Filippo Giordano Bruno
Ci fu un tempo, lontano più di quattro secoli, in cui un frate domenicano, un certo Filippo Bruno Giordano, ipotizzò l’esistenza di una “magia naturale”, una caratteristica innata per natura nell’uomo, che appariva chiaramente di fronte a un bambino innocente: la curiositas. Questo filosofo nacque nel 1548 a Nola, in provincia di Napoli, ed entrò nel sopracitato ordine monastico cambiando, come era previsto, nome da Filippo a Giordano. Ma non ci mise molto a farsi espellere dall’ordine e inimicarsi la Chiesa, e in seguito a farsi condannare per eresia. Molteplici furono le ragioni per cui, nel 17 febbraio del 1600, venne messo al rogo dopo un estenuante processo durato quasi otto anni, durante i quali si rifiutò sempre molto fermamente di abiurare. Tra questi, vi era la sua visione panteistica, che prevedeva una coincidenza tra Dio e la natura, dunque tra il creatore e il creato: concetto inaccettabile per i cattolici. Convinto di questa idea, Bruno scrisse il De gli eroici furori, dove spiegò come si dovesse vivere per assaporare in pieno l’essenza stessa dell’esistenza: essere appunto un “eroe furioso”, ovvero non porsi limiti e condurre una vita sfrenata, fondendosi con la natura e di conseguenza con il Signore stesso. A questo proposito, recuperò il mito greco del cacciatore di cervi Atteone, che liberava all’inseguimento dell’animale due tipi di cani: i mastini e i levrieri. I primi rappresentavano le volizioni umane, i secondi i pensieri, con i quali l’uomo preda la natura. Ma un giorno Atteone si sofferma un istante di più prima di liberare i cani, e scorge l’essenza stessa della natura, rappresentata dalla dea Diana che sta facendo un bagno in un laghetto con le ninfe. Nella versione originale del mito, Atteone viene punito per la sua ubris e trasformato in un cervo, venendo sbranato dai suoi stessi cani. Bruno però interpreta questa metamorfosi come un premio per aver scelto di non predare la natura, fondendosi con essa. In altre parole, bisogna ritornare allo stato originale dell’uomo, non lasciarsi corrompere dalla civilizzazione, per mantenere viva quella magia naturale tanto cara a Bruno. Riprendendo questo concetto, egli sosteneva che alla nascita tutti fossero dotati di curiositas: desiderio di scoprire, che ci porta a porci continui interrogativi e a vedere il mondo con gli occhi di un bambino, spensierato e desideroso di avere risposte alle sue innumerevoli domande. Tutto ciò però, svanisce nel momento in cui inizia l’istruzione: il bambino non si pone più dei “perché”, non desidera più fare continue esperienze sperimentando, ma viene saziato da pile e pile di libri che in realtà lo privano della sua magia; va incontro a quella civilizzazione da Bruno tanto temuta. La perdita di questa innocenza, per il filosofo, allontana l’uomo da Dio e dalla vera vita; un suo contemporaneo, Michel de Montaigne, inaugurò il “mito del buon selvaggio”, concetto strettamente legato a quello dell’innocenza perduta, perché sottolineava fortemente come la purezza dell’essere umano venisse macchiata dall’evoluzione continua e repentina a cui l’Europa era sottoposta in quel periodo, periodo di grandi scoperte geografiche e non solo, che portarono nuove concezioni del mondo e della cultura in generale. Montaigne ritrovava questa purezza, questa innocenza, non nei bambini come Bruno, ma negli indigeni del Nuovo Mondo che gli europei stavano colonizzando: questi dovevano essere un esempio da seguire, per evitare la corruzione che il mondo civilizzato aveva portato. Questa introduzione era dunque necessaria per chiarire il concetto bruniano di magia naturale nei bambini e innocenza perduta, collegata anche al mito del buon selvaggio: questi furono temi molto cari a personaggi di spicco della letteratura inglese in età moderna. Secoli dopo Bruno e Montaigne, queste idee continuarono a vivere nelle eterne pagine dei capolavori letterari, che tutt’oggi leggiamo o studiamo, di Daniel Defoe, J.M. Barrie e Robert Louis Stevenson.
Daniel Defoe
Daniel Defoe nacque nel 1660 a Stoke Newington, sullo sfondo di una Londra afflitta dagli incendi e dalla peste. La carriera di Defoe rappresenta al meglio le trasformazioni che in quell’epoca mutarono la società inglese. Esprime infatti il passaggio verso un’industrializzazione massiccia a seguito della rivoluzione industriale, con l’esodo dei cittadini di campagna verso le città, simboleggia una modernizzazione politico-economica che sarà alla base dell’età moderna; non solo perché vive tutto questo in prima persona, ma perché lo descrive con una minuziosità giornalistica impeccabile, che ci restituisce una visione del mondo di allora chiara e affascinante. Defoe è infatti considerato l’inventore del giornalismo, e non a caso fondò il primo quotidiano inglese, The Review, nel 1704, un trisettimanale. La carriera di questo personaggio inizia proprio dal giornalismo, che egli interpreterà al meglio della sua essenza: per portare avanti la sua carriera, diventerà agente segreto al servizio del miglior offerente. Nel momento in cui sul trono d’Inghilterra sedeva Guglielmo d’Orange, il segretario di Stato era Robert Harley. All’epoca le principali fazioni politiche erano due: quella dei tories e quella dei whigs. I primi erano i conservatori, leali al re e alla Chiesa anglicana; i secondi erano i rappresentanti della classe media, sempre più numerosa e potente, nonché sostenitori dei parlamentari. Harley era un tory, dunque Defoe si mise al suo servizio come spia infiltrata nella fazione opposta. Il segretario perse però potere, e Defoe non esitò a diventare spia dei whigs. Rimase comunque protetto dal re, di cui era amico e confidente. Ma quando, nel 1702, Guglielmo d’Orange si spense nel suo letto di morte, venne incarcerato come dissidente. Allora i tories guidati da Harley, ancora influente, lo liberarono dalla prigionia in cambio dei suoi servizi. Fu in questo periodo che fondò, come detto, la sua testata giornalistica, che assunse dunque una forte impronta politica conservatrice. Le acrobazie politiche di Defoe furono infinite, e di volta in volta il suo giornale e quelli che prese in gestione cambiarono nettamente impronta politica: infatti gestì moltissime testate, viaggiando per tutta l’Isola. Questo giornalista è un personaggio tutt’ora valutato in versi opposti, come un genio sregolato o come uno sporco arrivista. Quello che tutti devono riconoscergli è però il merito di essere stato essenziale per la nascita del giornalismo moderno, e quando gli venne chiesto se credesse davvero nella libertà di stampa, visti i suoi condizionamenti politici, rispose citando il proconsole romano Macrobio:
Non possum scribere contra in (eum) qui potest me proscribere.
Trasformato in termini moderni da Defoe:
Certo che la stampa può essere indipendente, ma in un modo soltanto. Guardate me: a volte mi faccio pagare dai whigs, a volte dai tories, e così sono sempre indipendente.
Dietro questa cinica lezione si nasconde il volto del giornalismo moderno, e la personalità di una figura che pagò sempre le sue rocambolesche avventure con la gogna e il carcere.
Ma un Defoe quasi sessantenne decise di ritirarsi a vita più tranquilla, e per questo motivo verrà ricordato da tutto il mondo; si dedicò infatti a un nuovo genere, che lui stesso fondò: la novella. Scrisse queste opere in prosa che rispecchiavano i gusti della società borghese del tempo: storie verosimili con precise indicazioni spazio-temporali, dove i protagonisti erano uomini comuni appartenenti alla classe media, che del resto costituiva la parte più consistente dei lettori delle novelle, scritte apposta in modo semplice perché fossero comprensibili ai più. Le vicende narrate erano spesso rocambolesche avventure, come per esempio quelle di Robinson Crusoe, la più famosa novella di Defoe.
Robinson Crusoe
Nel 1719 Daniel Defoe completò la stesura della novella Robinson Crusoe, che ebbe subito un grandissimo successo e ancora oggi è oggetto di numerose riedizioni. La storia vede questo giovane ragazzo nato nel 1632 a York decidere di diventare marinaio e imbarcarsi in cerca di avventure, disubbidendo a suo padre e lasciando gli agi e le certezze che il suo stato sociale di borghese gli avrebbe assicurato. Dopo varie peripezie, Robinson fa naufragio su un’isola deserta ed è costretto a vivere lì da solo, in quanto unico superstite, adattandosi a una vita completamente nuova e monotona. Dopo 24 anni di totale isolamento incontra un selvaggio, che chiama Venerdì, e tre anni più tardi viene recuperato dopo circostanze avventurose e torna in patria tra la civiltà, ormai profondamente cambiato. Viene facile capire come questo racconto si possa prestare ottimamente alla dimostrazione di come si verifichi l'”indiamento” descritto da Giordano Bruno, nonchè di come l’uomo sia buono per natura come disse Montaigne: un uomo borghese, ben impiantato in una società produttiva e moderna, di fronte alla sola natura comprende l’essenza stessa della sua vita, tanto più dopo aver visto la morte con i suoi occhi. Con questa chiave di lettura il romanzo viene interpretato da Rousseau, che prende Robinson come personaggio modello del rapporto tra l’uomo e la società moderna: nel 1762 il francese pubblica la sua opera più famosa, l’Emile, dove spiega come per lui la parabola del naufrago che si salva senza l’aiuto dei suoi simili, col solo conforto della Ragione e di una Fede puramente deista, è quasi una voce dell’Encyclopédie: mostra un uomo naturalmente buono, che inventa tecniche e arti di sopravvivenza, che si allea a un altro uomo naturalmente buono, il selvaggio Venerdì. Anche Kant proseguì su questa scia il commento dell’opera di Defoe: nelle sue Congetture sull’origine della storia del 1786 fece di Robinson un simbolo dell’etica progressista: perché rappresentava l’uomo moderno nostalgico dell’età dell’oro, d’impossibili ritorni alla vita naturale, ma cosciente d’aver messo in moto lui stesso un processo di civilizzazione che gli impedisce di rientrare nell’antico stato d’innocenza; un uomo consapevole che l’innocenza non può bastargli, che lui stesso non la desidera veramente; e così, come dice Kant
Rispecchia le vere caratteristiche della natura e del percorso umano, che va dal peggio al meglio, non dal bene al male.
Per il ritorno allo stato naturale di Robinson e la sua amicizia con il “buon selvaggio”, da molti la novella viene considerata come un grande romanzo filosofico antischiavista che richiama i temi appena citati e prelude a Rousseau, con la sua personale elaborazione del “buon selvaggio”.
Ma se analizziamo questo testo sotto i suoi punti di vista, possiamo notare come dia una dettagliata immagine della società del tempo: a partire dal processo di industrializzazione e sviluppo economico del XVII-XVIII secolo, tanto che Marx nell’Introduzione alla critica dell’economia politica e nel Capitale cita il naufragio di Defoe, che ha tutte le caratteristiche del borghese del ‘700, tanto che anche da solo, su un’isola deserta, diventa imprenditore di se stesso:
Salva dal naufragio orologio, libro mastro, penna e calamaio, e comincia da buon inglese a tenere la contabilità della vita, persino della Provvidenza.
Provvidenza divina che è un altro grande tema del libro: il protagonista riscopre la fede in Dio durante la sua permanenza sull’isola, comprende come tutto sia governato dalla mano invisibile del Signore e come il continuo intreccio tra Caso e Provvidenza determini le fortune di ogni uomo, senza più lamentarsi della sua posizione. Il concetto interessante che Robinson stesso spiega è infatti che ogni situazione in cui l’uomo si trova potrebbe essere ben peggiore, e dunque non va disprezzata ma bisogna adoperarsi per provare a migliorarla attraverso la Fede: non a caso nella novella il naufrago salva dalla nave una Bibbia, e inizia a leggerne alcuni salmi quotidianamente. Proprio le varie citazioni bibliche furono molto apprezzate dai lettori dell’epoca e concorsero alla fama del romanzo.
Altra caratteristica della storia che più di tutte la portò a essere così popolare è la usa trama avvincente, originale e soprattutto avventurosa, che rispecchiava i gusti del tempo: Robinson Crusoe può essere considerato anche un poema epico moderno, riprendendo i notissimi temi dei peripli omerici e innestandoli con i nuovi temi del romanzo esotico imperniato sul culto della vita primitiva e selvaggia, il cui progenitore è spesso considerato l’Isle of Pines di Naville del 1668. Il libro in questo senso è lo specchio delle imprese degli avventurieri e dei navigatori dell’epoca, nonché delle varie scoperte geografiche: non a caso l’sola sperduta è indicativamente alla foce dell’Orinoco, e appartiene ai Caraibi e al Centro America; infatti già dalla fine del ‘500 questi luoghi fanno da palcoscenico alle prime violazioni inglesi del monopolio spagnolo, alla concorrenza anglo-spagnola nella tratta degli schiavi, agli scontri tra pirati e corsari, alle guerre di religione che qui si spostano intrecciandosi con lo scontro tra cattolici e protestanti prima ancora dello sbarco dei Padri Pellegrini nel nord del 1620. Per concludere, l’eccezionalità di questo romanzo è, come dice Virginia Woolf, la capacità di produrre nella letteratura del Settecento un evento di timbro antico, con Robinson nei panni di Ulisse, traferitosi dal Mediterraneo all’Atlantico. Ecco che quindi Defoe è il nuovo Omero, che non fa altro che tessere insieme i fili che delineano in maniera chiara ed entusiasmante il quadro della società in cui ha vissuto.
J. M. Barrie
Sir James Matthew Barrie nacque nel 1860, 129 anni dopo la morte di Defoe del 1731. Le circostanze in cui crebbe furono però radicalmente diverse da quelle del suo connazionale, tant’è vero che nacque in un paesino scozzese di campagna, Kirriemuir, come ultimo di 10 fratelli, da un’umile famiglia di tessitori. Questa sua situazione lo portò a cercare ogni modo per attirare su di se le attenzioni dei fratelli, finché un giorno non trovò ciò che gli riusciva bene, ciò con cui riusciva a intrattenere chiunque: raccontare storie fantastiche. Soprattutto sua madre, Margaret Ogilvy, svolse un ruolo determinante nel coltivare la sua passione letteraria: non solo alimentò le sue fantasie dei vari racconti, dandogli sempre ascolto e stringendo con lui un rapporto molto forte, ma lo convinse anche a proseguire i suoi studi fino al suo ingresso nell’Università di Edimburgo, dove a ventidue anni conseguì la sua laurea. A testimonianza del ruolo principe che la madre svolse nella nascita di un genio letterario ricordato fino a oggi, lo stesso Barrie nel 1896, quando Margaret l’aveva già lasciato, scrisse una biografia della madre, molto toccante poiché andava oltre alla descrizione della sua vita ma descriveva anche il rapporto che avevano avuto da un punto di vista personale. Il problema di Barrie fu però, a differenza di Defoe che era stato estremamente abile a destreggiarsi fa le varie case editrici, trovare un lavoro come giornalista. Iniziò la sua carriera al Nottingham Journal, dal quale fu licenziato dopo aver prodotto risultati decisamente insoddisfacenti. Questa fu una vera benedizione per il mondo della letteratura, perché fu costretto a spostarsi a Londra, senza soldi e appena venticinquenne, per cercare fortuna. E sarà qui che diventerà un grande scrittore.
Un giorno, trovandosi ad Hyde Park, fece un incontro casuale e fondamentale: conobbe cinque persone che sarebbero state la sua fonte d’ispirazione per il suo più grande capolavoro. Ciò che è sorprendente è che si trattava di cinque bambini, figli di Sylvia e Arthur Davies: George, Jack, Peter, Michael e Nicholas. Nessuno si spiegò l’amore che nacque in Barrie per questi fratelli, se non immaginando che li vedesse come i figli che sua moglie non era mai riuscita a dargli. La verità, però, era un’altra: lo scrittore scoprì e comprese quell’innocenza bambinesca, quella curiositas tanto decantata da Giordano Bruno, che desiderò tanto osservare al punto che iniziò ad invitare i pargoli nel suo cottage di campagna, il Black Lake Cottage, e catturò i loro momenti di gioco e riposo con varie fotografie con le quali compose poi un album, a cui diede il nome di I bimbi smarriti di Black Lake Island. Il gioco preferito dei bimbi era fare i pirati, e fu così che Barrie ne trasse l’ispirazione per la sua opera di gran lunga più famosa: Peter Pan.
Peter Pan, il ragazzo che non voleva crescere
Nominando questo personaggio molto famoso nella cultura cinematografica e letteraria di oggigiorno, ci viene sicuramente in mente il ragazzino volante vestito di verde creato dalla Disney, ma dobbiamo ripercorrere tutta la sua storia per comprendere come sia arrivato fino a noi. La sua prima apparizione è in un romanzo di Barrie del 1906, Peter Pan nei giardini di Kensigton. Precedentemente è stato citato Hyde Park, luogo dell’incontro del romanziere con i piccoli Davies: i giardini di Kensigton furono proprio la zona del parco in cui si trovava Barrie in quel momento. Nel libro, diventano dunque lo sfondo della storia che vede come protagonista un neonato di sette giorni, Peter Pan appunto, con una caratteristica molto particolare: la capacità di volare. Nella storia infatti, i bambini nascevano da una trasformazione di alcuni uccelli, che un certo re Salomone -che regnava sull’Isola degli Uccelli, al centro del lago Serpentine dei suddetti giardini- inviava nelle case delle famiglie destinate ad avere figli. Peter dopo soli sette giorni è dunque ancora nel pieno della sua metamorfosi da passero a umano, e riesce a volare via di casa da una finestra lasciata inavvertitamente aperta dalla madre. Le avventure di questo bimbo riscontrarono un così grande successo che Barrie qualche anno dopo, nel 1911, scrisse un libro interamente dedicato a lui, nella sua forma da adolescente: Peter e Wendy. Quest’opera era uscita come piece teatrale già nel 1904, ma naturalmente quella versione non può essere considerata come romanzo. L’opera fu poi in seguito conosciuta con il suo nome più comune: Peter Pan, il ragazzo che non voleva crescere.
La storia, da tutti conosciuta nella reinterpretazione Disney, vedeva il bambino Peter Pan, eternamente giovane e in grado di volare, portare con lui su Neverland (L’isola che non c’è), i figli della famiglia Darling di Londra: John e Michael, oltre alla primogenita Wendy, che nella versione originale non era la ragazza amata da Peter, bensì una figura materna per lui e per tutti i “ragazzi perduti” dell’Isola, tanto che dopo essere cresciuta e aver avuto una figlia, Jane, diede a Peter e ai bambini una nuova “madre”, una figura di riferimento di cui non potevano fare a meno vista la loro eterna fanciullezza. Fida compagna di Peter era la fata Campanellino, classico elemento del fantastico, che provava molta gelosia nei confronti di Wendy. Il libro originale fu illustrato da Francis Donkin Bedford, che rese celebre l’immagine dell’antagonista dei bambini sperduti: James Hook, meglio conosciuto come Capitan Giacomo Uncino. Costui, che secondo la storia aveva perso la mano in seguito al morso di un coccodrillo, fu raffigurato con il famoso uncino al posto della mano destra. La figura di Uncino è estremamente interessante, perché unisce la storia alla letteratura: infatti James Hook fu probabilmente il nostromo di Barbanera, pirata inglese di nome Edward Teach, che controllò il Mar dei Caraibi tra il 1716 e il 1718; ma nella storia di Stevenson L’isola del tesoro, che in seguito verrà approfondita, il pirata protagonista Long John Silver afferma che Capitan Uncino fosse l’unico pirata che avesse davvero temuto. Famoso è anche, nella storia di Barrie, il mozzo del capitano, Spugna. Non a caso, una delle frasi pronunciate da Uncino spesso ricordata è:
Io odio le delusioni, Spugna. Io odio vivere in questo corpo storpiato! Odio questa dannata isola! E io odio, io odio…io odio Peter Pan!»
La tematica principale delle avventure di Peter Pan è sicuramente il mito dell’eterna giovinezza e della celebrazione della volontà di non volere crescere. Barrie non si interessò per caso a questo tema, piuttosto fu spinto nella sua composizione di opere da un vero e proprio desiderio di fanciullezza e innocenza bambinesca che aveva potuto vivere solo fino alla morte del fratello maggiore per un tragico incidente. Dopo che questi cadde in un lago ghiacciato, mentre pattinava, e perse la vita, Barrie dovette badare a sua madre e assumersi molte responsabilità. In questo modo lo scrittore perse irrimediabilmente la sua infanzia, costretto dalla madre, che si aspettava da lui un comportamento da persona adulta, ad immergersi nello studio, tanto che dichiarò:
Il terrore della mia infanzia era la consapevolezza che sarebbe venuto un tempo in cui anche io avrei dovuto rinunciare ai giochi e non sapevo come avrei fatto (questo tormento mi ritorna ancora nei sogni quando mi scopro a giocare a palline di vetri e mi giudico con severa riprovazione); sento che dovrò continuare a giocare in segreto.
Il mito dell’infanzia viene però reinterpretato da Barrie in una chiave nuova, inquietante ed estremamente realistica: lo unisce infatti alla paura di morire, al metus mortis che tanto spaventa l’uomo. Per lui, ciò che si contrappone al voler crescere non è tanto il desiderio di perdere la spensieratezza infantile in se, quanto piuttosto la paura della morte. L’infanzia non viene infatti vista come qualcosa di innocente, ma al contrario Peter Pan viene descritto da Barrie con caratteristiche simili a quelle di un demone, che sono state in seguito edulcorate dalle versioni moderne. Per questa ragione l’opera è alla base dell’infantilismo moderno, che sfocia nella sindrome chiamata appunto di Peter Pan: l’adulto che desidera tornare bambino non viene visto come qualcosa di positivo, al contrario rischia di vivere escluso dalla società (non a caso Peter e i bambini perduti vivono su un’isola che non esiste, estraniati dal resto del mondo) e di perdere il senno.
Parlando del personaggio nello specifico, si può facilmente capire come il secondo nome di Peter, Pan, derivi dal dio greco, anch’esso dalla duplice natura, animale e umana, come quella del primo Peter. Anche lo strumento che il personaggio di Barrie porta sempre con se è un flauto di Pan, e come questo dio Peter spesso assume i comportamenti che desidera senza alcuna vergogna, dando sfogo al suo lato sfrenato e selvaggio tipico dei bambini (che sono ancora senza il senso del pudore e regole rigide).
A partire dalla seconda metà del XX secolo, la figura di questo protagonista degli scritti di Barrie ebbe notevole fortuna in ambito cinematografico, soprattutto grazie alla produzione Walt Disney “Le avventure di Peter Pan”, che diede al fanciullo l’immagine da tutti ricordata. Non solo, anche Steven Spielberg realizzò una pellicola dedicata a uno dei personaggi più iconici della storia, Capitan Uncino, “Hook-Capitano Uncino”, che contribuì a rendere questo antagonista in realtà molto amato soprattutto dai bambini. Ma anche molti adulti apprezzano questa storia, forse perché anche loro, guardandone il film, rivivono quella giovinezza che Barrie provò scrivendola…
Robert Louis Stevenson
Parlando di scrittori inglesi contemporanei di James Matthew Barrie, non si può non citare Sir Robert Louis Balfour Stevenson, nato a Edimburgo esattamente 10 anni prima, nel 1850. Mentre il padre era un benestante borghese, la madre era di origini francesi, figlia del noto reverendo Lewis Balfour, parroco di Colinton. La vita di Stevenson fu caratterizzata da un grave problema di salute, ereditato dal ramo materno di famiglia, probabilmente una tubercolosi o comunque una malattia congenita ereditaria a livello polmonare. Anche per questo, rispettò non per molto i voleri del padre, che lo fece iscrivere, secondo la tradizione di famiglia, all’Università di Ingegneria di Edimburgo, e decise di viaggiare e coltivare la sua grande passione: la letteratura. Viaggiava infatti non solo per piacere, ma anche per questioni di salute: i climi molto più miti e meno umidi della Francia meridionale erano per Stevenson un vero sollievo dai suoi tormenti, tanto che pian piano si legò alla terra d’origine di sua madre. Nonostante questo, si laureò in giurisprudenza, facoltà a lui più consona, senza però mai esercitare la professione di avvocato. La vera svolta nella sua carriera furono però le iniziali collaborazioni con l’Edinburgh University Magazine e con The Portfolio, che iniziarono a pubblicare alcuni suoi scritti. Il primo di questi che ebbe un rilevante successo fu proprio la narrazione di uno dei suoi viaggi, che fecero la sua fortuna letteraria in quanto accrebbero la sua immaginazione e diedero a Stevenson anche diversi spunti. Stiamo parlando di An Inland Voyage, pubblicato nel 1878, che raccontava del suo viaggio in canoa, avvenuto nel 1886, attraverso i fiumi e i canali della Francia, partendo da Anversa per arrivare a Pontoise.
Contemporaneamente, portò avanti la pubblicazione di alcuni suoi lavori su diverse riviste inglesi, la cui più famosa era il Cornhill Magazine: Stevenson divenne uno scrittore sempre più versatile e iniziarono a venir fuori le sue caratteristiche principali, tra cui lo stile raffinato e il sottile umorismo. Il suo viaggio più impegnativo fu nel 1880, quando arrivò fino in California. Compì questa vera e propria impresa, considerando le sue condizioni di salute che infatti peggiorarono notevolmente, per raggiungere una donna conosciuta in Francia, Fanny Vandergriff Osbourne, e sposarla. Da questo momento però iniziarono i suoi anni più prolifici e fortunati in campo letterario: tornò in Inghilterra e iniziò a scrivere L’isola del tesoro, pubblicata nel 1883 mentre si trovava a Hyères; tre anni più tardi uscì il famosissimo Lo strano caso del dottor Jekyll e di mister Hyde. Nel 1887 il padre di Stevenson morì, così lo scrittore fece ritorno in America, dove il dr. Jekyll era spopolato con grande successo.
Stava ormai molto male, quando dopo aver letto i romanzi di avventure esotiche di Melville decise di intraprendere un viaggio sorprendente: accettò l’invito di un editore a scrivere un volume sui mari del Sud e partì, con la famiglia, per una crociera verso le isole Marchesi (Polinesia Francese), Tahiti e le isole Sandwich (attuali Hawaii). Se il volume fu decisamente deludente, vista la ridotta inclinazione di Stevenson a lavorare su commissione, le sue condizioni di vita e di salute migliorarono talmente tanto che decise di stabilirsi a Upolu, principale isola della Samoa. Visse qui dal 1890 fino alla morte, quattro anni dopo, che lo colse improvvisamente a causa di un’emorragia cerebrale. In questo periodo ebbe ottimi rapporti con gli indigeni, che lo definirono Tusitala, ovvero “narratore di storie”. Egli si affezionò molto al luogo e ai suoi abitanti, tanto che volle che la sua tomba sorgesse sul monte Vaea, nelle isole di Samoa, e il suo epitaffio recita le parole scritte da Stevenson stesso qualche anno prima:
Under the wide and starry sky/Dig the grave and let me lie/Glad did I live and gladly die/And I laid me down with a will/This be the verse you grave for me/Here he lies where he longed to be/Home is the sailor, home from the sea/And the hunter home from the hill
Sotto il cielo ampio e stellato/Scava la tomba e lasciami giacere/Felice ho vissuto e felicemente muoio/E mi sono sdraiato con una volontà/Questo sia il verso che incidi per me/Qui egli giace dove desiderava essere/A casa è il marinaio, a casa dal mare/E il cacciatore a casa dalla collina
L’isola del tesoro
Come detto, uno dei racconti di Stevenson che ebbe maggior fortuna fu The treasure island, nella versione in italiano L’isola del tesoro. Parliamo di questo libro in quanto si ricollega molto bene con i temi precedentemente trattati della giovinezza perduta e della corruzione in età adulta: il protagonista di questa avventura è Jim, un uomo che viene iniziato ai problemi della vita ma rimane ancora all’interno della magia della giovinezza. Il racconto può infatti essere visto come la sua crescita personale attraverso le varie avventure e peripezie che si presentano sul suo cammino, a partire dal ritrovamento della mappa di un’isola che custodisce un leggendario tesoro. Il romanzo, tutt’oggi considerato uno dei racconti di avventure migliore per i bambini, fu pubblicato nel 1883 da Stevenson, ma una versione a puntate era già uscita l’anno precedente in una rivista per ragazzi, Young Folks. La storia del romanzo è particolare: si dice che quando Stevenson iniziò la sua stesura, nel 1881, si trovasse a Braemer, nelle higland scozzesi, in un cottage con alcuni suoi famigliari. Tra questi vi era un suo figliastro, Lloyd Osbourne, che era intento a dipingere ad acquerello la mappa di un’isola. Lo scrittore rimase affascinato da questo lavoro, tanto che iniziò a dare dei nomi di fantasia a certi luoghi dell’isola, per poi battezzarla come “L’isola del tesoro”. A questo punto fu proprio Lloyd a suggerire una storia basata su quell’isola, facendo una particolare richiesta che nel romanzo verrà rispettata: chiese che nella storia non comparissero donne. Ruolo fondamentale nello sviluppo di questo libro fu quello dell’amico dello scrittore Alexander Japp, che portò una copia del romanzo alla sopracitata rivista, che iniziò a pubblicarlo.
Stevenson affermò di aver avuto diverse fonti d’ispirazione per la storia creata: a partire da Daniel Defoe e Robinson Crusoe, modello assoluto per i romanzi d’avventura. Uno dei personaggi più famosi e importanti del libro invece, il pirata Long John Silver, era ispirato all’amico W. E. Henley, scrittore ed editore. Ma fu soprattutto il romanzo di Stevenson a fare da fonte d’ispirazione per vari lavori futuri: nel 1885 Rider Haggard scrisse Le miniere di re Salomone, avendo scommesso con il fratello di riuscire a realizzare un lavoro migliore di quello di Stevenson. Non solo, anche Barrie formulò l’idea di pirata per la storia di Peter Pan basandosi sulla descrizione di Long John, e i Pirati dei Caraibi, creati da Walt Disney, si basano anch’essi sulle avventure dell’Isola del tesoro. Più in generale, gran parte della concezione moderna del mondo dei pirati viene dalle idee di Stevenson. Uno degli esempi più eclatanti è quello della X sulla mappa ad indicare del tesoro: fu per la prima volta un’idea dello scrittore inglese. Anche la stessa espressione “isola del tesoro”, usata oggi slegatamente al romanzo di Stevenson, venne coniata in modo ufficiale lì. Per continuare, la classica associazione dei pirati a isole tropicali, pappagalli o stampelle (come quella di Long John, con una gamba di legno), nasce grazie al genio creativo di Stevenson.
La storia vede come protagonista James “Jim” Hawkins, ragazzo che vive con la propria famiglia in un villaggio nei pressi di Bristol, nella taverna Ammiraglio Benbow. La vicenda è ambientata a metà del XVIII secolo: un giorno alla locanda giunge un pirata che consegna ai locandieri, i genitori di Jim, una cassa chiusa a chiave da custodire. Egli dichiara di essere un pirata sopravvissuto alle scorribande compiute con il leggendario Capitano Flint, nonché unico depositario del segreto del suo tesoro. Alla sua morte, appena successiva alla morte del padre di James, quest’ultimo con la madre decide di aprire la cassa usando la chiave trovata al collo del pirata: oltre a numerosi dobloni d’oro, ciò che trova è una carta cerata con la mappa del tesoro. Figura importante del romanzo è il dottor Livesey, che aiuta Jim a decifrare la mappa. I due sono gli unici narratori della storia, che dunque ha sempre un narratore interno. Decidono così di rivolgersi al conte, il signor Trelawney, che forma con loro la ciurma per il viaggio verso quest’isola misteriosa; non si accorge di scegliere come cuoco di bordo un temibile pirata che era stato al seguito di Flint: Long John Silver. Questi è intenzionato a impadronirsi della barca, la goletta Hispaniola, e successivamente di tutto il tesoro.
Silver è conosciuto anche con il nome di “cuoco di bordo”, The Sea Cook, nome alternativo con cui era chiamato il romanzo. Il personaggio è molto interessante dal punto di vista psicologico, in quanto vi è in lui una forte ambiguità, ben presentata nel suo rapporto con Jim Hawkins: svolge per lui la funzione non solo di mentore, ma anche di secondo padre. Dopodiché, Jim si rende conto che è il responsabile dell’ammutinamento, e si trova a combatterlo. Silver ha però alcune virtù assenti nei comuni pirati, come l’attenzione per il denaro, e un coraggio notevole a discapito della sua disabilità, che userà per difendere prontamente lo stesso Jim. Fedele compagno del pirata è il suo pappagallo, sempre appollaiato sulla sua spalla, chiamato capitan Flint in onore del suo vecchio compagno d’avventure.
Il tema principale della storia è quello della crescita e del rischio di quella “corruzione”, citata da Bruno, di James. Il giovane ragazzo, pieno di belle speranze è ancora illuso da quella magia naturale tipica della fanciullezza, si ritrova a fare i conti con la morte del padre, da cui iniziano una serie di avventure che lo mettono a dura prova, come l’inganno di Long John che costituisce il più grande trauma nella crescita del ragazzo. Tuttavia, egli è l’esempio di come non per forza l’uomo debba diventare corrotto nella sua fase adulta, tanto che Jim non prova risentimento verso il pirata che gli ha fatto da mentore, anzi si augura che passi il resto dei suoi giorni con serenità: infatti auspica che il vecchio pirata sia tutto sommato riuscito a ritirarsi in un agiato esilio dopo essere fuggito con una parte del tesoro:
O perlomeno è da sperarsi, suppongo, giacché le sue possibilità di agio nell’Aldilà sono piuttosto scarse.
Il romanzo non è dunque solo di avventura, ma anche di formazione, formazione che mette a dura prova il protagonista nel suo percorso di crescita personale e rappresenta metaforicamente l’eterna lotta tra il bene e il male, identificata nello scontro tra il ragazzo e il pirata.
Da due grandi critici italiani il romanzo fu definito in vari modi, che racchiudono i temi dell’opera; per Pitero Citati
Mai un libro fu scritto con ritmo insieme così rapido e così trattenuto, come la corsa dell’Hispaniola verso l’isola invisibile. Ogni parola manda un suono doppio. Viviamo con freschezza e intensità giovanile negli spazi immacolati dell’avventura: nell’assoluta realtà, dove le navi solcano i mari lasciando un segno di spuma nelle onde, dove il sangue versato macchia il suolo, dove si scava la terra per nascondere i tesori. Ma, al tempo stesso, non ci abbandona mai un sottilissimo e delicatissimo profumo di ironia, perché non abitiamo nella realtà ma nello spazio fittizio di un libro nel quale le cose più inverosimili accadono naturalmente; e le navi non lasciano segni nelle onde, il sangue bagna la terra di inchiostro, i tesori non hanno bisogno di luogo.
Invisibile, appunto, l’isola, che lascia spazio all’immaginazione di ogni lettore, che può così costruire l’immagine che più preferisce all’interno della storia, nonostante si sia provato a identificare la terra descritta con Norman island, delle Isole Vergini britanniche, o addirittura con uno degli isolotti dei Queen Street Gardens di Edimburgo, luogo frequente di soggiorno per lo scrittore. Quel che è certo è che Stevenson creò un’opera indelebile e duratura nel tempo, ancora adesso tra le più belle di sempre, come scrisse, in modo più sintetico di Citati, Antonio Tabucchi:
Se devo scegliere un libro, il libro, scelgo senz’altro L’Isola del Tesoro, di Robert Louis Stevenson. Perché è pieno di vento, di immaginazione, di avventura, d’infanzia.
Sitografia
- Giordano Bruno – Wikipedia
- Daniel Defoe – Wikipedia
- J. M. Barrie – Wikipedia
- Robert Louis Stevenson – Wikipedia
- Emilio o dell’educazione – Wikipedia
- Peter Pan nei Giardini di Kensington – Wikipedia
- L’isola del tesoro – Wikipedia
- L’isola del tesoro: recensione e scheda libro – Studentville
- Stevenson, Robert Louis | Sapere.it
- Giordano Bruno: biografia, opere e pensiero | Studenti.it
- Michel de Montaigne: filosofia e pedagogia | Studenti.it
Bibliografia
- Daniel Defoe, a cura di Cavallari, Robinson Crusoe, Milano 5 giugno 2013, Giangiacomo Feltrinelli Editore
- Medaglia e Young, Cornerstone, Torino 2015, Loescher Editore
ARTICOLO DI RICCARDO MOGGIO DELLA CLASSE IV B DEL LICEO CLASSICO
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