SITI CONSIGLIATI

 

IL FILOTTETE

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La παιδεία nel Filottete di Sofocle

La παιδεα, ovvero l’insegnamento e la formazione dell’individuo, è un ambito centrale nella vita degli Antichi. Il Filottete (tragedia messa in scena da Sofocle nel 409 a.C.) potrebbe senza troppi problemi essere considerato un dramma fondato su tale tema.   

Come sostegno a tale affermazione è da vedersi l’inizio stesso del dramma, momento in cui sulla scena sono presenti solamente Odisseo e Neottolemo, nessun altro; l’ambiente circostante è, infatti, privo di alcuna traccia umana, è del tutto disabitato. Ebbene, in un luogo deserto le uniche persone presenti sono un uomo maturo e un giovane ragazzo: nell’immaginario degli antichi Greci un quadretto di questo tipo non poteva che rimandare immediatamente al rapporto maestro-discepolo: l’uomo attempato, saggio e reso esperto dalle circostanze stesse della vita, e il ragazzo, in fase di maturazione e ancora poco conoscitore del mondo.

 

 

 

E che si tratti di un rapporto marcato dall’intento didascalico è chiaramente rilevabile dalle maniere in cui Odisseo si rivolge al giovane: gli dà ordini e prescrizioni, rivolgendosi a lui con continui imperativi o costrutti dal valore imperativale, gli mostra i motivi per cui dovrà fare ciò che egli stesso gli comanda, gli rende evidente che cosa accadrebbe se non mettesse in atto quanto richiestogli . 

Pertanto, se non vi è dubbio che l’atteggiamento del figlio di Laerte incarni quello di un maestro, non si potrebbe dire altrettanto riguardo alla qualità di tale maestro. Non tutti i διδσκαλοι, infatti, sono modelli positivi per coloro che li seguono.

Sofocle mette, infatti, in evidenza i tratti fortemente negativi e/o mancanti nell’insegnamento impartito da Odisseo al giovane. Ciò che prima di tutto suscita scalpore nei lettori di oggi così come nel pubblico ateniese del V secolo a.C. è la richiesta fatta a Neottolemo di κκλπτειν (= raggirare) un’altra persona (in questo caso, Filottete). Un insegnamento, dunque, privo di giustizia, privo di moralità; e ciò è ben presente nella mente di Odisseo, che infatti prontamente dice, rivolgendosi a Neottolemo (v.82):

Δκαιοι δ`αθις κφανομεθα
Giusti ci riveleremo un’altra volta

E il re di Itaca solo apparentemente spiega al ragazzo i motivi per cui deve attuare il piano, come si evince da tali parole (vv. 52-53):

ν τι καινν ν πρν οκ κκοας
κλύῃς, πουργεν, ὡς πηρτης πρει.
Se sentirai ordini insoliti, mai uditi prima, dovrai obbedire ugualmente, in quanto sei qui alle mie dipendenze.

Non è, pertanto, un insegnamento vero e proprio, basato sulla comprensione del discepolo, ma una prescrizione dall’alto, volta solamente al risultato, è la negazione della παιδεα. Non c’è interesse da parte del maestro alla crescita interiore del ragazzo, all’acquisizione di nuove consapevolezze da parte di quest’ultimo.

 

Odisseo si rivolge a Neottolemo chiamandolo τκνον (=figlio), in modo all’apparenza affettuoso, paterno. Ma questo atteggiamento collide fortemente con il tipo di insegnamento che egli gli impartisce, che non è certo quello che un padre darebbe al proprio figlio. Sofocle pone, quindi, il suo pubblico di fronte a una ambiguità continua: ciò che potrebbe sembrare bene alla fine si rivelerà essere il contrario e viceversa. In questo senso, ad esempio, va letta l’espressione (v.84)Δός μοι σεαυτν (=Dai te stesso a me).

La richiesta del maestro (al discepolo) di provare piena fiducia nei confronti di se stesso è non solo lecita, ma anzi doverosa, nessun rapporto può esistere senza questo elemento, tanto meno quello di discepolato. Tuttavia, la fiducia a cui tanto aspira Odisseo è una pretesa troppo elevata, giacché priva di fondamenta e, per così dire, unilaterale: ciò che importa a Odisseo, infatti, è solamente il fatto che Neottolemo si affidi a lui, ciecamente, senza un percorso di crescita interiore che lo porti a comprendere da solo, in modo autonomo, la realtà che lo circonda. Non a caso, la frase poc’anzi citata, δός μοι σεαυτν, costituisce un esplicito richiamo, rovesciato, al motto delfico per eccellenza, γνθι σεαυτν (= conosci te stesso), il quale ultimo esorta a conoscere se stessi, a indagare negli spazi più profondi del proprio animo. 

Odisseo educa il suo discepolo a dire menzogne e gli dà insegnamenti che sa non essere confacenti all’animo del giovane, due caratteristiche tipiche del cattivo maestro per eccellenza.
Dunque, a Odisseo non interessa coltivare le caratteristiche interiori del ragazzo, potenziare le qualità già insite nel suo animo, ma cerca di cambiare i suoi tratti caratteriali in base ai propri scopi e vantaggi, deviandone addirittura la sua indole onesta in una malvagia, schiacciata dal peso della scorrettezza morale.

 

Inoltre, il fatto che Odisseo voglia insegnare a Neottolemo qualcosa che non fa parte della natura del ragazzo stesso solleva una questione non irrilevante: la virtù può essere acquisita tramite l’insegnamento o è insita in una persona, che, dunque, ce la ha come qualità innata, nella sua φσις? Tale quesito rientra a pieno titolo all’interno del dibattito di V-IV secolo a.C. apertosi tra socratici e sofisti: i primi ritengono che la virtù non si possa apprendere attraverso l’insegnamento, ma che sia una caratteristica che deve esserci già al momento della nascita dell’individuo, mentre i secondi credono che possa essere appresa da chiunque riceva l’adeguata formazione.

 

 

 

In ogni modo, gli ordini di Odisseo non possono avere lunga vita: Neottolemo, infatti, ha per natura un’indole di gran lunga diversa dalla sua, è un giovane dal nobile cuore, degno di suo padre, il sincero e schietto Achille, pertanto gli sarà sufficiente incontrare un altro uomo interiormente simile a se stesso per prendere coscienza che obbedire al figlio di Laerte non è altro che un errore (vv. 1244-1246)


(ΝΕ. Σοφὸς  πεφυκὼς οὐδὲν ἐξαυδᾷς σοφόν.
ΟΔ. Σὺ δ’ οὔτε φωνεῖς οὔτε δρασείεις σοφά.
ΝΕ. Ἀλλ’ εἰ δίκαια, τῶν σοφῶν κρείσσω τάδε.
NE. Tu, pur essendo per natura assennato, non parli affatto da persona assennata.
OD. E tu né parli né vuoi agire in modo assennato.
NE. Ma se queste mie azioni sono giuste, valgono più di quelle assennate). 

 

Questo uomo è Filottete stesso, che, pur abbandonato da tutti da molti anni, in preda al dolore provocatogli dalla ferita a seguito del morso del serpente velenoso, oramai zoppo, si rivelerà, tuttavia, un modello positivo per il giovane. Chiedendogli di aiutarlo, di portarlo via dall’isola, risveglia in lui il senso di devozione e di pietà verso i derelitti e gli emarginati. 

A poco a poco, infatti, Neottolemo inizia a chiedersi se ciò che Odisseo gli ha ordinato di fare sia veramente lecito oppure no: τί δράσω; (= che cosa dovrei fare?)  questo è l’interrogativo che numerose volte si pone (vv. 895; 969; 974), il dubbio che comincia a logorarlo dall’interno, che non gli permette di portare a termine l’inganno senza essere schiacciato dal peso dell’ingiustizia; questa è la domanda che presto o tardi incalza tutti gli eroi, gli eroi tragici, è l’essenza stessa del tragico: ognuna delle due scelte, infatti, arrecherà parimenti una conseguenza negativa: da una parte, se non obbedirà agli ordini impartiti da Odisseo, quest’ultimo lo punirà gravemente, dall’altra, se sottraesse di nascosto l’arco di Eracle a Filottete, commetterebbe un atto di profonda ingiustizia. Neottolemo a lungo è indeciso sul comportamento da assumere, sembra che, qualunque scelta prenda, comporti allo stesso modo un errore; ma non è così: a differenza delle vicende eschilee, i personaggi di Sofocle hanno davanti a sé una strada che è quella da percorrersi, quella che, seppur ardua, anzi proprio perché tale, li renderà davvero grandi, soli nella loro eroica tragicità.  

E, infatti, Neottolemo decide di svelare a Filottete la verità, ovvero gli rivela l’inganno intessuto da Odisseo. Ma ciò non vuol dire che concretamente lo aiuti, giacché in un primo momento gli sottrae ugualmente l’arco. Filottete lo implora ripetutamente di provare pietà, di non abbandonarlo, ma gli ordini di Odisseo sono ancora troppo vivi nell’animo del giovane.

Neottolemo, però, nel corso di questa vicenda, cresce, diventa un uomo (in tutta la tragedia viene definito παῖς o τκνον (= fanciullo), mentre solo alla fine viene indicato con νρ (= uomo)); e ciò gli permetterà di trovare la forza per liberarsi dagli ingiusti e crudeli vincoli impostigli dall’astuto figlio di Laerte e di fare la scelta giusta: non importa se sia svantaggiosa, quello che conta è che sia giusta (v.1246):

ΝΕ. Ἀλλ’ εἰ δίκαια, τῶν σοφῶν κρείσσω τάδε.
NE. Ma se queste mie azioni sono giuste, valgono più di quelle assennate.

 

Ed è così che, attraverso una vera e propria μεταβολή (= rovesciamento di situazione),  tornerà indietro e, a dispetto della volontà di Odisseo, riconsegnerà l’arco a Filottete.

 

Il percorso di crescita e di passaggio all’età adulta di Neottolemo, inizialmente deviato sotto la guida di Odisseo, prende la retta via solo in un secondo momento del dramma, quando, cioè, entra in scena Filottete, colui che, con la sua dirittura morale e il suo insegnamento non coercitivo (a tal proposito, va notato che Filottete non costringe mai Neottolemo ad aiutarlo, ma sempre glielo chiede con pietà e gentilezza, cercando di dimostrargli come questa sia la cosa giusta e perché), riesce ad allontanare dal cuore del giovane i cattivi precetti impartitigli da Odisseo.
E non gli impone nulla che già non faccia parte del suo animo, ma coltiva le qualità che lui ritiene positive già presenti nel carattere del giovane: Sofocle sembra, pertanto, schierarsi dalla parte di chi ritiene che l’insegnamento non può venire trasmesso dall’esterno, ma che deve essere fondato su caratteristiche innate dell’individuo.
Filottete, in sintesi, riesce a fare in modo che Neottolemo ritrovi se stesso: ecco che in un certo modo le parole del sovrano di Itaca (Δός μοι σεαυτν = Dammi te stesso) vengono ribaltate e riportate nell’alveo del motto delfico per eccellenza, il γνθι σεαυτν


ARTICOLO DELLA DOTT.SSA MICHELLE FILOPANDI, EX ALLIEVA DEL NOSTRO LICEO CLASSICO