sera la società locale e coglierne la natura e i rapporti. Qui, nel quadro della struttura a palchetti tipica della sala all’italiana, che nonostante le critiche egualitarie della pubblicistica illuminista aveva trovato piena conferma nella progettazione ottocentesca, ci si trovava di fronte a una riproduzione quanto mai efficace delle gerarchie sociali. Fin dalle sue origini, essa comportava l’attribuzione di diverse «dignità» alle sue varie parti: nelle prime due file di palchi, che venivano definite «nobili», sedeva l’aristocrazia o l’alta borghesia del luogo; subito sopra, le file definite «mercantili» ospitavano il notabilato di fortuna più recente; mentre in basso, nel parterre, a lungo dotato di sedili mobili per essere trasformato all’occorrenza in sala da ballo, si aggirava un pubblico più composito di ufficiali, giovani aristocratici, studenti e anche donne di malaffare. Non poteva mancare infine, almeno nelle sale medie e grandi, la galleria a prezzi popolari, il cosiddetto loggione, situato sopra l’ultima fila di palchi e a cui si accedeva da un ingresso rigorosamente separato. Quello della sala all’italiana era dunque un modello architettonico che tendeva a neutralizzare i rischi della promiscuità sociale e per di più poteva essere facilmente declinato in varie dimensioni, persino in miniatura. Non è infrequente trovare nella provincia meridionale sale piccolissime, per poche decine di persone, e tuttavia allestite a palchetti, proprio perché adatte a una perfetta declinazione del gioco della distinzione sociale.
Ma c’era di più. La rinnovata fortuna ottocentesca di un tale modello architettonico di origine barocca si collegava anche a un ingegnoso meccanismo finanziario che aveva consentito la sorprendente crescita degli spazi teatrali in un paese povero di capitali, come certamente era l’Italia del primo Ottocento. La costruzione di una sala avveniva infatti attraverso la cosiddetta «privativa dei palchi», che suscitava tanta sorpresa e curiosità negli stranieri, dal momento che prevedeva una singolare dissociazione tra la proprietà dell’edificio nel suo complesso (che poteva essere dello Stato, del municipio, di un’accademia o di una società di azionisti) e quella dei singoli palchi. Questi ultimi venivano acquistati dai notabili del luogo e divenivano altrettanti salotti privati da cui le famiglie più in vista della città assistevano agli spettacoli e a propria volta si mostravano, in quel mondano gioco di specchi che era tipico della sala all’italiana. Negli edifici ottocenteschi erano inoltre cresciuti rispetto al passato gli spazi di rappresentanza e di ritrovo, cosicché anche nei centri di poche migliaia di abitanti i nuovi teatri comprendevano spazi per il caffé, per la conversazione, per il gioco, proponendosi come luoghi autosufficienti per il loisir cittadino.
Le stesse autorità politiche locali, anche nei territori che dipendevano direttamente dall’Austria, avevano favorito il diffondersi delle sale, perché considerate luoghi di incontro meglio controllabili di altre forme di ritrovo come circoli, caffè o salotti, anch’esse in rapido sviluppo. Alla base di questo vivace processo costruttivo stava infine un elemento peculiare del sistema italiano: l’apertura di un teatro non era sottoposta ad alcuna restrizione da parte delle pubbliche autorità, diversamente da quanto accadeva sia in Francia che in Inghilterra, dove la piena liberalizzazione del sistema teatrale con l’abolizione dei cosiddetti «privilegi» ai teatri maggiori avverrà solo molto più tardi nel corso del secolo. Non esistevano in Italia limitazioni al numero dei teatri, né prescrizioni di sorta relative ai generi in essi rappresentati. Questo rendeva possibile a chiunque, società o privati, aprire una nuova sala, con il solo benestare delle autorità di pubblica sicurezza che dovevano garantire l’ordine all’interno delle sale, mentre gli uffici censori avrebbero regolato e controllato quanto accadeva sui palcoscenici.
La forza del melodramma
Oltre che luoghi di incontro e di vita sociale, gli spazi teatrali erano ovviamente luoghi di spettacolo. A metà secolo ogni centro urbano che si pretendesse tale, nel Centro-Nord e nel Sud più urbanizzato, possedeva almeno un teatro (il cosiddetto «teatro di città») dove, finanze permettendo, si rappresentava l’opera in musica – che era il momento alto della stagione – e molti altri generi, dalla commedia al dramma storico, fino agli spettacoli di magia e di prestidigitazione. Se escludiamo il caso delle capitali culturali (Milano, Napoli, Roma), dove già esistevano teatri diversi per genere e pubblico, le sale teatrali erano per lo più spazi polivalenti, contenitori del divertimento cittadino dove si poteva assistere alla rappresentazione di un dramma di Vittorio Alfieri o a spettacoli ottici, come cosmorami e neorami, o ancora partecipare al ballo di carnevale e a tombole di beneficenza. La programmazione aveva però il suo fulcro nella stagione operistica (nei teatri maggiori più d’una l’anno) eventualmente arricchita dai balli d’entracte. Il teatro di prosa era considerato un momento secondario della vita teatrale, in alcuni casi addirittura un riempitivo tra una stagione d’opera e l’altra. L’altro genere musicale il cui successo stava crescendo nell’Europa del periodo, cioè la musica strumentale presentata in concerto, in Italia era ancora oggetto di iniziative episodiche e isolate, mancando di un proprio pubblico e di un proprio sistema produttivo.
Tutto ciò doveva essere ben chiaro a Giuseppe Mazzini che, in uno scritto del 1836 dedicato alla musica, aveva sostenuto che l’esperienza musicale, ma in senso lato teatrale, dell’italiano ottocentesco si risolveva quasi interamente all’opera. Per tutta la prima metà del secolo la forza di attrazione del melodramma può dirsi in effetti incontrastata e sempre crescente, soprattutto perché contava su un sistema produttivo e distributivo ben articolato e consolidato a scala nazionale. Attraverso uno spoglio sistematico dei periodici musicali dell’epoca e delle cronistorie di vari teatri, si è calcolato che tra il 1825 e il 1846 il numero delle stagioni d’opera sarebbe aumentato da 128 a 270 all’anno, per una crescita totale degli allestimenti da 388 fino a 798 all’anno. Ed è probabilmente una cifra che potrebbe aumentare se si considerassero le rappresentazioni più occasionali che si producevano nei piccoli teatri.
La diffusione capillare delle sale e il consolidamento dei circuiti impresariali, insieme alla crescita del fenomeno delle società filarmoniche e filodrammatiche, fa sì che quello teatrale divenga uno dei più attivi ed efficaci sistemi culturali funzionanti sul territorio nazionale anche prima dell’unificazione. Sono i percorsi degli impresari, figure chiave nel mondo operistico ottocentesco, ad assicurare la circolazione relativamente rapida dei melodrammi (Rosselli 1985). Se dunque i teatri sono spazi voluti e gestiti dalle élites locali, spesso in aperta concorrenza con le città vicine, in essi circola però una produzione melodrammatica che ha precocemente un profilo nazionale. In un territorio diviso da molte frontiere e in cui le comunicazioni erano ancora scarse e disagevoli, le opere sembrano essere il prodotto culturale la cui circolazione è più puntuale sul territorio, oltre che dotato del pubblico più largo e socialmente variegato. Mentre libri e periodici sottostavano al pagamento di dazi doganali anche pesanti, le opere circolavano più liberamente, fatto salvo l’intervento degli uffici censori. E anche con una certa rapidità, se si pensa che, pochi mesi dopo la prima a Venezia, un’opera come Rigoletto venne allestita con quasi lo stesso cast ad Ascoli Piceno, in un angolo appenninico dello Stato pontificio non certo facile da raggiungere. Nel momento in cui ottenevano successo, i melodrammi venivano poi massicciamente replicati, e richiamavano la stessa quantità di pubblico anche per trenta serate consecutive, riproponendo le gesta delle eroine donizettiane tratte dai romanzi di Walter Scott o gli intrecci storico-politici delle prime opere verdiane, in molti palcoscenici contemporaneamente. Il Trovatore, opera di grande popolarità, fu allestita nel corso del 1853 in 27 diverse sale italiane.
È allora un quadro articolato e crescente di strutture materiali (spazi, circuiti, contrattazioni tra impresari e notabili locali) a fare da sfondo al grande successo del melodramma di Vincenzo Bellini, di Gaetano Donizetti e infine di Verdi nei decenni centrali dell’Ottocento. E se non a predisporre, quantomeno a caricare di efficacia l’avvicinamento tra l’opera e le vicende patriottiche risorgimentali.
La capacità di proporsi a un pubblico sempre più ampio e articolato (sia attraverso i circuiti musicali professionali sia tramite la crescente attività dilettantistica di bande, cori, accademie e orchestrine) fa sì che le musiche e i testi dei melodrammi romantici, che spopolavano sui palcoscenici, rappresentassero un prodotto culturale unico nel suo genere, la più importante declinazione italiana del romanticismo popolare. Se dunque i teatri erano considerati dalle autorità luoghi di incontro ben controllabili, essi diventarono anche i conduttori di un flusso di narrazione che metteva in circolazione lungo la penisola, in versione melodrammatica, molti dei testi della letteratura romantica europea, da Byron a Scott, da Schiller a Victor Hugo. Si trattava per gran parte di intrecci storici di ambientazione medievale o quattro-cinquecentesca, dotati di una carica emotiva e sentimentale che tendeva a infiammare le platee. Le parole più utilizzate dalla stampa del periodo per descrivere la reazione del pubblico di fronte ai melodrammi di maggiore successo erano brividi, pianto, commozione, lacrime, stordimento, strepiti fino alla fine, tremore di gioia, il tutto a rimarcare l’alta temperatura emotiva che si respirava nei teatri.
Una specificità forte del sistema operistico italiano consisteva, infine, nella sua struttura policentrica, che si combinava perfettamente con la dimensione internazionale che era propria dell’opera italiana fin dalle sue origini. Poteva succedere allora, ancora a metà del secolo, che l’organizzazione di una prima verdiana avvenisse in provincia, come fu per Aroldo nel 1857 in occasione dell’inaugurazione del teatro di Rimini, o davanti a un’illustre platea internazionale come quella dell’Her Majesty’s Theatre londinese, dove nel 1847 il maestro presentò al pubblico per la prima volta I Masnadieri. In entrambi i casi erano previste compagnie di canto di tutto rispetto.
I circuiti impresariali del periodo, insomma, riuscivano a tenere insieme queste diverse dimensioni geografiche, che finivano per sostenersi reciprocamente. Qualcosa però nel corso del secolo aveva iniziato a cambiare. Si stava verificando una crescente polarizzazione produttiva intorno a pochi grandi centri – Milano, Roma, in qualche caso Torino – dove si concentravano anche le testate e la critica musicali, oltre che gli editori, mentre Napoli e Venezia perdevano progressivamente di rilievo. All’estero, la commissione di opere a compositori italiani da parte di grandi teatri, una prassi consueta che aveva trovato piena conferma nell’Ottocento, si concentrava soprattutto su Parigi, vera e propria capitale culturale del XIX secolo, ma vedeva anche l’emergere di piazze inconsuete, come San Pietroburgo, dove andò in scena la prima de La forza del destino nel 1862, o Il Cairo per Aida nel 1871.
L’opera e il movimento nazional-patriottico
È noto che alla vigilia dell’unificazione nazionale, nel 1859, sui muri di molte città italiane i passanti potevano leggere delle scritte a grandi caratteri che, attraverso il nome del maestro di Busseto, inneggiavano in realtà alla prospettiva di un nuovo regno sotto i Savoia. I muri delle nostre case fanno l’ufficio dei giornali – scriveva da Modena nel gennaio del 1859 un corrispondente dell’«Opinione» di Torino – ed i nomi di Vittorio Emanuele, di Cavour, di La Marmora ecc. vi sono iscritti sopra. La gioventù specialmente ha ora di continuo in bocca il nome di Verdi, poiché questo fortunato nome, colle lettere che lo compongono, forma l’ardente voto di tutti quelli che vogliono Vittorio Emanuele re d’Italia (cit. in Sawall 2003, p. 125).
Il «Viva V.E.R.D.I!» era conosciuto come acrostico allusivo al nome di colui che si apprestava a divenire il primo re d’Italia già dall’anno precedente, quando se ne hanno testimonianze in Toscana e persino nella Milano austriaca. Sul medesimo giornale si legge che tali scritte iniziavano a impensierire parecchio la polizia che tutte le notti mandava «intorno una mano d’e’ suoi agenti per cancellarle». Ma il giorno dopo, continuava l’articolista, «le iscrizioni tornano a farsi a lettere più cubitali» (cit. ivi, p. 126).
Le scene operistiche si erano dunque caricate di tali e tante immagini e suoni patriottici nei decenni precedenti da divenire riconosciuto emblema del discorso risorgimentale? La costruzione dell’icona di Verdi come padre della patria e «vate» del Risorgimento italiano fu perseguita con indubbia efficacia comunicativa fin dalla prima biografia aneddotica nel 1881 e venne arricchita di varianti prima e durante il fascismo. Ciò ha sedimentato sul personaggio, e più in generale sull’opera lirica, una carica di mitografia dalla quale non è facile districarsi per rintracciare il peso effettivo della dimensione politica nel teatro musicale del periodo. In effetti non si può sostenere che Verdi o gli altri compositori le cui opere furono oggetto di letture risorgimentali (si pensi alla Norma di Bellini, oppure alla Donna Caritea di Mercadante) fossero dei patrioti militanti. E d’altronde, se Rossini dedicò a Carlo X il suo Guglielmo Tell(forse la più profondamente patriottica delle opere di primo Ottocento) e Verdi i Lombardi alla prima crociata a Maria Luigia d’Austria, non si può nemmeno pensare che quei testi portassero in sé una carica sovversiva così riconoscibile ed evidente. Si trattava nello stesso tempo di prodotti commerciali fatti per il pubblico e di opere prodotte all’interno di un sistema dove i teatri di corte svolgevano un ruolo importante. Ben difficilmente potevano proporre immagini sgradite ai governanti, cosa che d’altronde il controllo censorio avrebbe impedito, o a una parte del proprio pubblico.
Se a nessuno dei compositori citati può allora essere attribuita una precisa volontà di informare la propria produzione a obiettivi politici, è pur vero che nelle loro biografie non mancano le occasioni di vicinanza agli ambienti e ai temi risorgimentali. Ad esempio, Donizetti e Bellini frequentavano assiduamente a Parigi il salotto di Cristina di Belgioioso e il gruppo dei fuoriusciti italiani, all’interno del quale individuarono e assoldarono molti dei propri collaboratori: il mazziniano Agostino Ruffini ebbe il compito di rivedere per Donizetti il libretto del Marino Faliero; il fratello di questi, Giovanni, egualmente esule, compose il testo per il Don Pasquale. Da parte sua Bellini aveva chiesto a Carlo Pepoli, il conte bolognese fuggito a Parigi dopo i moti del 1830, di scrivere per lui il libretto de I Puritani. Al di là delle intenzioni dei compositori, tali testi nascevano dunque in un contesto imbevuto di temi nazional-patriottici e ne recavano le tracce.
Per quanto riguarda Verdi e le sue propensioni politiche, sappiamo della fascinazione giovanile per la tradizione repubblicana e anticlericale, che lo portò a chiamare i propri figli Virginia e Icilio, personaggi simbolo della tradizione giacobina italiana. Alle posizioni più radicali di gioventù egli aveva sostituito nella maturità un’incondizionata ammirazione per Cavour, che avrebbe eletto a sua stella politica. Sull’intenzionalità verdiana di partecipare e di incidere con la propria musica sulle lotte risorgimentali storici e musicologi ancora oggi si dividono tra chi tende a negare qualsiasi consistenza all’immagine risorgimentale del maestro e chi invece mette in luce i molti, anche se non sempre coerenti, fili che legano la sua produzione agli eventi politici del momento.
Se rimaniamo sul piano della biografia del compositore emergono in effetti segnali contrastanti. Nella sua corrispondenza trapela più volte una sorta di resistenza a occuparsi di politica, un campo del quale sa bene di non intendersi affatto: una consapevolezza che forse nasconde qualche timore nei confronti di un possibile eccesso di subordinazione della propria produzione agli imperativi politici del momento, che in taluni casi gli viene effettivamente sollecitata. Come ha scritto Giuliano Procacci, il suo fu piuttosto un impegno politico dal carattere intermittente e fortemente emotivo, che tendeva a dispiegarsi nei momenti di maggiore tensione e comunque mai a divenire una vera priorità nella sua produzione (Procacci 2003). Tra quei momenti ci fu senza dubbio il Quarantotto, quando il compositore mise in scena un’opera (La Battaglia di Legnano) tratta da una delle vicende storiche più notoriamente imbevuta di risonanze patriottiche che circolava in quel periodo, cioè la lotta dei comuni lombardi contro Federico Barbarossa, un precedente germano invasore. Negli stessi mesi egli musicò inoltre, su diretta sollecitazione di Mazzini, un testo di Mameli, l’inno patriottico Suona la tromba, che avrebbe dovuto essere cantato nelle pianure lombarde, fra la musica del cannone, come egli stesso scrisse nella lettera che lo accompagnava.
Se si sposta l’attenzione dal piano biografico a quell’insieme di spazi, circuiti e attori sociali che componevano il mondo teatrale, ci si accorge allora che molti altri elementi contribuirono a caricare il melodramma di aspettative civili, favorendone l’uso politico. Già negli anni Trenta, in uno scritto dedicato alla Filosofia della musica, Mazzini aveva attirato l’attenzione sul fatto che l’opera poteva essere un mezzo importante per sollecitare negli italiani una nuova spinta all’impegno politico (Mazzini 1836). Per questo aveva rivolto un appello accorato al mondo del teatro musicale italiano perché abbandonasse le frivolezze su cui aveva fino ad allora indugiato e desse invece vita a un’opera corale, capace di dar voce a ciò che aveva definito nei suoi scritti come l’«individuale collettivo». Mazzini era molto interessato in quegli anni alle potenzialità politiche offerte dai linguaggi artistici, che gli parevano un veicolo particolarmente adatto alla diffusione dei messaggi di una politica nuova, capace di rivolgersi non a pochi ma ad un pubblico ampio e vario. Seguendo la riflessione romantica, egli riteneva che il dramma fosse il punto più alto nella gerarchia delle arti poiché dotato della capacità «di comunicare direttamente con il popolo» (Sorba 2008). Ma era anche convinto che, nel caso italiano, quel ruolo doveva essere svolto dall’opera, una combinazione di musica e dramma che intrecciava la più espressiva con la più sociale delle arti e si candidava a divenire la principale speranza di una nuova «arte italiana». Il pamphlet sulla musica, scritto durante l’esilio francese e svizzero, è il frutto di un contatto stretto con il dibattito romantico europeo e con un denso mondo di esuli per i quali politica, arte e letteratura si intrecciavano così strettamente che diventava difficile distinguerne i confini. Agli ambienti mazziniani va ricondotta una precoce canonizzazione patriottica di Bellini, morto prematuramente nel 1835, subito dopo il successo internazionale dei Puritani.
Il corto circuito che si creò tra opera e Risorgimento negli anni Quaranta partì, dunque, da un consapevole tentativo mazziniano di inscrivere il teatro nel quadro degli strumenti dell’attivismo patriottico, e si sviluppò ben più tra il pubblico e nei parterre dei teatri che sulle scene stesse. Nonostante il luogo teatrale fosse considerato un luogo d’ordine, come abbiamo visto incoraggiato e legittimato dalle autorità in quanto spazio facilmente sorvegliabile, nel periodo 1846-49 molti allestimenti operistici si esposero a letture politiche da parte di un pubblico sensibile a ogni allusione all’attualità politica più stringente. Un caso significativo, proprio perché ben poco patriottico nei suoi intenti originari, fu quello dell’Ernani verdiana. In occasione dell’elezione nel 1846 di papa Pio IX, evento carico di promesse per i patrioti italiani, nella provincia pontificia iniziavano ad allentarsi i due principali meccanismi di sorveglianza delle pubbliche autorità sui teatri, cioè la censura e il controllo poliziesco, tanto che il testo verdiano tratto da Hugo diventò oggetto di numerose «variazioni» orientate politicamente che provenivano dal pubblico e dagli stessi cantanti. Ritroviamo così vere e proprie accensioni nazionalistiche, difficile dire quanto improvvise e quanto programmate, di fronte a parole o situazioni che alludessero a eventi dell’attualità. Nel finale dell’opera l’invocazione alla clemenza di Carlo V si trasformò sui palcoscenici della Romagna in un inno al nuovo Papa che aveva appena concesso l’amnistia per i reati politici; o ancora il grido «Guerra, guerra!» lanciato dai druidi in Norma divenne un richiamo alla battaglia in corso contro gli austriaci, mentre i pezzi di Macbeth («O patria oppressa»), o di Attila («Santo di patria indefinito amor») suscitarono esaltazioni collettive in molti teatri.
Le potenzialità di lettura politica del melodramma in musica furono infine legate al fatto che attraverso di esso circolavano alcuni dei discorsi e dei dispositivi narrativi che più profondamente percorrevano il dibattito romantico europeo sull’origine delle nazioni. Il più evidente, almeno prima del Quarantotto, è quello che individuava la matrice delle nazioni in una originaria contrapposizione tra due popoli, di cui uno oppresso e uno oppressore. Si prenda un’opera come Attila (Venezia 1846), la cui idea era venuta a Verdi dalla lettura del De l’Allemagne di Madame de Stael. Già nei primi approcci con il librettista nella primavera del 1844, Verdi aveva esposto una propria idea compositiva che si distaccava parecchio dal dramma originario di Zacharias Werner da cui era tratta. Si alzerà il sipario su Aquileia incendiata, aveva scritto, e su due cori di popolo: uno che prega – gli abitanti di Aquileia – e uno che minaccia – gli unni invasori (Verdi 1913, pp. 432-441). Su questa articolazione narrativa, che ben si prestava a una proiezione sulle vicende del presente, si sarebbe poi sviluppato l’intreccio dell’opera, che prevedeva la trasformazione della protagonista originaria, la principessa burgunda Ildegonda, nella romana Odabella, l’«intrepida donna italica» che si oppone con forza all’invasore Attila. La tragedia originaria subiva così una revisione narrativa ben leggibile dal pubblico italiano come allusiva al destino della penisola: un susseguirsi di cicliche invasioni e dominazioni a cui avrebbe fatto seguito un futuro di riscatto.
Le allusioni si fecero più stringenti man mano che ci si avvicinava al Quarantotto e i riferimenti nel lavoro verdiano a episodi storici, a personaggi e a testi che già facevano parte dell’immaginario nazional-patriottico canonizzato divennero più numerosi ed evidenti, riflettendo il clima politico del momento. Con il librettista Salvatore Cammarano il compositore lavorò alla possibilità di mettere in scena l’Ettore Fieramosca, dal noto romanzo di Massimo d’Azeglio, e a Francesco Maria Piave nel luglio del 1848 propose un soggetto «italiano e libero» quale poteva essere il Ferruccio, «personaggio gigantesco, uno dei più grandi martiri della libertà italiana», liberamente tratto dall’Assedio di Firenze di Francesco Domenico Guerrazzi (Verdi 1947, 4° vol., p. 217). Tali idee compositive non sarebbero andate in porto ma furono il preludio della composizione dell’unico vero testo patriottico verdiano, la Battaglia di Legnano, messo in scena nella Roma repubblicana del gennaio 1849. Senza più timori censori l’opera si apriva con il coro maestoso «Viva Italia! Sacro un patto tutti stringe i figli suoi» e dispiegava molti elementi del repertorio di immagini nazionali ben note: lo scenario comunale della Lega lombarda, il giuramento dei congiurati, il tradimento del malvagio, il martirio dell’eroe. Anche nel corso della guerra successiva, tra il 1859 e il 1860, i teatri si riempirono di politica, seppure l’attivismo patriottico parve ora molto più cauto e contenuto. Uno degli episodi più noti riguarda una rappresentazione di Norma alla Scala nel gennaio del 1859, quando applausi scroscianti e richieste di bis accompagnarono il coro dei druidi «Guerra, guerra!» di fronte a un parterre pieno di divise austriache (Notizie politiche, «L’Opinione», 34, 3 febbraio 1859, p. 3).
I teatri tra municipi e Stato
Le sale teatrali furono spazi di attivismo patriottico e di unificazione culturale piuttosto efficaci, nonostante la vita degli edifici teatrali fosse invece il prodotto di vicende, di finanziamenti e di volontà strettamente locali. In questo senso si potrebbe dire che nei teatri dei decenni centrali del secolo si congiungevano magistralmente – e temporaneamente – le aspirazioni di eccellenza municipale dei notabili locali e i percorsi di un processo di integrazione culturale che nella musica d’opera aveva trovato un veicolo tutt’altro che secondario. Paradossalmente però, una volta raggiunta l’unificazione nazionale, il mondo della musica e del teatro conobbe una fase di riassestamento e di modernizzazione che mise in crisi il sistema fino allora consolidato e i suoi meccanismi di funzionamento, creando negli addetti ai lavori una diffusa percezione di disorientamento e di declino.
Non che si affievolisse la centralità e la forza di attrazione dei palcoscenici sia nella società che nell’immaginario collettivo. Anzi, mai come in questo momento tanto si discusse delle sorti del teatro, sia musicale che di parola, fuori e dentro l’aula parlamentare, sulle riviste culturali dell’epoca e nei congressi musicali e drammatici, o ancora su una stampa di settore in rapida crescita dove si andava formando una nuova generazione di critici. Negli ultimi decenni del secolo il numero delle sale in attività era ancora aumentato e il paesaggio teatrale delle città cominciava ad articolarsi e diversificarsi per rispondere a pubblici e domande diverse di intrattenimento. Inoltre, scrivere per il teatro sembrava essere un’attività a cui tutti prima o poi si prestavano, dagli intellettuali più in voga ai notabili di provincia. Basti pensare a quanti all’interno del Parlamento italiano fossero quelli che scrivevano per le scene, in modo più o meno professionale: su quegli scranni sedeva una star internazionale come Verdi, deputato tra il 1861 e il 1865 e poi nominato senatore nel 1874, ma anche personaggi ben noti e attivi nel mondo teatrale del periodo come Felice Cavallotti, Vittorio Bersezio o Carlo Righetti.
Se il teatro continuava indubbiamente a giocare un ruolo di primo piano nella società e nella cultura italiana, la transizione al nuovo regime comportò tuttavia una trasformazione del quadro istituzionale e giuridico che finì per mettere in luce per le sale teatrali grandi e piccole gli elementi di fragilità e di arretratezza del sistema, più che per innovarne seriamente il funzionamento. Ne è un esempio chiaro, pur nella sua tortuosità, la vicenda normativa attraversata dagli ex teatri di corte o governativi, cioè il Regio e il Carignano a Torino, la Scala e la Canobbiana a Milano, il Ducale a Parma, il San Carlo e il Fondo a Napoli, dove la congiunzione temporanea tra eccellenze municipali e nazionalizzazione culturale che si era prodotta in periodo preunitario trovò una prima smentita. Tra il 1859 e il 1861, seguendo i tempi diversi delle annessioni, quelle strutture erano diventate parte del demanio del nuovo Stato e vennero incluse nelle competenze del ministero dell’Interno. Si trattava di sale diverse che presentavano gradi diversi di criticità. Se per alcune di queste, come il gran teatro torinese, la situazione non appariva troppo problematica, per altre, più di tutte il San Carlo, il quadro finanziario era da parecchi anni molto critico e avrebbe richiesto un intervento pubblico consistente. Su tutte le sale delle ex capitali pesavano le condizioni eccezionali del momento: lo smantellamento delle corti, la partenza delle guarnigioni stabili e dei corpi diplomatici significavano una riduzione cospicua del pubblico e della possibilità di organizzare una programmazione adeguata. Era necessaria dunque una politica di intervento ben mirata, per far fronte a una congiuntura difficile, mentre all’interno del Parlamento prevaleva invece un orientamento opposto, cioè il favore verso una piena liberalizzazione del sistema che doveva avvenire all’insegna di uno spirito di decentramento e di una normativa «leggera», già peraltro prevalso nel dibattito apertosi sul teatro negli ultimi anni del Regno di Sardegna. È lo stesso orientamento che ispirava anche la prima riorganizzazione su base locale della censura avvenuta nel 1864, che tendeva a rimarcare il distacco dalla tradizione preunitaria, vista come un anacronistico sistema di controlli e di privilegi. In uno stato moderno bisognava che «l’arte facesse da sé», liberandosi sia dalla tutela che dai sussidi governativi. Questo il discorso che appariva più diffuso all’interno dell’aula parlamentare e tra l’opinione pubblica.
Nessuno ignora – aveva dichiarato il ministro Ubaldino Peruzzi nel 1863 – l’importanza dei regii teatri di Torino, Napoli, Milano e Parma, tanto come istituti artistici nazionali, ricchi di belle tradizioni, quanto come centri di estese industrie e di gravi interessi privati. Il Governo ha la convinzione che, dicentrata l’amministrazione di questi teatri e trasferita nelle mani dei municipi, i quali hanno più sicuri criterii per dirigerli secondo le convenienze locali, e più dirette ragioni per considerare come un proprio profitto il loro prosperamento, non che scapitare si avvantaggeranno le sorti e crescerà il lustro di quegli istituti (cit. in Sorba 2001, p. 237).
Prevaleva cioè a livello governativo l’idea del decentramento delle competenze, anche se Peruzzi non nascondeva la necessità di prevenire gli effetti traumatici che la cancellazione delle sovvenzioni poteva avere sulle fragili finanze dei grandi teatri. E per questo raccomandava cautela e gradualità, soprattutto in quanto il dibattito sull’ordinamento della finanza locale era ancora del tutto aperto e incerta era dunque la questione delle risorse che sarebbero effettivamente spettate ai municipi.
A dare manforte all’idea della cessione dei teatri maggiori alle autorità locali stava un ampio fronte liberista avverso a ogni forma di intervento statale in un campo che doveva invece essere lasciato all’autonomo dispiegarsi dell’iniziativa privata. A tale fronte si opponevano coloro che ritenevano invece prioritarie le ragioni storico-artistiche di natura nazionale. Tra questi un personaggio autorevole come Pasquale Stanislao Mancini, il quale sosteneva con forza l’idea che la vita dei grandi teatri riguardava l’intera nazione e non i singoli comuni, indicando a sostegno del proprio ragionamento l’esperienza delle grandi capitali europee. Una commissione presieduta da Luigi Torrigiani era stata allora incaricata di studiare da vicino la questione e di rispondere alla domanda se convenisse allo Stato sussidiare alcuni teatri come faceva per alcune università, alcuni collegi e conservatori. Le conclusioni raggiunte avevano finito per appoggiare l’idea che l’attività dei grandi teatri andasse considerata un servizio pubblico e dunque sovvenzionata, in modo particolare in una situazione di crisi economica che rendeva difficile l’intervento dei municipi e dei privati. Era stato proprio il regime dei sussidi, così si leggeva nella relazione, a permettere il grande sviluppo dell’arte vocale italiana e la sua diffusione nel mondo, favorendo una produzione intensa e garantendo allestimenti di qualità (ivi, p. 242).
Si trattava però di una posizione che in quella fase non poteva che apparire di retroguardia, oltre che problematica dal punto di vista economico, cosicché le conclusioni della commissione trovarono ben poco ascolto in un Parlamento dove continuavano a prevalere un’avversione pregiudiziale ai sussidi e l’idea che alle pubbliche autorità spettasse solo un’azione di stimolo e di regolamentazione, non di protezione e di controllo.
Le emergenze economiche del 1866 avrebbero ulteriormente rafforzato questa posizione: la nuova guerra alle porte, il trasferimento a Firenze della capitale, più costoso del previsto, gli impegni per l’esercito e per le infrastrutture rendevano indispensabile il taglio delle voci più controverse del bilancio. Superata così ogni considerazione di prudenza e gradualità, la spesa per il teatro finì per scomparire del tutto dal bilancio dello Stato per il 1867, non senza una vera e propria battaglia in Parlamento che si concluse con 172 voti favorevoli e 90 contrari alla cessione dei teatri regi ai municipi.
Va detto che la soluzione municipale appariva anche come un’opportunità importante di ammodernamento del sistema. L’autorevole critico Francesco D’Arcais sulla «Nuova Antologia» sosteneva che un’innovazione di quel tipo avrebbe potuto favorire il superamento del tradizionale sistema impresariale in direzione dell’organizzazione di orchestre, cori e repertori stabili, come già accadeva con ottimo successo in area tedesca (Piazzoni 2001).
Nel frattempo, però, l’intero universo teatrale – e non solo le quattro città interessate dal dibattito citato – si trovava a vivere una vita sempre più stentata e precaria, con il pubblico che scarseggiava (soprattutto quello degli habitués, i palchisti e i militari, su cui gli impresari più contavano), e una concorrenza sempre più forte per il moltiplicarsi delle sale, e in generale delle occasioni di intrattenimento. L’imposizione nel 1869 della tassa del 10% sugli introiti lordi teatrali finiva così per incidere pesantemente sul delicato e sempre precario equilibrio che presiedeva alla programmazione teatrale, cioè la contrattazione tra impresari-capocomici e singole sale. Contro tale tassa si sarebbe per una volta coalizzato, ma con scarso successo, tutto il mondo, per lo più sfrangiato al proprio interno, della produzione teatrale, sia in musica che in prosa, presentando petizioni parlamentari e ricorsi fin dalla prima applicazione del nuovo tributo.
Un altro fronte di complicati contenziosi tra i municipi e il ministero fu aperto poi dall’applicazione della prima normativa sul diritto d’autore, che inizialmente prevedeva un intervento diretto dei comuni nel controllo e nella riscossione di quei diritti, previo invio al ministero di Agricoltura, industria e commercio di rapporti trimestrali dettagliati con il nome e il titolo di tutte le opere musicali e drammatiche rappresentate nella provincia.
Il nuovo Stato tentava dunque di imporre al settore una sorta di modernizzazione accelerata attraverso l’assunzione di un’ottica di libero mercato. Questa tuttavia non era accompagnata da quel riordinamento organico e coerente del sistema che molti auspicavano, mentre la progettazione di una politica di valorizzazione della produzione teatrale e musicale veniva rimandata a data da destinarsi. A dibattersi tra le difficoltà di adeguamento a un quadro normativo instabile e in continua evoluzione, da un lato, e alle sempre più precarie condizioni delle economie locali dall’altro, non erano solo i teatri maggiori, ma tutto quel sistema teatrale puntuale e articolato sul territorio che si era consolidato nei cinquant’anni precedenti e che era stato tenuto insieme dai circuiti impresariali. Gran parte dei municipi italiani si trovava in quel momento in situazioni finanziarie difficili, cosicché la medesima questione dei sussidi pubblici che abbiamo visto dibattuta in Parlamento per gli ex teatri di corte si riproponeva per tutti i teatri di città, che conobbero dopo l’Unità un forte ridimensionamento degli allestimenti.
I decenni postunitari sono quelli in cui si accesero a livello locale, da Reggio Emilia a Cagliari, da Padova a Foggia, contenziosi senza fine e contrasti roventi tra i notabili locali sull’opportunità di assegnare o meno la «dote» (cioè la sovvenzione municipale) ai teatri, ma anche sulla necessità di aumentare il contributo richiesto annualmente ai proprietari dei palchi. La dote municipale e il canone annuo dei palchisti, ben più degli introiti serali, erano infatti da sempre le maggiori voci di entrata dei teatri di città, quelle che nella gran maggioranza dei casi ne avevano permesso la costruzione, la gestione e la manutenzione. Esemplare in questo senso il caso di Venezia, dove all’inizio degli anni Settanta il consiglio comunale aveva rifiutato di erogare il contributo annuale che forniva al teatro La Fenice fin dal 1819, e che veniva ormai definito un’inutile spesa di lusso poiché rivolto a una ristretta fascia di cittadini. A loro volta i palchisti, rappresentanti dell’aristocrazia e dell’alta borghesia cittadina, non acconsentirono all’aumento dei canoni annui, ritenuti già troppo elevati. Tutto ciò costrinse il maggior teatro cittadino a una programmazione più che saltuaria, con la rinuncia a 12 stagioni del Carnevale, le più importanti dell’anno, tra il 1872 e il 1897. Non molto diversa era la situazione del Carlo Felice di Genova, costretto a chiudere tra il 1879 e il 1882, come il San Carlo a Napoli nella stagione 1875-76, o la Canobbiana a Milano tra il 1875 e il 1885. La Pergola di Firenze, dopo aver perso la sovvenzione nel 1877, presentò una programmazione estremamente precaria.
La crisi dei teatri maggiori si rifletteva inevitabilmente sulla vita di quelli minori. Sale come quelle di Rimini, di Pesaro o di Lucca, un tempo incluse nei maggiori circuiti impresariali e dove potevano essere allestiti i medesimi spettacoli che erano passati pochi mesi prima a Venezia o a Firenze, si trovavano ora escluse da quella programmazione molto più ristretta anche sul piano temporale.
È in un contesto di questo tipo, dove gli impresari e i teatri reclamavano aiuti e i poteri pubblici paventavano la bancarotta, che Verdi, da Sant’Agata, si lasciava andare a uno sfogo costernato in una lettera all’amico Opprandino Arrivabene: «Cosa singolare! Quando l’Italia era divisa in tanti piccoli stati le finanze di tutti erano fiorenti! Ora che tutti siamo uniti, siamo rovinati. Ma dove sono le ricchezze di una volta?!» (Verdi 1931, p. 78).
Le trasformazioni dell’«industria» dello spettacolo
In realtà, il sistema teatrale italiano manifestava debolezze e fragilità già ben presenti prima dell’unificazione e che il nuovo Regno si trovava semplicemente a ereditare, insieme a molte aspettative su quanto il nuovo Stato avrebbe potuto fare. Si trattava di organizzare un moderno sistema di istruzione musicale e drammatica; di coltivare, tutelare e valorizzare le professionalità specifiche del settore; di sollecitare la crescita e la diffusione di un’arte musicale già esportata in tutto il mondo eppure in una fase di scarsa vivacità produttiva; e ancor più di stimolare un teatro di prosa che mancava in Italia di una vera scuola e di un proprio affezionato pubblico.
Piuttosto radicata e diffusa era l’idea che il quadro italiano soffrisse di una specifica arretratezza rispetto ad altri paesi europei, soprattutto perché caratterizzato da una forte precarietà della programmazione e da un «nomadismo» delle produzioni che appariva obsoleto rispetto a un quadro di maggiore stabilità, sia dei repertori sia delle compagnie, che si andava invece consolidando in gran parte d’Europa.
Che il problema fosse sentito anche a livello politico lo prova il fatto che già nel 1861 il ministro dell’Interno Ricasoli aveva incaricato una commissione di studiare «i mezzi per promuovere l’incremento dell’arte drammatica», sottolineandone la cruciale funzione educativa e civile. La commissione, composta anche da autorevoli addetti ai lavori (letterati, critici, giornalisti, commediografi, attori, il direttore della regia scuola di declamazione di Firenze) aveva il compito di discutere e proporre soluzioni intorno al problema delicato della riorganizzazione del sistema censorio, ma anche di individuare strategie e mezzi adeguati per una politica di «incoraggiamento» del teatro. Vennero così subito messe sul tappeto molte delle idee e delle soluzioni su cui si sarebbe discusso nei vent’anni successivi: l’opportunità di una Direzione generale dei teatri a cui attribuire l’insieme delle competenze sul settore, sia sul piano del controllo che su quello della promozione; l’istituzione di una rete qualificata di scuole pubbliche di recitazione; la formazione di alcune compagnie stabili sussidiate che fungessero da traino culturale per il settore; l’ampliamento del sistema dei concorsi annuali per le opere di maggior valore, già ereditato dallo Stato sabaudo. Il governo, così si legge nei verbali della commissione, non poteva certo svolgere, come accadeva in altri tempi, l’azione di un mecenate e tuttavia non poteva mancare di fungere da «provvido tutore del patrimonio nazionale, che agevola il modo pel quale tutte le forze produttive sieno efficacemente unite e saggiamente dirette» (cit. in Piazzoni 2001, p. 66). Nelle conclusioni dei lavori risultarono però di fatto prioritari altri temi, cioè l’assetto del sistema censorio, da un lato, e la regolamentazione della proprietà artistica, dall’altro. Dilagavano infatti nei teatri le opere politiche di soggetto garibaldino, controllate a vista dalle prefetture perché sempre a rischio di disordini, fatto che rendeva urgente la riorganizzazione della censura, alla quale venne data una prima soluzione «locale» che sarebbe poi stata confermata dalle leggi crispine nel 1889. Il cosiddetto «incoraggiamento» finì per rimanere in secondo piano nei lavori della commissione e si esaurì per il momento nella riproposta dei concorsi governativi a premi per le produzioni drammatiche, che si sarebbero tenuti annualmente, ma con esiti assai modesti, fino al 1876.
Un avvio così esitante della politica per il teatro da parte del nuovo Stato finì per contribuire al consolidarsi nei decenni seguenti di un dibattito fortemente critico sulle sorti del teatro italiano, sia in musica sia in prosa, che percorse gran parte dei luoghi culturali e politici deputati, sollevando tra gli addetti ai lavori una sorta di lamento corale che tendeva a tingersi di una vaga nostalgia per una non ben definita età dell’oro del teatro italiano. In effetti, l’universo teatrale postunitario era investito, e parzialmente disarticolato, da una serie di trasformazioni che riguardavano aspetti diversi del suo funzionamento e che spiegano il diffuso senso di disorientamento: da un lato, la modernizzazione giuridica e soprattutto fiscale, che comprendeva, ad esempio, il riconoscimento del diritto d’autore, e richiedeva delicati aggiustamenti tra i diversi attori della produzione; dall’altro, l’ampliarsi e l’articolarsi di un mercato culturale che aveva nell’«industria dello spettacolo» uno dei suoi terreni più importanti e anche in Italia cominciava, con estrema gradualità, a moltiplicare e diversificare circuiti e pubblici.
Erano allora tutti gli elementi del quadro produttivo precedente ad apparire inadeguati, non ultimi gli spazi, cioè quei teatri «di città» che con le loro aristocratiche strutture a palchetti si prestavano a divenire il simbolo dell’arretratezza complessiva del sistema. Come dirà Bersezio, scrittore e giornalista molto attivo nel mondo del teatro, riprendendo una polemica già lanciata negli anni Quaranta dall’attore mazziniano Gustavo Modena, «quei maledetti palchi aristocratizzano gli spettacoli e non li rendono accessibili alle così dette masse, che pure formano il vero pubblico» (cit. ivi, p. 297). E in effetti in alcune città come Torino, Venezia o Brescia si discusse a lungo in sede di consigli comunali sull’opportunità di ristrutturare le antiche sale per allargare e «democratizzare» la partecipazione. Dal momento che si doveva comunque procedere a una loro modernizzazione sul piano della sicurezza, sostenevano in molti, si poteva anche cercare di rispondere alla loro indubbia crisi rendendoli più accessibili a tutti i cittadini. In modo particolare, come si disse a Brescia, non tanto alle «masse» quanto a quel «ceto medio» a cui ora il teatro poco si rivolgeva, composto com’era dai palchi per le classi privilegiate e dal loggione per quelle inferiori. Si trattava, allora, di espropriare le prime file di palchi, e magari il palco reale, per costituire gallerie o balconate aperte, il che corrispondeva di fatto alla soluzione più frequente nella maggior parte dei teatri europei. Non molto si riuscì a concretizzare in questa direzione, perché si trattava per lo più di operazioni tanto complesse dal punto di vista strutturale quanto poco incisive sulla capienza finale delle sale, oltre che suscettibili di conflitti accesi coi palchisti. Il dibattito sugli spazi teatrali ebbe quindi esiti scarsi, se si eccettua qualche caso di trasformazione in loggione delle ultime file di palchi (come avvenne a Venezia nel 1878), ma rimaneva comunque indicativo della persistente centralità degli aspetti architettonici nella crisi dei teatri.
A far concorrenza alle vecchie sale municipali e sociali c’erano inoltre spazi nuovi e diversi come i politeama e le arene, sempre più numerosi lungo la penisola. Si trattava di sale fatte per un pubblico vasto e popolare, capaci di contenere anche 4-5.000 spettatori, costruite e gestite per lo più da nuovi imprenditori dello spettacolo che tendevano a proporre nuovi generi e utilizzavano strategie pubblicitarie più aggressive, come gli enormi cartelloni-manifesto che iniziavano a tappezzare le strade delle città. Erano il simbolo di una fase più commerciale della produzione teatrale, che proponeva anche al pubblico italiano forme di spettacolo spesso provenienti dalla Francia, come l’operetta, il vaudeville, la rivista o il varietà. Già negli anni Sessanta queste nuove programmazioni ottenevano un sorprendente successo, attirando non solo piccoli negozianti e domestici, come scriveva criticissima la «Gazzetta Musicale di Milano», cioè il giornale dell’editore Ricordi, ma anche un pubblico più colto e sofisticato che accorreva a Milano al teatro Fossati per vedere le ultime novità degli «spettacoli parigini», simboli di una modernità a cui l’Italia postunitaria fortemente aspirava (Sorba 2006). D’altronde solo molto gradualmente nei decenni di fine secolo si consumerà anche nelle sale teatrali quella distinzione gerarchica tra forme colte-artistiche e forme popolari-commerciali che doveva caratterizzare il mercato culturale in una società avviata a divenire di massa.
Sull’interesse carico di aspirazioni di modernità per la musica e il teatro straniero si misurava ovviamente il mercato. Opere e operette francesi divennero presto oggetto privilegiato dell’attenzione di editori dinamici, come fu ad esempio Sonzogno, che giocò sull’acquisto dei diritti delle operette di Jacques Offenbach o dei lavori di Georges Bizet la sua concorrenza all’egemonia fino ad allora incontrastata di Ricordi. E le mode artistiche d’oltralpe non si limitavano certo al teatro leggero. Il Grand-opéra di Jakob Meyerbeer e di Daniel Auber, l’«opera mastodonte» come si usava chiamarla, continuava a trionfare sui palcoscenici del periodo e influenzava profondamente anche la produzione nazionale, che dall’Aida verdiana (1871) fino alla Gioconda di Amilcare Ponchielli (1876) prediligeva scene storiche di grande spettacolarità.
Dall’Europa provenivano poi una serie di altre sollecitazioni che attraversavano il sistema teatrale consolidato e introducevano nuovi terreni di ascolto. All’immediato periodo postunitario si deve un primo sviluppo italiano della musica strumentale, sia orchestrale che cameristica, fino ad allora reso difficile dal dominio sul mercato dell’opera lirica. Le prime Società del quartetto nacquero nel corso degli anni Sessanta a Firenze, a Milano, a Torino; non erano solo gruppi di amatori e appassionati d’élite, ma attivi organizzatori che iniziarono a diffondere i concerti pubblici in quelle città, con ambizioni di popolarizzazione della musica stessa. Su imitazione di quanto stava avvenendo nelle maggiori capitali europee, fu inaugurata a Firenze nel 1863 una prima serie di concerti popolari, pomeridiani e a prezzi molto contenuti. L’esperienza avrebbe poi avuto seguito più solidamente a Torino nel decennio seguente, dove si sarebbero definiti i caratteri fondamentali della forma concerto per il pubblico italiano. In direzione di una popolarizzazione dell’arte musicale si muoveva anche il fenomeno delle Società orfeoniche, consessi dedicati alla diffusione del canto corale. Fu questo un tema di grande attualità già dal 1862, quando il Consiglio comunale di Milano, facendo riferimento ancora una volta alle pratiche francesi, belghe e prussiane, aveva aperto la prima Civica scuola popolare di musica e poi imposto l’insegnamento di canto corale nelle scuole elementari. Sarebbe stato solo il preludio di un’ampia diffusione lungo la penisola delle società, sia maschili che femminili, dedicate appunto a quella pratica.
Subito dopo l’Unità si profilarono sul terreno della musica e del teatro numerose novità rispetto al periodo precedente. Innanzitutto, lo sviluppo più chiaro e articolato nei suoi segmenti di un’«industria» dello spettacolo che tendeva a proporre nuovi generi, a costruire nuovi pubblici, a individuare nuove strategie d’azione. Ma anche la sperimentazione di pratiche culturali che avrebbero trovato pieno sviluppo nei decenni di fine secolo, sia sul piano dilettantistico – con una vera e propria esplosione delle società filarmoniche e filodrammatiche – sia su quello professionale e artistico, un mondo sempre più complesso e diversificato nel quale si imponeva ormai la presenza forte degli agenti, dei critici e delle riviste specializzate.
Eppure i sempre più numerosi periodici del settore esprimevano soprattutto inquietudine e preoccupazione per lo stato di salute della musica e del teatro italiano. E in effetti la produzione non stava vivendo un periodo particolarmente felice, con una scuola drammaturgica nazionale che stentava a decollare e una scuola lirica tutta monopolizzata dal genio verdiano. Il fuoco dell’interesse si spostava allora sulla politica, sulla capacità dello Stato di risollevare le sorti del settore. Dopo le iniziative pur modeste intraprese dalla commissione Ricasoli, il problema della promozione dell’arte musicale e teatrale nazionale tornò più volte al centro del dibattito pubblico, nel tentativo di individuarne le strade più efficaci. Alla definizione di una politica mirata e coerente parevano tuttavia opporsi da un lato le scarse disponibilità economiche del nuovo Stato, dall’altro divergenze piuttosto profonde tra gli addetti ai lavori sulle modalità e le strategie da adottare per l’«incorag;giamento», come si usava dire, del settore.
Controversie forti si crearono intorno all’idea lanciata nel 1868 dal ministro dell’Istruzione Emilio Broglio, il quale propose di organizzare forme di promozione dell’arte musicale nazionale attraverso una Società rossiniana che fosse espressione della società civile invece che dei poteri pubblici, un grande consesso di amatori e dilettanti dotati di comitati in varie città, che sottoscrivessero somme annuali a favore di un’attività di alto profilo artistico (Piazzoni 2001). Oltre a urtare la suscettibilità di qualcuno (in primo luogo di Verdi), la proposta aveva suscitato perplessità soprattutto per quanto riguardava l’eventuale estensione delle competenze della nuova società sui conservatori e sugli studi musicali in genere. Si temeva in sostanza che il governo volesse continuare sulla strada delle economie, sbarazzandosi di un’attività educativa sulla quale molto restava da fare.
La proposta dunque cadde abbastanza rapidamente, sotto il peso delle critiche e di una qualche approssimazione progettuale. Ad essa fecero seguito i lavori di due diverse commissioni (una per la musica e una per il dramma) promosse tra il 1871 e il 1872 dal ministro Cesare Correnti. Le date sono in questo caso significative, visto che corrispondevano al raggiungimento di Roma capitale, evento che aveva caricato di un nuovo peso simbolico l’idea di promuovere e sostenere un’arte «schiettamente italiana». Le due commissioni posero nuovamente sul tappeto le maggiori questioni che rimanevano aperte: per la musica soprattutto la necessità di un’efficace riorganizzazione dei conservatori che identificasse una scuola essenzialmente italiana; per il teatro di prosa l’opportunità di una compagnia stabile romana, dotata anche di una propria scuola di recitazione, che fungesse da punto di riferimento per autori e attori lungo tutta la penisola. Su quest’ultimo terreno la commissione Correnti propendeva dunque per la soluzione già vagheggiata da Gustavo Modena e da altre personalità del teatro fin dagli anni Quaranta: quella di una compagnia modello, in parte finanziata dallo Stato, che anche in Italia creasse una sorta di virtuoso volano a uno sviluppo delle arti sceniche non troppo condizionato dalle logiche del mercato.
In realtà, però, come si poteva desumere dal dibattito che si svolgeva nel frattempo sulle maggiori riviste culturali del periodo, le opinioni in materia erano molto contrastanti, sia nel merito che sulle strategie. Non del tutto condivisa rimaneva l’idea di una compagnia stabile di riferimento in un paese come l’Italia che vantava una pluralità di capitali culturali, e in cui il cosiddetto nomadismo delle compagnie aveva avuto anche effetti positivi, in primo luogo la creazione di un unico pubblico nazionale, quantomeno per il teatro lirico. La conformazione della geografia urbana e culturale della penisola rendeva pericolosa, sostenevano alcuni critici, la scelta di puntare su un unico luogo che divenisse cardine dell’intero sistema, dal momento che nessuna città italiana poteva contare, come accadeva invece a Parigi, su un bacino potenziale di pubblico sufficientemente ampio e dinamico per sostenere un’operazione di quel tipo.
Intorno a questi stessi contrasti, che riflettevano peraltro uno dei temi chiave dell’intero processo di unificazione (promozione centralistica o valorizzazione a partire dalla ricchezza delle località), si giocò nel corso degli anni Settanta anche la questione, di rilevanza soprattutto mediatica, della creazione di un teatro nazionale, parola d’ordine che portava con sé almeno due tipologie di problema: da un lato quello più generale del nazionalismo culturale nelle sue declinazioni musicali e drammatiche; dall’altro quello specifico della creazione nella nuova capitale di una grande sala teatrale di rilevanza nazionale.
Anche qui i pareri che circolavano nel dibattito pubblico erano diversi, quando non opposti. Si trattava di combattere lo «stranierismo» difendendo la tradizione musicale nazionale dal pericolo di una de-italianizzazione delle arti, come scrivevano in molti, o piuttosto di evitare – come sostenevano altri – l’isolamento culturale che una sorta di protezionismo musicale poteva produrre? Sono questi gli anni in cui il tema della nazionalità in musica percorre tutti i paesi europei e in Italia si concentra da un lato contro la presenza sempre più consistente dell’opera francese e dall’altro contro l’impatto dell’opera di Wagner, che aveva trovato nel teatro comunale di Bologna la propria principale sede di adozione a partire dal 1871. Si trattava di contrasti che finivano per coinvolgere contemporaneamente aspetti politici, artistici e commerciali, con gli editori musicali in prima linea a sostenere l’una o l’altra posizione.
Al delicato e controverso intreccio di interessi privati e pubblici si deve anche lo scarso esito di alcune specifiche proposte di riorganizzazione produttiva del teatro in prosa emerse nel corso degli anni Settanta: così il progetto di Righetti, direttore del teatro milanese e autore di un pamphlet intitolato Facciamo un teatro Nazionale, che proponeva la costituzione di due compagnie stabili, una a Roma e una a Milano, congiuntamente rivolte a un ripensamento complessivo del repertorio; o quella che giunse nel 1875 al ministero dell’Istruzione prospettando una soluzione basata su quattro compagnie (a Firenze e Torino oltre che Milano e Roma), che fossero comunque coordinate e sussidiate a livello centrale (Piazzoni 2001). Tali proposte provenivano dal mondo stesso del teatro e presupponevano un sostanziale accordo sulla protezione statale alle arti, tema che restava invece alquanto controverso, nel mondo politico come in parte della critica. Un analogo insuccesso, frutto insieme di difficoltà economiche e di divergenze strategiche, incontrò anche il progetto di costituire a Roma un grande teatro d’opera nazionale, che finì per rimanere un’iniziativa privata dell’imprenditore Domenico Costanzi, il quale nel 1880 inaugurò con la Semiramide di Rossini la grande sala che portava il suo nome.
Sul tema della promozione pubblica alle arti sceniche il dibattito politico sarebbe continuato a lungo sui medesimi binari, riproponendo periodicamente la consueta divisione tra i fautori di un potenziamento del ruolo dello Stato come sostenitore di una cultura veramente nazionale e chi invece temeva gli effetti di tale tutela, e indicava piuttosto la via del mercato e della libera iniziativa. Ma, al di là di tale impasse, il settore era tutt’altro che immobile, e anzi manifestava un indubbio dinamismo che all’inizio degli anni Ottanta raggiunse esiti importanti, sia sul piano dell’organizzazione produttiva che sul fronte normativo e istituzionale.
In primo luogo, l’idea delle compagnie stabili iniziò a concretizzarsi a livello locale, attraverso forme di accordo tra i municipi e i privati che portarono alla costituzione nel 1877 della Compagnia drammatica della città di Torino. Negli anni seguenti esperienze analoghe si avviarono a Roma, a Napoli e a Milano. In secondo luogo, giunsero a compimento alcuni cambiamenti sul terreno istituzionale che dovevano meglio definire il profilo del quadro successivo. Del 1882 è il nuovo Testo unico sul diritto d’autore, la cui ridefinizione era stata promossa proprio da un gruppo di deputati che erano anche scrittori per il teatro. Il testo metteva ordine nella normativa esistente e accordava una maggiore tutela agli autori di opere destinate alla rappresentazione. Nello stesso anno venne creata, dopo una lunga gestazione e un grave ritardo rispetto alla situazione francese, inglese e tedesca, la Società italiana degli autori (Sia poi Siae), che doveva vigilare sull’effettivo rispetto della normativa, ma anche divenire portavoce della produzione intellettuale della nazione.
Infine una svolta importante, nel medesimo anno, si ebbe quando il ministro della Pubblica istruzione Guido Baccelli creò la prima Giunta permanente per l’arte drammatica e musicale, che doveva metter fine al sistema delle commissioni temporanee invalso fino a quel momento e riconoscere uno spazio istituzionale permanente di riflessione e di proposta sui temi chiave della vita musicale e teatrale della nazione. Della Giunta fecero parte personaggi autorevoli e molto attivi nel dibattito dell’epoca: scrittori per il teatro come Cavallotti e Giacosa, compositori come Ponchielli e Boito, critici come D’Arcais e Filippo Filippi. Era il meglio del teatro italiano che veniva chiamato a collaborare a una fase più matura della politica culturale del nuovo Stato. La transizione postunitaria poteva dirsi a quel punto conclusa, con la definizione di un quadro normativo e di attori istituzionali che avrebbero giocato un ruolo decisivo nelle scelte degli anni successivi.
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