Il miele selvatico sa di libertà, Anna Achmàtova.
Il miele selvatico sa di libertà,
la polvere del raggio di sole,
la bocca verginale di viola,
e l’oro di nulla.
La reseda sa d’acqua,
e l’amore di mela,
ma noi abbiamo appreso per sempre
che il sangue sa solo di sangue…
Invano il procuratore romano,
tra gridi sinistri della plebe,
lavò davanti al popolo le mani,
e invano la regina di Scozia
tergeva da rossi schizzi
le palme affusolate, nell’afosa
oscurità del palazzo reale…
“Achmatov” era il nome di un antico clan tartaro che si diceva discendesse direttamente da un ramo della famiglia di Gengis Khan. La famiglia Gorenko vantava da generazioni queste origini illustri (mai provate), e di certo, nel momento in cui il padre le proibì di infangare il nome di famiglia con la sua “decadente poesia”, Anna colse la palla al balzo per ammantare il suo nome d’arte con quest’aura di leggenda. Anna Achmatova.
Anna Achmatova nacque nel 1889 ad Odessa, terzogenita di cinque figli. Il padre, Andrej Antonovich Gorenko, era un ingegnere navale, e come la madre Inna Erazmovna Stogova discendeva dalla nobiltà russa.
Anna e i suoi fratelli si trasferirono, quando lei aveva solo due anni, a a Carskoe Selo, Villaggio dello Zar, non lontano da San Pietroburgo. Di ricca famiglia aristocratica, qui Anna visse quella che lei stessa definì un’ “infanzia pagana”, appellativo dato dalla sua tendenza a girare scalza e selvaggia. Frequentò il liceo in questa città, ma, a seguito della separazione dei genitori, a sedici anni seguì la madre e i fratelli a Evpatorija, sulle rive del Mar Nero, dove concluse gli studi. A Kiev s’iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza, che però passò subito in secondo piano rispetto alla sua innata passione per la poesia.
Anna Achmatova parlava francese quando non aveva che cinque anni, imparò a scrivere leggendo Tolstoj e compose la sua prima poesia a undici anni. Definita più volte la donna più bella dei suoi tempi, è stata amata e ammirata da tutti i suoi contemporanei per la sua bellezza statuaria, i capelli neri e la frangia, e i lineamenti forti, decisi, aristocratici. Il portamento fiero e lo sguardo intenso, irresistibile e metallico, simbolo di una Russia che, intorno agli anni dieci, i tempi dei suoi primi successi, era all’avanguardia rispetto altre altre civiltà europee per quanto riguardava cultura, arte e letteratura.
Oltre che per il suo straordinario talento poetico, Anna Achmatova è nota e amata per il suo ruolo fermo nell’opposizione al regime sovietico russo, e per la sua storia personale, irrimediabilmente e fatalmente legata al suo contesto storico, alla sua protesta, e alla sua produzione poetica. Venne definita “la poetessa del dissenso”, ma il suo fu un dissenso silenzioso, in quanto la sua opposizione al regime di Stalin consistette sostanzialmente in un silenzio costretto dalla censura, che le lasciò come unica libertà il rifiuto di elogiare il regime. Per 20 anni la poetessa rifiutò di scrivere una sola riga, imparando a memoria i suoi componimenti o bruciando all’istante qualsiasi carta su cui avesse posato la sua penna. Ma questo silenzio non le concesse comunque di vivere una vita tranquilla, sia a causa dell’eco eloquente dilagato dalla sua muta fermezza, sia per la sua già grande fama, che la protesse e allo stesso tempo la rese un bersaglio fastidioso per la propaganda sovietica, e infine per il ruolo di primo piano che i membri della sua famiglia ebbero nell’opposizione al regime a partire dagli anni ’20.
Il primo marito di Anna fu l’allora giovane poeta Nicolaj Gumilëv, che conobbe nel Natale del 1903. Qualcuno dice che l’Achmatova lo sposò per sfinimento, dopo che per anni le fece una corte serrata, con una passione talmente disperata da coronare in una serie di tentati suicidi, a seguito dei quali si dice che lei accettò di sposarlo, nel 1910. Pur non essendoci una versione ufficiale circa il loro incontro, è testimoniato da Anna stessa in una serie di lettere e pensieri che il loro fu un amore tormentoso, litigioso. Anna rimase incinta poco dopo il matrimonio, a cui per altro non partecipò nessun membro della famiglia Gorenko, ma lui la lasciò per partire per una lunga serie di viaggi in Africa e in altre parti del mondo. Anche con il figlio, che partorì in assenza del marito, ebbe un rapporto turbolento e scostante. Lev Gumilëv, che diventerà poi uno studioso molto controverso della storia russa, venne abbandonato dalla madre in fasce: avendo lei reputato di non essere in grado di occuparsene da sola, lo lasciò in affido dalla suocera. La figura di Lev sarà però crucialmente centrale nella vita della poetessa, per il destino tormentoso che il giovane sarà costretto ad affrontare.
Il viaggio di notte avvenne nel 1910 a Parigi, dove Anna incontrò Amedeo Modigliani, all’epoca ancora sconosciuto. Fra i due fiorì un rapporto misterioso: alcuni sostengono che la loro relazione sfociò subito in una forte passione d’amore, mentre per altri si trattò solo di un’intensa comunione artistica e intellettuale. Di certo Modigliani amò e apprezzò la sua poesia e Anna stessa, sua fonte di ispirazione, che ritrasse in numerosi quadri.
“Era considerata una delle più belle donne del suo tempo, si vociferava che di lei si fosse perfino innamorato a suo tempo anche lo zar Nicola II. Alta, magra, con lunghe gambe, braccia sottili, un viso illuminato da occhi sensibili e acuti, un naso aquilino che aveva affascinato i suoi ritrattisti, era l’immagine della femminilità, affascinante, dominante e misteriosa. E quest’alone di mistero talvolta si accentuava ancor più quando in lei si fondevano per chissà quali strane alchimie il suo essere chiaroveggente, rusalka, strega e poetessa allo stesso tempo e così agli occhi dei passanti appariva come una misteriosa aristocratica giunta da chissà quale misterioso paese.”
Trascorrevano intere giornate insieme, leggendo i poeti francesi sulle panchine dei Jardins du Luxemburg, mentre l’artista livornese fissava nella sua mente il corpo della ragazza, protagonista di diversi suoi disegni, dove appare nuda, nel suo corpo androgino, flessuoso.
“Probabilmente io e lui non capivamo una cosa essenziale: che tutto ciò che stava accadendo era preistoria della nostra vita: molto corta la sua , la mia molto lunga. Il soffio dell’arte non aveva ancora incenerito, né trasformato queste due esistenze: doveva essere un’ora luminosa, leggera, antelucana. Ma, com’è noto, il futuro proietta la sua ombra molto prima di entrare, bussava alla finestra, si nascondeva dietro i lampioni, intersecava sogni e metteva spavento, con la terribile Parigi di Baudelaire, che ci stava accanto, chissà dove in agguato. E tutto ciò che v’era di divino in Amedeo sfavillava soltanto attraverso uno strato di tenebre. Aveva la testa di Antinoo ed occhi dalle scintille d’oro, – non assomigliava assolutamente a nessuno al mondo. La sua voce mi è rimasta per sempre nella memoria. Lo sapevo povero, tanto che non si capiva di cosa vivesse,- come artista, nemmeno un’ombra di riconoscimento”.
A Pietroburgo, Anna Achmatova cominciò a frequentare i corsi di letteratura, fece parte della Corporazione dei poeti, il gruppo acmeista fondato e guidato dal marito. Fra loro trovò un amico in Osip Mandel’štam. Scrisse su «Apollon», la rivista letteraria del movimento. La novità dell’acmeismo stava nella rottura con il simbolismo imperante sia nei temi, sia nello stile e nella scelta di semplicità e concisione. Propugnando una poesia che fosse espressione di lavoro artigianale, che chiunque, provvisto del necessario bagaglio tecnico, avrebbe potuto coltivare si intendeva ribadire la necessità di immagini poetiche chiare e di un’espressione moderna e quotidiana. Gli acmeisti si ritrovavano in un caffè cabaret chiamato “Cane Randagio”.
Sì, li ho amati quei raduni notturni
i bicchieri ghiacciati sparsi sul tavolino,
l’esile nube fragrante sul nero caffè,
l’invernale, greve vampa del caminetto infocato,
l’allegria velenosa dei frizzi letterari
e il primo sguardo di lui, inerme e angosciante.
Il successo intellettuale di Anna fu chiaro fin dalla pubblicazione della sua prima raccolta di versi, “Sera”, nel 1912, una serie di poesie incentrate sul tema dell’amore.
Strinsi le mani sotto il velo oscuro, tratto da “Sera”
Strinsi le mani sotto il velo oscuro…
“Perché oggi sei pallida?”
Perché d’agra tristezza
l’ho abbeverato fino ad ubriacarlo.
Come dimenticare? Uscì vacillando,
sulla bocca una smorfia di dolore…
Corsi senza sfiorare la ringhiera,
corsi dietro di lui fino al portone.
Soffocando, gridai: “E’ stato tutto
uno scherzo. Muoio se te ne vai”.
Lui sorrise calmo, crudele
e mi disse: “Non startene al vento.”
Anna visse dalla Russia gli anni della Grande Guerra – “invecchiammo di cent’anni, e accadde / nel corso di un’ora sola” – ,e poi il periodo della rivoluzione bolscevica, nel 1917.
Dopodiché, nonostante i tempi fossero estremamente duri per gli intellettuali che non appoggiavano il regime sovietico, Anna non riuscì mai a prendere la strada della fuga e dell’esilio, come fecero molti personaggi di spicco dell’epoca, ma invece scelse di restare, componendo per la sua amata patria alcuni dei suoi versi più belli.
Mi chiamava, diceva «vieni qua,
Lascia il paese sordo e peccatore,
Lascia la Russia per sempre.
[…]»
Ma calma e indifferente,
Io mi tappai le orecchie con le mani
Perché l’indegno discorso
Non profanasse l’anima dolente.
(1917)
Certo, oltre all’attaccamento per la sua terra, c’erano anche vincoli famigliari a trattenerla in Russia. Dopo aver avuto con lui il suo unico figlio Lev, la poetessa si separò da Nicolaj Gumilëv, e dopo una breve relazione con un importante letterato, Silejko, si risposò per la terza volta con Nicolaj Punin, critico d’arte.
Sia il primo marito che il terzo furono forti oppositori del regime, e questo causò la fucilazione del primo nel 1921, con l’accusa di attività controrivoluzionaria (anche la sua poesia fu proibita durante il regime sovietico) e la morte seguita alla deportazione nei gulag siberiani di Punin, nel 1953. Due lutti immensi per Anna Achmatova, che visse per anni attaccata, accerchiata, con la voce soffocata e gli affetti bruciati dalla feroce repressione delle opposizioni. Ma l’angoscia più grande nella vita della donna fu di certo causata dall’incarcerazione nel figlio nelle carceri di Leningrado, con l’unica colpa di avere il cognome di suo padre. Fu dunque un dolore in particolare, dettato da un’esigenza condivisa a spingerla a spingerla a rompere il muro di silenzio per scrivere una delle sue raccolte più toccanti, Requiem, opera che non avrebbe mai potuto esistere sotto il regime sovietico, e che per questo Anna e le sue amiche impararono completamente a memoria.
L’opera descrive il dolore, la paura e le interminabili ore d’attesa delle madri degli uomini incarcerati, tra cui appunto Anna, che ogni giorno si recavano fuori dalle porte della prigione con un pacco, anche vuoto; infatti il punto non era portare effettivamente un dono ai propri cari dietro le sbarre, quanto piuttosto verificarne con il cuore in gola la sopravvivenza. Se il pacco veniva accettato dalle guardie, questo voleva solo dire che il proprio figlio era ancora vivo, mentre un pacco rifiutato era un implicito, violento indizio di morte. Con Requiem, Anna esaudisce la volontà generale delle madri angosciate di raccontare il proprio dolore e sacrificio.
“Ho passato diciassette mesi in fila davanti alle carceri di Leningrado. Una volta qualcuno mi ‘riconobbe’. Allora una donna dalle labbra livide che stava dietro me e che, sicuramente non aveva mai sentito il mio nome, si riscosse dal torpore che era caratteristico di tutti noi e mi domandò in un orecchio (lì parlavano sussurrando):
‘Ma questo lei può descriverlo?’
E io dissi:
‘Posso’.
Allora una specie di sorriso scivolò lungo quello che un tempo era stato il suo volto.”
[…]
E se un dì pensassero in questo paese
Di erigermi un monumento,
acconsento ad essere celebrata
ma solo ad un patto: non porre la statua
accanto al mare dove nacqui –
col mare ho reciso l’stremo legame –
o nel parco dello zar, presso il fatale ceppo
dove mi cerca l’ombra sconsolata,
ma qui, dove stetti trecento ore e dove
non mi apersero i chiavistelli.
Perché anche nella beata morte temo
di scordare un rombo di nere marùsi,
di scordare come l’odiosa porta sbatteva
e – bestia ferita – una vecchia ululava.
No, non sotto un cielo straniero,
non al riparo di ali straniere:
io ero allora col mio popolo,
là dove, per sventura, il mio popolo era”
Anna Achmatova non smise mai di essere un bersaglio del regime, che, non essendo riuscito con la censura nel suo intento, scelse la strada della diffamazione per togliere il rispetto che la (non)voce della poetessa si era guadagnata, in Russia e all’estero.
Così, nell’immediato dopoguerra, in chiave antiamericana e con lo scopo di ribadire la superiorità dell’ideologia stalinista anche in campo intellettuale, Andrej Zdanov, strettissimo collaboratore di Stalin e uno dei responsabili della “repressione culturale” in atto nel regime sovietico, decise di insultare tutto il lavoro di Achmatova attaccandola direttamente e personalmente definendola sulle prime pagine dei più importanti giornali nazionali “residuato della vecchia cultura aristocratica… ora monaca, ora sgualdrina o, piuttosto, insieme monaca e sgualdrina in cui la dissolutezza si mescola alla preghiera”.
Una ragione aggiunta di quest’offensivo attacco estremamente personale alla poetessa fu il fatto che nel 1945 lei avesse ricevuto una o due visite da Isaiah Berlin, allora segretario dell’ambasciata britannica. Lei, come testimoniano numerose sue poesie, si innamorò perdutamente di lui, che la racconta come una donna di una dignità immensa, triste, bella e fiera, nonostante la povertà cui le razzie di guerra avevano ridotto la sua casa, che era riuscita a lasciare durante l’assedio di Leningrado. Nel 1946 viene accusata di “estetismo decadente” ed espulsa, dall’Unione degli scrittori sovietici, e, privata della tessera alimentare, viveva del cibo che gli amici le passavano. Achmatova si mantenne traducendo moltissimo, fra gli altri Victor Hugo, Rabindranath Tagore, Giacomo Leopardi. Fu un’appassionata amante di Dante, ed è noto che imparò l’italiano proprio con lo scopo di poterlo leggere in lingua originale.
Alla fine, l’unica cosa che la fece cedere alle pressioni del governo fu la minaccia di morte del figlio Lev, che poco dopo la scarcerazione era stato internato in un campo di concentramento. Nessuno sopravviveva gli anni che gli erano stato imposti in gulag, e così, in cambio della libertà del figlio, Anna Achmatova compose una raccolta di poesie dedicate a Stalin, che però rifiutò categoricamente di pubblicare fino alla sua morte.
Nonostante questo, una parziale riabilitazione avvenne solo nel 1955, anche se i suoi movimenti e la sua vita furono sempre tenuti sotto controllo. Dopo che, col benestare del governo, potè recarsi all’estero per il ritiro di alcuni premi, Anna Achmatova morì d’infarto nel 1966.
Molti lati della vita di quella che è considerata in Russia come la poetessa più grande e maestosa di sempre possono apparire come in contrasto tra di loro, una nota stonata rispetto a una visione della storia a due colori, bianco o nero. Ci si è chiesti il motivo per cui non venne mai arrestata dal governo, mentre non si era fatto nessuno scrupolo nell’imprigionare il figlio innocente, fucilare il primo marito e internare il terzo, che si dice essere stato semplicemente colpevole di un commento sgradito su un ritratto di Lenin. E ci si chiede perchè, dopo anni di censura, Stalin, nel 1940, le permise di pubblicare una nuova raccolta di poesie, che andò a ruba nelle librerie, accolta con attonito entusiasmo dai suoi numerosissimi ammiratori e sostenitori. Fu Stalin stesso a permettere la sua fuga da Leningrado durante l’assedio del ’41, salvandola da un quasi certo destino di morte. E quando era stato arrestato per la prima volta Nicolaj Punin, fu proprio una lettera della poetessa indirizzata direttamente a Stalin a ottenerne la liberazione. Ma mai la donna fu difesa dalle pubbliche accuse di essere una prostituta, a toccare le sue scelte d’amore, e di monaca, a insultare dispregiativamente la sua fede religiosa, accuse mosse da un uomo importante e assai vicino a Stalin, nè nessuna giustificazione fu mossa per quel suo figlio, così a lungo ingiustamente torturato.
Probabilmente la sua storia va letta come un equilibrio instabile tra la minaccia che la donna rappresentava per l’ideologia stalinista e la fama di patriota, l’amore e il rispetto che si era guadagnata Anna Achmatova per tutto il popolo russo.
“La musa”, Anna Achmàtova
Quando la notte attendo il suo arrivo,
la vita sembra sia appesa a un filo.
Che cosa sono onori, libertà, giovinezza
di fronte all’ospite dolce
col flauto nella mano? Ed ecco è entrata.
Levato il velo, mi guarda attentamente.
Le chiedo: “Dettasti a Dante tu
le pagine dell’Inferno?” Risponde: “Io”.
(1924)
Poesia dell’ultimo incontro
Bevi la mia anima con la cannuccia.
Conosco il suo sapore amaro d’alcol.
Ma non ti pregherò di smettere nella tortura.
Oh, io sono in pace da settimane ormai.
Avvertimi però quando hai finito. E
non importa se non avrò più l’anima.
Prenderò la via qui accanto,
guarderò i bambini che stanno lì giocando.
Fioriscono i cespugli di uva spina,
e qualcuno porta i mattoni nel recinto.
Chi sei: fratello o amante?
Non lo ricordo, e non serve d’altra parte ricordare.
Quanta luce qui, e come è inospitale.
Il corpo stanco intanto si riposa.
Ma, turbati, pensano i passanti: è vero sì,
è rimasta vedova ieri soltanto.
(1911)
https://www.youtube.com/watch?v=Br-JSmMDcq0
https://www.bonculture.it/femmes/anna-achmatova-siamo-tutti-per-poco-ospiti-della-vita/
http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/anna-achmatova/
https://it.wikipedia.org/wiki/Nikolaj_Stepanovi%C4%8D_Gumil%C3%ABv
http://annaachmatova.altervista.org/Bio/bio.html
https://restaurars.altervista.org/amedeo-modigliani-e-anna-achmatova-storia-di-unamicizia/
http://russiaintranslation.com/2018/09/23/anna-achmatova-la-poeta-russa/
ARTICOLO DI TERESA PIDELLO DELLA CLASSE IV B DEL LICEO CLASSICO
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