Articolo del Prof. Ignazio LA Bua
“ Sparta deve essere un modello per la Germania, perché stermina i suoi figli più deboli. In questo modo rinasce la forza.”
A. Hitler (Discorso pubblico a Norimberga,1929)
“Questo è l’unico popolo della Grecia antica, che sistematicamente abbia praticato questo spietato eugenismo. Di tutte le città della Grecia, Sparta è anche l’unica a non aver lasciato all’umanità né un poeta, né uno scienziato e nemmeno i resti di qualche monumento. Forse gli Spartani, senza saperlo, eliminando i loro neonati imperfetti o troppo fragili, hanno ucciso i loro musici, i loro artisti e i loro filosofi”.
P. Lejeune, genetista (Appunti)
Ripercorrere la storia e l’influenza che il mito di Sparta ebbe in venticinque secoli di civiltà occidentale è impresa titanica e lontana dagli obiettivi di questo breve elaborato. Si cercherà, piuttosto, di tratteggiare un breve excursus storico che ci permetta di giungere a delineare con chiarezza come la leggenda, e la degenerazione, del mito di Sparta, siano diventati un tema ricorrente in tanta storiografia e letteratura dell’8/900
La leggenda di Sparta incominciò a cristallizzarsi, già a partire dal V° secolo a.C., nella stessa capitale lacedemone, intorno all’ideale rappresentato da Leonida. Egli, infatti, divenne, fin dalla sua morte, l’archetipo del guerriero spartano che dedica la propria vita allo Stato, immolandosi piuttosto che cedere al disonore e alla disubbidienza delle leggi patrie. Il mito dei Trecento delle Termopili, e del loro nobile re, riuscì a rimanere intatto, e addirittura ingigantirsi, anche quando dell’antica polis non rimaneva che un vago ricordo. Ciò avvenne, paradossalmente, grazie a storici, filosofi e letterati, che non solo mai avevano vissuto sotto le leggi di Licurgo ma che addirittura erano figli della grande antagonista di Sparta, Atene[2]. Anche l’altro grande ateniese, Platone, non rimase insensibile al fascino di Sparta. La lettura del dialogo Repubblica proietta il lettore in una società utopica che sembra ricalcata sul modello licurgheo[4]. Benché mai citata, la somiglianza con il cosmos lacedemone appare impressionante, sebbene, a onor del vero, Platone non lesini critiche al modello spartano, specie nel merito del sacrificio della filosofia, e del sapere in generale, all’uso delle armi.
La schiera degli autori antichi che si confrontarono con il mito di Sparta è lunga e attraversa tutti i secoli della classicità. Aristotele, seppur feroce e sprezzante critico della società spartana, non poté esimersi dal riconoscere la stabilità e la permanenza delle istituzioni politiche. Filarco, ateniese, nel III a.C. scrisse le lodi dei re spartani Agide IV e Cleomene III, esaltandone l’originaria fedeltà alla rhetra licurghea[6], ci ha consegnato la più esaltata descrizione del modello educativo, politico e militare lacedemone.
Le antiche gesta dei padroni della Laconia giunsero, trasfigurate dalla leggenda, fino a Roma. Plutarco, greco d’origine, ma romano d’adozione, ancora nel I° secolo d.C. scrisse un’opera come Le virtù di Sparta, florilegio di aneddoti sugli usi e costumi dei Lacedemoni. Si tratta di una messe enorme di dati, purtroppo viziati e stravolti sia dal filo-laconismo dell’autore sia da cinque secoli di leggende stratificatesi. Romani eccellenti come Marco Bruto e Catone il vecchio, guardarono, attraverso il filtro dello Stoicismo romano, ad una Sparta modello di sobrietà e morigeratezza di costumi[8], garanzia di virtù e immutabilità.
Il Medioevo ereditò il mito di Sparta attraverso il tema della città modello di perfetto equilibrio tra istituzioni e stabilità politica. Giganti della Scolastica come Alberto Magno e Tommaso D’Aquino, nei loro commentari alle istituzioni politiche degli antichi, elogiarono il modello lacedemone. San Tommaso, in particolar modo, nella sua Summa Theologiae, definì quella spartana come la miglior forma di stato possibile per l’antica Grecia[10]. Questi uomini di lettere e moralisti, nel mito di Sparta cercarono, principalmente, l’estrema sobrietà e il rispetto verso un cosmos di valori perduti. Ma il Rinascimento tornò a dar vita anche alle antiche gesta dell’esercito lacedemone; così accadde, per esempio, in Macchiavelli. Nel Principe e nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, il fiorentino sottolineò la fortuna di una città come Sparta, privilegiata dalle leggi giuste e durature di Licurgo e da una milizia cittadina austera e patriottica. Anche Guicciardini non dimenticò di far riferimento a Sparta, lodandone,anch’egli, la divisione dei poteri e la solidità delle magistrature[12]. Sebbene questo modello interpretativo andasse per la maggiore, non mancò chi come il filosofo Adam Ferguson nel suo Essay on the History of Civil Society del 1767, pur mostrando repulsione per la schiavitù, base economica di Sparta, esaltò i Lacedemoni per il loro collettivismo autarchico, il ribrezzo per il commercio e l’aspirazione ad una giustizia e libertà egualitarie. Il pensatore inglese,infatti, in aperta polemica con la società liberale dei suoi tempi, si lasciò andare ad un malcelato disprezzo dell’Atene mercantile, generatrice, a suo dire, di ingiustizie e di perdita di virtù civili [14]; una società non avvilita dal denaro e dal commercio, e retta dalla pubblica virtù dei suoi integerrimi cittadini. Ma Rousseau non era il solo a lasciarsi andare a queste acritiche lodi. Nella sua Encyclopédie, D’Alembert, alla voce “Législateur” esternò tutta la sua ammirazione per “l’esprit de proprieté” e “de communautè”[16].
A onor del vero i detrattori non furono meno numerosi. Turgot, ad esempio, nel suo Tableaux philosophique des progrès successifs de l’esprit humaine non si risparmiò di certo nel citare Sparta sia come esempio mostruoso di tirannide dello Stato sul cittadino, sia come nefando modello di collettivismo forzato[18]. Per completezza, all’elenco potremmo aggiungere Constant, teorico della ricchezza individuale come sinonimo di libertà, per il quale niente era più lontano dal concetto di felicità pubblica quanto la società spartana. Nella sua celebre conferenza dal titolo De la liberté des anciens comparée a celle des modernes, tenuta e poi edita nel 1819, ma frutto di un lavoro fortemente influenzato dall’esperienza rivoluzionaria, Sparta assurse, infatti a modello negativo di tutti i sistemi politici oppressivi e tirannici, presenti e passati.[20]
Il mito di Licurgo e del mondo da lui ideato, tornò nuovamente in auge durante gli anni della Rivoluzione francese. In verità fu una breve parentesi, che durò giusto la stagione del Terrore, quando dagli scranni dell’Assemblea Legislativa, i radicali giacobini infiammavano l’aula con l’esaltato richiamo alle virtù dell’antica polis lacedemone. In realtà nella Francia dell’89, Sparta non aveva trovato grande ospitalità. L’ampio dibattito che aveva connotato i giorni di furore della Rivoluzione francese, aveva sì come epicentro il recupero delle virtù delle antiche repubbliche, ma il riferimento era alla democratica e liberale Atene o alla Roma repubblicana. Sparta, invece, era considerata un mito “nero”, e la sua leggenda un esempio di folle militarismo misto a intollerabile schiavismo. Fu questo il pensiero di sinceri rivoluzionari come Desmoulein o Brissot, quest’ultimo, in particolar modo, attaccando le velleità licurghee di Robespierre scrisse sarcasticamente: “ Licurgo ha reso i suoi cittadini uguali come la tempesta rende uguali i naufraghi.”[22] .
I Giacobini tennero in scarse considerazioni queste tristi verità; agli occhi di Robesperre la polis lacedemone era, infatti, stata, come “un lampo nelle tenebre immense”, un modello, sebbene non il solo, di virtù civili, di moralità, di zelo patriottico e intransigenza. “L’arcangelo della Rivoluzione”, il giovane e sanguinario Saint-Just, fedele discepolo di Robespierre, nel 1794, in pieno Terrore, nel suo Fragments sur les institutions républicaines[24].
Il Termidoro fece piazza pulita dei sogni, o meglio degli incubi, giacobini, rimuovendo da qualunque dibattito letterario o storiografico ogni riferimento al mito di Sparta, considerato, oramai, indissolubilmente legato agli spettri del Terrore giacobino.
Ma la leggenda di Licurgo, di Leonida e della loro città, con tutto il corollario mitico da essi rappresentato, era ormai diventata uno di quei patrimoni metastorici sui quali poggiano le civiltà, in questo caso quella occidentale. Scomparso dalla Francia giacobina, il mito di Sparta riapparve, infatti, ancora più potente e soprattutto rivestito di nuovi inquietanti significati, nella Germania Otto-Novecentesca.
La cultura tedesca che si riappropriò del mito di Sparta non fu assolutamente quella del Classicismo, dello Sturm und Drung, del Romanticismo o della Filosofia hegeliana, che anzi ignorarono quasi i Lacedemoni identificando, la “grecità” con l’Atene di Pericle, ma fu, invece, specie in età bismarkiana e guglielmina , quella di una vasta storiografia e pubblicistica storicistico-conservatrice, di stampo prussiano, non immune da derive razziste e reazionarie. In questo brodo di coltura nazionalista, il rinato culto di Sparta covava i germi di quel pericoloso darwinismo sociale che presto sarebbe degenerato nella barbarie nazista.
Cuore della rilettura del mito di Sparta, tornò ad essere il sacrificio di Leonida alle Termopili, gesto magnificato come archetipo di ogni eroismo patriottico. Ma andiamo con ordine. Nel 1844 Karl Ottfried Müller, nel suo Der Dorsiche Normalstaat, fu il primo rappresentante di quella tradizione tedesca che nel tentativo filologico di rintracciare l’essenza del passato ellenico, guardò alla stirpe dorica come alla più autentica fra tutti i Greci. Fra costoro, solo Sparta, infatti, poteva assurgere ad archetipo per poter realmente ricostruire le istituzioni e i costumi del più antico e originale spirito greco. La polis lacedemone, con la sua subordinazione dell’individuo allo Stato, diventava un modello a cui guardare, così come Leonida e i suoi trecento rappresentavano il simbolo dell’obbedienza alle leggi della patria[26]. Ma la lista dei moderni cultori dei Trecento è lunga. Sostenitore dell’alto valore morale della resistenza spartiata fu, ad esempio, anche Leopold von Ranke col suo Weltegeschichte del 1883. Robert von Pöhlmann, invece, autore di una Storia greca, parlando di Leonida scrisse; “La splendida morte dei combattenti delle Termopili rafforzò, senza dubbio, l’indebolita fiducia dei Greci, e non fu, così, inutile per la causa nazionale”[28]. Niebuhr, invece, nell’opeara Lectures on Ancient History, lamentò il fatto che le generazioni successive avevano elogiato Leonida e i suoi, dimenticando colpevolmente gli iloti e i settecento Tespiesi, caduti eroicamente a fianco dei Lacedemoni. Ma il più aspro e iconoclasta fu sicuramente l’anticonformista Beloch, vera e propria bestia nera dell’establishment culturale tedesco, il quale nel Die Legende von Leonidas scrisse: “La catastrofe delle Termopili ebbe un solo vantaggio per la causa greca: liberò l’armata federale da un comandante incompetente.”[30].
Ma al giro di boa del nuovo secolo, il mito di Sparta incominciò ad assumere quei connotati razziali e razzisti che nel volgere di pochi anni avrebbero portato il nazismo al potere. Houston Stewart Chamberlain, col suo Grundlagen des XIX Jaharhunderts, del 1900, fu l’antesignano di questa nuova e degenere rilettura dell’antica polis. Genero di Wagner e padre della destra protonazista, Chamberlain attribuì ai Dori e quindi agli Spartani tutti i tratti nordici e ariani presenti nelle sub-culture pangermaniche dell’epoca. Scrisse esaltando l’amore per la libertà dei Lacedemoni, la loro bellezza fisica, la disciplina militare, il loro ascetismo sessuale, per non parlare dell’eugenetica. Negli Spartani vedeva il primo esempio-modello di Stato aristocratico e di casta, dove una élite di guerrieri era chiamata e governare su di mondo di schiavi[32].
In questo contesto Sparta divenne uno dei più popolari modelli dell’antichità classica e non solo fra gli storici di professione. Il movimento degli Espressionisti, ad esempio, si riferì spesso ai Lacedemoni, trasformandoli in un ambiguo ideale misto di omosessualità, primitivismo ed élitismo antifemminista. Tornando al mondo accademico, gli Spartani, furono, quindi, un modello per un’intera generazione di docenti passati attraverso la devastante esperienza della guerra. Costoro, come si accennava, non riuscirono, al pari di gran parte della società tedesca,[34] , riadattamento dell’originale “Straniero, annuncia agli Spartani che qui giacciamo, obbedienti alle loro leggi”.
Nel 1924 lo storico Ulrich Wincken, nella suo saggio sulla Storia greca, seguendo il leit-motiv della vittoria morale di Leonida scriveva: “Leonida e i suoi Trecento, rimarranno, per sempre un esempio e un oggetto di adorazione per i nostri giovani”. La frase tornerà anche nelle edizioni successive del 1951, ’57, ’62 e ’73, provocando l’aperta protesta degli studenti dell’Università di Leiden che chiesero l’abolizione del testo dalle loro bibliografie. Proseguendo, nel 1929, H. Günther nel suo saggio Rassengeschichte des Hellenischen und des Romischen Volks, tornava a rileggere Sparta in chiave razziale, sostenendo come i Lacedemoni avessero tutte le caratteristiche dei popoli “nordici” e che la decadenza della città fosse dovuta proprio al lento mescolarsi razziale dei suoi originari fondatori. Questi accenti razziali si fecero sempre più presenti nella storiografia accademica, man mano che il nazionalsocialismo prendeva il sopravvento sulla società tedesca. Principali esponenti di questa fase storica furono Victor Ehrenberg , il quale paradossalmente, pur essendo di religione ebraica, nel 1929 a proposito degli Spartani andava sottolineando la “grandezza di questa razza,… la purezza …il servizio al Nomos come incarnazione dello Stato e del senso religioso”[36].
Come si è accennato, Berve non fu l’unico accademico a contribuire all’ideologia nazista. Molti suoi colleghi enfatizzarono il binomio tra grecità e arianesimo nordico, facendosi, ignobilmente, promotori di un’educazione alla classicità fedele alla Weltanschauung hitleriana. Tra costoro, Otto-Wilhelm Vacano autore, nel 1940, di un testo su Sparta il cui titolo dice tutto: “Der Lebenskampf einer nordischen Herrenschicht ” (“Lotta per l’esistenza di un ceto di signori nordici”); Walter Eberhard che scrisse “Die Antike un Wir”, un’opera sul parallelismo tra i sissizi lacedemoni e i sodalizi tra i membri delle SS e della Hitlerjugend. Franz Milter, rivale di Berve, autore, nel 1943, del saggio “ Sparta, Vorbit un Mahnung” (“Sparta come modello e monito”), così magnificava l’eroismo di Leonida: “ Il nome stesso di Sparta fa affiorare vividi alla nostra coscienza i guerrieri che lottarono e caddero stretti intorno a Leonida, e che restarono irremovibili al loro posto di combattimento anche quando accerchiati dai nemici soverchianti, esso era indifendibile ” [38] .
Il Nazismo, in realtà, culturalmente, attinse poco dalla saggistica accademica. Il noto disprezzo di Hitler per i professori e l’accademismo, relegarono le riletture arianeggianti di Sparta nelle aule universitarie. Ciò non significa, tuttavia, che il mito dei Lacedemoni non fosse presente nella sub-cultura hitleriana, anzi, mai come nel decennio di tirannide nazista, Sparta e soprattutto i tratti leggendari che la caratterizzarono, furono citati a modello per i più svariati e spesso aberranti esperimenti sociali.
Nel Mein Kampf, sconclusionato manifesto hitleriano sul futuro stato nazionalsocialista, Sparta, sebbene mai citata espressamente, è presente quasi in ogni pagina. Non vi è pensiero o considerazione di Hitler che non abbia a modello una rilettura esasperatamente razzista e militarista dell’antica polis lacedemone. I passaggi dedicati all’educazione nazionale, ad esempio, sembrano ricalcare fedelmente le pagine che Plutarco e Senofonte dedicarono all’agogé spartana: “Se accettiamo come primo compito dello Stato, per giovare al popolo, il mantenimento delle migliori caratteristiche della razza; è evidente che i provvedimenti statali debbono ampliarsi fin dalla nascita del piccolo figlio della nazione, e che lo Stato debba educare il fanciullo per farne un altro elemento di una continua propagazione della razza”[40] L’ammirazione del dittatore per Sparta, trovò esternazioni ancor più esplicite in una serie di opere a carattere divulgativo, uscite negli anni’40, aventi per oggetto conversazioni private o interviste concesse da Hitler ai suoi fedelissimi. Il più corposo di questi lavori è sicuramente, “Bormann-Vermeke”, sorta di enciclopedico tentativo del gerarca Bormann di ordinare il florilegio di esternazioni del Führer. Si tratta di un’opera contenente la “visione” del mondo secondo Hitler, e dove il modello-Sparta ritorna più volte a sottolineare l’ammirazione tedesca per il “miracolo” lacedemone. Di questo modello Hitler ammirava, soprattutto la capacità con cui una piccola minoranza di Spartiati era riuscita a dominare una massa sterminata di schiavi, “A Sparta seimila Greci dominarono trecentoquarantamila iloti. Giunsero da conquistatori e s’impadronirono di tutto”[42]. La storia dell’antica città greca, veniva quindi riletta come un’ideale società autarchico-agreste, governata da un’aristocrazia di guerrieri ariani. Questa visione laconizzante pervase gran parte delle manifestazioni esteriori del regime. Arte, architettura, cinematografia, cancellarono ogni aspetto creativo, abdicando al diktat hitleriano di austerità e funerea marzialità. Le arti figurative vennero piegate entro una cornice ideologica che le svuotò di ogni autonomia; vennero abolite tutte le correnti contemporanee, prime fra tutti l’Espressionismo e il Bauhaus, istituendo un’orribile arte di regime dai tratti realistico-mitologici. Pittori come Ferdinand Avenarius o Karl Höppner, quest’ultimo all’epoca celebre artista di regime[44], trasformando Berlino e le principali città tedesche in un immenso, gelido e simmetrico monumento alla doricità. Neppure la cinematografia rimase immune dall’asservimento, divenendo l’arma propagandistica più potente del regime. Emblematica, a tal proposito, la figura della regista Leni Riefenstahl, autrice di Olympia, film-documentario sulle Olimpiadi di Berlino del 1936. Si tratta di un documento fondamentale per comprendere il gusto laconizzante del nuovo regime, dove in un tripudio di corpi femminili e maschili nudi e dai chiari tratti nordici, la Riefenstahl, ricostruì la storia delle Olimpiadi riproponendo il mito della superiorità fisica e razziale della razza ariana.[46]. Ecco cosa proclamava Himmler, con chiari rimandi alla tradizione spartana, nel manifesto programmatico del Lebensborn: “Al di là delle leggi e dei costumi borghesi, per quanto necessari, può costituire un nobile dovere per le donne e per le ragazze dal sangue puro avere, anche fuori dal matrimonio, ma non frivolamente, anzi con piena serietà morale, figli da soldati che vanno in battaglia.” [48].
Quando il regime hitleriano cominciò a crollare sotto i colpi di un mondo che si ribellava alla barbarie, il rimando a Sparta fu l’estremo, improprio, appello che i vertici nazisti seppero trovare per cercare un’ultima quando “nobile” paternità ai loro crimini. Nei giorni della disfatta di Stalingrado il Reichsmarschall Göring appellandosi all’eroismo di Leonida, così rilesse il celebre epitaffio delle Termopili: ”Se vai in Germania, di loro che ci hai visto combattere a Stalingrado, obbedendo alla legge dell’onore e della guerra.”[50].
Con la fine della Seconda guerra mondiale il mito di Sparta e le sue degenerazioni, sparirono dalla coscienza degli intellettuali tedeschi ed europei, segno di un rigetto, specie nei paesi di lingua tedesca, per una abusata e deturpata educazione classica, a lungo imposta. Nelle università e nei manuali di Storia, le Termopili e Leonida divennero un argomento, tranne rarissime eccezioni, secondario del dibattito storiografico, demitizzato e, dopo tanti abusi, finalmente ricondotto nel corretto alveo della verità storica.
[2] Ibidem.
[4] Platone, op. cit., libri III-IV-V-VI-VII.
[6] Senofonte, Le tavole di Licurgo, Sellerio, Palermo, 1985.
[8] Ibidem.
[10] J. Christien, Sparta, l’altra Grecia. Storia dossier, n°50, Giunti, giugno 1989.
[12] Chryssanthi Avlami, Libertà liberale contro libertà antica, Francia e Inghilterra 1752-1856, in: AAVV., I Greci, storia, arte,cultura, società, vol. IV, pag.1315, Einaudi, Torino1996.
[14] E.Rawson, op.cit., pag. 236.
[16] C. Avlami, op.cit., pag. 1327.
[18] C. Avlami, op.cit., pag. 1323.
[20] E.Rawson, op.cit., pag. 259.
[22] Idem.
[24] Idem.
[26] S.Rebenich, op.cit., pag. 326.
[28] S.Rebenich, op.cit., pag. 327.
[30] Idem.
[32] S. Rebenich, op.cit., pag. 328.
[34] S. Rebenich, op.cit., pag.328.
[36] Ibidem, pag. 330.
[38] G. Benn, Saggi, pag.138, Garzanti, Milano 1963.
[40] Ibidem, pag. 40.
[42] W. L. Shirer, Storia del Terzo Reich, pag.401, Einaudi, Torino, 1962.
[44] B. Zevi, Storia dell’architettura moderna, pag. 157, Ed. Di Comunità, Torino 2001.
[46] M. Burleigh, Wolgang Wippermann, Lo Stato razziale. Germania 1933-1945, pag.71, Rizzoli, Milano 1992.
[48] M. Burleigh, W. Wippermann, op.cit., pag. 136-142.
[50] Pierre Bayle, op.cit., pag. 11.
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