Alla sera: introduzione
Il sole declina, le ombre si allungano, la luce è inghiottita dalle tenebre; le anime inquietecontemplano questo spettacolo e la notte, materna, le accoglie. «Sto aspettando che scenda la notte, quando ogni cosa è sopportabile, e lì nella pace, tutto quel che puoi sentire è la tranquillità», canta la voce cupa del leader dei Depeche Mode, Dave Gahan, appoggiandosi a un ostinato, ma dolce, basso elettronico, nella canzone Waiting for the night, «aspettando la notte». Le tematiche notturne sono molto care alla musica dark, ma passando ad altri esempi musicali più vicini a Foscolo, si potrebbe citare il secondo tempo della Sinfonia n. 7 di Beethoven, l’Allegretto, con le sue sonorità dolenti e il ritmo intenso. Dopotutto la notte è uno scenario ideale per le riflessioni esistenziali e l’uomo vi ha sempre trovato forse un riflesso del proprio essere. La notte tradisce il desiderio di essere nuovamente accolti dalle braccia materne, di dormire e sognare, di tranquillizzarsi, di credere e sperare in un nuovo giorno. Ma la notte è anche figura della morte, annullamento e oblio delle sofferenze.
Foscolo, quasi il principe degli inquieti, amava particolarmente non solo la notte ma anche il passaggio attraverso il crepuscolo, attraverso la sera, che gli dava la tranquillità, la stessa descritta nella canzone dei Depeche Mode, e a ben vedere usa parole molto simili: «E mentre io guardo la tua pace, dorme / Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge» (vv. 13-14). La notte gli ricorda la morte, la quiete finale della non-esistenza, il buio senza fine di chi ha chiuso per sempre gli occhi. «I giorni possono tramontare e risorgere; / noi, non appena tramonta la breve luce, / dobbiamo dormire una notte senza fine»: questi sono versi di Catullo (84-54 a.C.), che Foscolo ammirava molto, e contengono la sempiterna metafora della notte-morte, contenuta anche nel sonetto Alla sera; è la quiete fatale, come dice il poeta, poiché stabilita in sorte dal Fato a tutto il genere umano. Per l’anima segretamente tormentata, logorata dalle sue passioni, la morte tuttavia può essere l’agognato porto in cui arrivare dopo la traversata nel tempestoso mare della vita: questa è l’altra metafora che anima il sonetto foscoliano, e anch’essa è molto presente in poesia.
La notte, intesa come tale, fuori dalla metafora della morte, è un momento di quiete; è una morte momentanea, una sospensione della vita e del suo travaglio. Dal crepuscolo alla notte: «Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno / toglieva li animai che sono in terra / da le fatiche loro…», scrive Dante nel II cantodell’ Inferno, a sua volta usando un luogo virgiliano, nell’ Eneide: «Nox erat, et terris animalia somnus habebat» (Aen. III, v. 147), «Era notte e in terra il sonno avvolgeva i viventi». I poeti amano parlare di questo passaggio dal crepuscolo alla notte, non resistendo al suo fascino. Ad esempio, ecco nel Novecento una poesia fulminantedi uno dei nostri premi Nobel per la letteratura: «Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di Sole: / ed è subito sera» (Salvatore Quasimodo, Ed è subito sera).
Nel sonetto di Foscolo, la sera ha i segni che conducono all’immagine del Nulla eterno. Il sole che declina ricorda che un altro giorno è trascorso: «e intanto fugge / Questo reo tempo», ci dice Foscolo; e ricorda a sé stesso e a noi la lezione del poeta Orazio: «Dum loquimur fugerit invida / aetas», (Odi, I, 11, vv. 7-8): «mentre parliamo, sarà fuggito il tempo malvagio». Il Nulla: quel continuo avvolgersi del tempo su sé stesso, che tutto trasforma, che distrugge e ricrea meccanicamente, che conduce ogni cosa all’oblio. E il pensiero vaga verso quel nulla, distendendosi nell’oscurità, e abbraccia le stelle, e le nubi cupe che portano la tempesta, o gli zefiri sereni dell’estate. Si creano sogni e fantasmi. La sera si trasforma nella notte e, di notte, si chiudono gli occhi, senza la certezza di riaprirli l’indomani.
2Testo e parafrasi
Testo
Forse perché della fatal quïete
Tu sei l’immago, a me sí cara vieni,
O Sera! E quando ti corteggian liete
Le nubi estive e i zeffiri sereni, 4
E quando dal nevoso aere inquïete
Tenebre e lunghe all’universo meni,
Sempre scendi invocata, e le secrete
Vie del mio cor soavemente tieni. 8
Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
Che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
Questo reo tempo, e van con lui le torme 11
Delle cure onde meco egli si strugge;
E mentre io guardo la tua pace, dorme
Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge. 14
Parafrasi
voluta dal fato, a me giungi così gradita,
Sera! Sia quando le nubi estive e gli zefiri
sereni ti accarezzano con dolcezza,sia quando nel cielo nevoso rechi
con te all’universo tenebre lunghe e inquiete,
sempre scendi invocata, e le vie nascoste
del mio cuore governi soavemente.Mi fa vagare di pensiero in pensiero sulle orme
che conducono al nulla eterno; e intanto fugge
questo tempo malvagio, e con lui se ne vannotutte le ansie, nelle quali esso si distrugge con me;
e mentre contemplo la tua pace, si placa
quello spirito guerriero che in me ruggisce.
3Analisi retorico-stilistica
Rispetto al sonetto «A Zacinto», «Alla sera» è un sonetto più calmo e posato, che risponde all’esigenza del poeta di profonda meditazione. L’incipit è quasi silenzioso e vago con quel «Forse» che ben esprime il dubbio tipico delle meditazioni. Subito l’anastrofe ai vv. 1-2: «Forse perché della fatal quïete / Tu sei l’immago a me sí cara vieni, / O Sera!». «O Sera!» è un’apostrofe, collocata al terzo verso, come pure nei sonetti «A Zacinto» e «In morte del fratello Giovanni»; l’apostrofe indica che il poeta si rivolge direttamente alla sera, personificandola. A dare il senso di quiete notturna abbiamo le anafore ai vv. 3 e 5: «e quando… e quando»; gli enjambements ai vv. 5-6, «inquïete / tenebre», ai vv. 7-8, «secrete / vie», ai vv. 10-11, «fugge / questo reo tempo», ai vv. 13-14, «dorme / quello spirto guerrier», conferiscono al sonetto un’andatura nobile e inquieta.
Certamente le prime due quartine incedono più placidamente rispetto alle terzine, che sono più incalzanti in quanto presentano il tema del tempo che fugge. Fondamentale è la metafora «fatal quïete» (v. 1), che sta a significare la morte, appunto quiete voluta dal fato, destino di tutti gli uomini. La costruzione delle due quartine vede posposto il verbo principale al v. 7 per enfatizzare le due immagini della sera (quella estiva-primaverile e quella autunnale-invernale) per far sì che precedano con la loro bellezza la seguente riflessione poetico-filosofica presente nelle due terzine. Inoltre la sera viene prima goduta nella sua bellezza cangiante e mutevole, e poi considerata scaturigine di riflessione. Al v. 4 abbiamo il parallelismo «nubi estive… zeffiri sereni» (ossia: soggetto + attributo / soggetto + attributo). Ai vv. 5-6 «inquïete / Tenebre e lunghe», oltre a presentare un enjambement, come già detto, è anche un iperbato poiché l’ordine lineare sarebbe dovuto essere «inquiete e lunghe tenebre».
«… e le secrete / Vie del mio cor soavemente tieni» (vv. 7-8) è una metafora che Foscolo riprende probabilmente da Dante: «Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo, e che le volsi, / serrando e diserrando, sì soavi / che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi» (Inf. XIII, vv. 58-61); si nota, infatti, la presenza del verbo «tenere» (tenni; tieni), il sostantivo «cor», l’aggettivo in funzione avverbiale «soavi» in Dante, avverbio vero e proprio, «soavemente», in Foscolo, oltre che la parola «secreto»/«secrete», presente in entrambi i passi. Pier delle Vigne, protagonista del passo dantesco, fu consigliere dell’imperatore Federico II di Svevia forse Foscolo intende alludere che la sera è la sua più fidata e intima consigliera? In effetti essa è il momento delle meditazioni più profonde e intime. Ai vv. 9-10 i pensieri seguono metaforicamente le orme (le tracce, quindi) che portano al nulla eterno, come se fossero segugi. Importante la deissi «questo reo tempo», in cui il poeta sembra rendere tangibile il passaggio non solo delle epoche, ma anche della sua vita, oggettivando l’idea filosofica.
Elegante e terribile al tempo stesso è l’immagine «torme / Delle cure», il cumulo di tutti i tormenti e delle sofferenze degli uomini, comprese quelle del poeta, che si dissolvono insieme al tempo. C’è poi, nel passo conclusivo, l’antitesi ai vv. 13-14: «E mentre io guardo la tua pace, dorme / Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge», che combinano insieme una sorta di doppio chiasmo: «io guardo» / «dorme quello spirto» (soggetto + verbo / verbo + soggetto), ulteriormente combinato con l’opposizione «dorme» / «rugge» nel finale dei vv. 13 e 14. Da un punto di vista fonico, troviamo ai vv. 14, 7, 2, 6 e 9-10 un’allitterazione della /r/ («spiRto, gueRRieR, entRo, Rugge»); della /s/ «Sempre, Scendi, Secrete»; delle nasali /m/ e /n/ «iMMago, Me, vieNi»; «teNebre e luNghe all’uNiverso MeNi»; «orMe / che vaNNo al Nulla eterNo e iNtaNto». Interessante è l’utilizzo vocalico, che alterna suoni lievi e dolci nelle quartine (vocali “i” ed “e”, ad esempio in “quiete; vieni, liete…”) e suoni più cupi nelle terzine.
4Commento
Questo sonetto fu pubblicato nell’aprile del 1803 e composto con ogni probabilità nei sei mesi che lo precedono, poiché non compare nell’edizione delle poesie del 1802. Per Foscolo è un periodo pieno di angoscia e di amarezza, di gravi impegni militari e di disillusioni amorose, che lo rendono desideroso di equilibrio e di pace: è necessaria la quiete per poter meditare, riflettere, scrivere. La sera doveva essere davvero uno di quei momenti eletti in cui fermare i pensieri e penetrare il mistero dell’esistenza attraverso gli occhi disincantati di un ateo materialista. Alla sera è una sorta di itinerarium mentis ad nihil, ossia un «viaggio dell’intelletto verso il nulla», viaggio intellettuale non diverso da quello di un poeta posteriore, quel Giacomo Leopardi che nel pessimismo cosmico parlava di contemplare «l’arido vero».
Osservando la sera, Foscolo, figlio dell’Illuminismo, comprende razionalmente la morte e il disfacimento del tutto; e quel tempo, così fuggevole da rendere tutto effimero, mette in discussione l’importanza stessa dell’azione umana, quel desiderio di affermazione e cambiamento: «Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge» (v. 14), il cui grido potrebbe restare sepolto e inespresso. Questo è il tormento più grande per Foscolo, che in tutta la sua opera ha cercato, in modo laico, di salvare l’operato umano al cospetto dell’eternità. La contemplazione filosofica di Foscolo necessita di segni e di esempi: pare quasi che il poeta voglia porsi in un osservatorio cosmico ove vede la distruzione meccanica di tutto quel che esiste; e, in particolare, le ansie, le preoccupazioni, i sogni, i dolori degli uomini, che Foscolo incarna nell’intraducibile parola latina «cura»; a torme, a nugoli, a mucchi vengono spazzati via nell’oblio: e possiamo immaginare un cielo stellato, limpido e lontano, invisibile a sé stesso: l’uomo trascinato via nel non essere, in una notte senza fine.
Eppure la sera, pur essendo immagine della morte, si offre come rifugio necessario, come quella terra da cui si nasce e a cui si torna. Indubbiamente il rapporto con la Natura è qui ambivalente, come già lo era stato nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis. Una Natura bella e sgargiante, potremmo dire, nella prima parte del romanzo (così come la prima immagine della sera, nel sonetto, è positiva); una Natura aspra e selvaggia, lugubre, che campeggia nella seconda parte del romanzo, preludendo alla morte del protagonista (come, appunto, la seconda immagine della sera nel sonetto). Una natura in parte lontana e in parte sentimentale, cioè aderente agli stati d’animo del poeta. Foscolo nelle sue ambientazioni notturne ha preparato il terreno a Leopardi che proprio dell’ambientazione notturna fece il momento meditativoper eccellenza, come nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia che, in fondo, non fa che estendere e universalizzare il ragionamento qui concentrato in poche immagini.
E quindi occorre concludere in questo modo: la quiete della sera scende, ma scende anche il tormento della meditazione: il vagare dei pensieri sopiti nel proprio dovere giornaliero, quando bisogna agire, anche senza riflettere. Dunque, si calma l’azione furibonda del giorno, si libera il pensiero che vaga di riflessione in riflessione verso l’idea del Nulla; è un riflettere inquieto, ma la vera pace è lì, in quel niente che si staglia davanti a noi, che libera dall’azione stessa sebbene potrebbe farci sembrare tutto inutile. Eppure ci si calma nell’indomita speranza che spunterà un nuovo giorno, che apriremo gli occhi e ricominceremo la vita, tra gioia e sofferenza, per come sappiamo viverla, almeno finché ci è data da Dio o, per dirla con Foscolo, dal Fato.
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