La storica tradizione tessile di Biella deve il suo sviluppo alle caratteristiche del territorio: la sua posizione ai piedi delle Alpi favoriva l’allevamento piuttosto che le estese colture agricole, così che l’utilizzo della pelliccia degli ovini per ottenere filati e tessuti si impose sulla zona.
La presenza di molti corsi d’acqua e l’intraprendenza degli abitanti hanno permesso lo sviluppo nel tempo dell’attività tessile di qualità, che da artigiana si è via via evoluta e specializzata fino all’industrializzazione completa. Le prime tracce di produzione tessile rinvenute sono di epoca pre-romana, mentre risalgono all’epoca medievale i primi statuti per regolare l’attività tessile.
Infatti, proprio grazie alle condizioni favorevoli del territorio, la produzione di filati e prodotti tessili si estese presto dalla cerchia familiare allo scambio con altre realtà locali, rendendo necessaria la stipulazione di patti commerciali. Tra il 1275 e il 1419 le singole “arti” hanno adottato i propri statuti definitivi. A quei tempi le attività tessili si suddividevano in tre rami: sartoria (produzione artigianale o industriale di abiti), tessitura ( serie di operazioni (artigianali o industriali) relative alla fabbricazione dei tessuti; hanno essenzialmente lo scopo di produrre la formazione dell’intreccio di una serie di fili paralleli ( ordito ) con un filo continuo ( trama ) secondo un tipo di armatura prestabilita e vengono eseguite per mezzo di telai (a mano o meccanici), e drapperia ( assortimento di drappi e tessuti o anche magazzino per la loro vendita; i tessuti destinati alla confezione di indumenti maschili, giacche e soprabiti).
Della produzione laniera biellese si ha notizia già dagli statuti trecenteschi, mentre della sua organizzazione è noto come, tra ‘500 e ‘700, si articoli in maniera diffusa sul territorio: gli addetti al lanificio lavorano a domicilio materie prime o semilavorati che l’imprenditore ha consegnato e tornerà a ritirare per la finitura e la vendita. Alcune manifatture si organizzano per lavare, cardare e filare la lana in modo da rifornire i telai domestici, o si dedicano alla tintura del prodotto finale. Verso la fine del Settecento sono già 253 le aziende che lavorano la lana nel Biellese, ma dal secondo decennio dell’Ottocento l’introduzione del telaio meccanico innesca un lento processo di innovazione della produzione, destinato a segnare profondamente il territorio con la realizzazione di architetture industriali appositamente progettate e costruite. Nei grandi opifici multipiano degli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento si svolgono o specifiche lavorazioni o lunghi tratti della catena produttiva o, in alcuni casi, il ciclo completo. Allo sviluppo della produzione laniera si accompagna, rilevante nell’economia biellese, quello dell’indotto, innanzitutto officine meccaniche per la riparazione e la produzione di macchine tessili, poi fabbriche di accessori o concerie, per la produzione di cinghie per telai o manicotti per carde. Il quadro dell’economia biellese dell’Ottocento non è tuttavia monoproduttivo: un ruolo importante rivestono maglifici e cappellifici. Questi ultimi producono soprattutto cappelli di feltro e, collocati a Biella e nella zona di Andorno, riscuotono un certo successo nella seconda metà del secolo.
La produzione di maglieria rappresenta tradizionalmente una specializzazione della zona di Pettinengo, Camandona e Callabiana, legate alla lavorazione della lana, ma anche delle fibre vegetali. Nell’Ottocento, grazie anche alle commesse dell’esercito, si diffonde la produzione di articoli di maglieria. Con l’introduzione dei telai meccanici rettilinei e circolari per maglieria, si compie nel settore un vero salto di qualità, evidente soprattutto nei centri di Camandona e di Pettinengo (con il maglificio Bellia Bernardo e Figli) e poi a Biella (con il maglificio Boglietti). Nel 1887 l’industria biellese della maglieria conta 18 stabilimenti, con 126 telai meccanici, 714 telai a mano e un totale di 1.683 operai.
Il Biellese, come accaduto altrove, diventa terra d’industria con l’avvento delle macchine.
La capacità e il coraggio degli imprenditori tessili dell’Ottocento si manifestano anche e soprattutto, specialmente nell’epoca dei pionieri, con gli investimenti nel settore meccano-tessile. Nuove mentalità e (nuove) macchine hanno cambiato il mondo: è la rivoluzione industriale. Il cambiamento ha rivoluzionato anche il Biellese: l’introduzione delle macchine e la concentrazione delle maestranze addette sono causa ed effetto della nascita delle fabbriche e del sistema di fabbrica.
L’evoluzione industriale biellese è, più che altro, una “rivoluzione meccano-tessile”. Il ritardo rispetto ad altre realtà continentali meccanizzate ormai da mezzo secolo fu colmato, non senza resistenze da parte dei lanaioli biellesi colleghi che si vedevano minacciati da una concorrenza sleale, dall’iniziativa personale e solitaria di Pietro Sella.
La grande epopea dell’industrializzazione tessile biellese è indissolubilmente legata alla figura di Pietro Sella e alla sua battaglia per l’introduzione delle macchine, portata avanti in un contesto sociale ed economico ancora fortemente condizionato da vincoli corporativi e da preclusioni governative. Studente presso le “regie scuole” di Biella fino al 1797, poi giovanissimo apprendista nell’azienda laniera di famiglia, Pietro Sella “volle viaggiare e vedere coi propri occhi a qual punto fosse l’industria dei pannilani all’estero”. Nel 1817, Pietro Sella , gerente insieme ai fratelli della ditta Sella di Valle Superiore Mosso e intraprendente conoscitore del mercato tessile nazionale ed europeo, acquistò a Seraing presso Liegi (Belgio) alcuni macchinari fabbricati dai britannici fratelli Cockerill.
Le “meccaniche”, importate nel Biellese, vennero installate, nel 1817, nell’antico “Bator” di Valle Mosso, una cartiera riconvertita alla nuova destinazione d’uso e attrezzata con grandi ruote idrauliche: fu fondato così il “Gian Giacomo e Fratelli Sella”, primo lanificio italiano a lavorazione meccanica. Si trattò di un evento epocale, e – superate le ostilità di operai e fabbricanti – del primo passo verso la rivoluzione industriale in Valle Strona e nel Biellese. Una “rivoluzione” alla quale lo stesso Sella contribuì anche in altro modo, con la creazione nel Biellese della prima officina per la fabbricazione di macchine tessili e, ancora, con la ricerca di nuovi mercati di approvvigionamento di lane pregiate da utilizzare per la fabbricazione di panni fini.
Il tessile è meccano-tessile da sempre. La meccanizzazione delle lavorazioni tessili è antica. Se i telai manuali utilizzati nelle abitazioni dei biellesi medievali sono più correttamente da intendere come utensili che come macchine, i batanderii o le gualchiere , ovvero i folloni, attivi lungo i torrenti (a volte collocati negli stabili adibiti a mulini, ma spesso operanti in edifici indipendenti), erano macchinari veri e propri.
Mossi dalla forza dell’acqua derivata dal Cervo, dall’Elvo, dallo Strona, del Ponzone, del Sessera e quasi da ogni ruscello della zona, quei meccanismi di legno, senza dubbio costruiti in loco, sono la traccia più longeva del meccano-tessile biellese.
Gli albori del meccano-tessile biellese riguardarono la preparazione, la filatura e una parte del finissaggio. Il “finissaggio bagnato” rimase a lungo quello di antica modalità, ossia quella dei folloni a maglio, mentre orditura e tessitura mantennero la dimensione di lavorazione domestica ancora per alcuni decenni. Le macchine che Pietro Sella si procurò erano otto e servivano nello specifico a battere, pelucciare, drossare e cardare la lana, poi a filarla in grosso e in fino e quindi a guernire e cimare i panni.
L’industrializzazione del comparto laniero, dopo i contrasti iniziali, registra un rapido sviluppo, ma tessile e meccanotessile hanno, nel Biellese, tempi di sviluppo differenti. La produzione locale di macchinario non si afferma subito e, salvo casi isolati, gli opifici biellesi dipenderanno a lungo dall’importazione dall’estero di meccanismi e competenze tecniche. Nel 1825 era attiva a Biella l’officina Delorme e Maurin, che potrebbe essere considerata la prima azienda di settore documentata in zona, ma si tratta di un’iniziativa evidentemente straniera.
Reperire, manutenere e riparare le macchine di fabbricazione estera che si andavano concentrando nei lanifici del Biellese comportava difficoltà logistiche e spese gravose. E, spesso, anche gli ordini di macchinari nuovi subivano ritardi dannosi agli imprenditori. Questa situazione, però, invece di stimolare immediatamente la nascita di officine specializzate a Biella o nelle valli, spinse gli industriali a far fronte da soli alle proprie necessità. In occasione della Mostra di Torino del 1838, alcuni lanieri biellesi esposero macchine costruite nei loro stessi lanifici.
Questa tendenza si mantenne viva anche nei decenni successivi. Nel 1850 i fratelli Galoppo di Valle Mosso si improvvisano costruttori per ampliare il proprio lanificio e, ancora prima, Giovanni Cartotto aveva costruito dei “mule jenny” (filatoi meccanici) in legno per il suo opificio della valle di Mosso. Lo stesso Cartotto nel 1855 avviò un’officina di riparazioni, ampliata nel 1870 sotto la gestione di Felice Cartotto.
Mentre il meccano-tessile biellese stentava ad avviarsi, le case costruttrici straniere cominciarono a strutturare in città e sul territorio una rete di rappresentanti che si mantenne e si rafforzò lungo il resto del XIX secolo e oltre. Alcuni esempi sono singolari: Graziano Cappellaro, noto come fotografo col socio Giuseppe Masserano, negli anni ’40 dell’Ottocento era l’agente locale per la ditta Antonio Fetu & De Liege di Liegi, produttrice di carde, mentre qualche lustro dopo Carlo Trossi, poi fondatore della Pettinatura Italiana di Vigliano, si occupava di vendere macchinari per conto della J. Longtain di Verviers.
Il meccano-tessile sviluppatosi spontaneamente nelle fabbriche aveva origine, oltre che dalla necessità di riparare o di modificare le macchine in uso, anche da un principio che caratterizzava le prime esperienze di lavorazione industriale della lana: chi utilizzava determinati macchinari doveva conoscerne il funzionamento e saperli aggiustare. E’ molto probabile che alcuni dei pionieri della meccanica tessile biellese siano stati dapprima o contemporaneamente dei tecnici tessili.
La mancanza di carbon coke, il combustibile fossile utilizzato in Inghilterra a partire dalla fine del ‘700 per azionare le macchine a vapore, impose agli imprenditori biellesi di costruire le fabbriche lungo i torrenti, in località spesso impervie e lontane dai centri abitati. Era possibile così sfruttare i salti d’acqua – quelli naturali, oppure quelli artificiali realizzati con rogge e derivazioni – per mettere in moto, tramite grandi ruote idrauliche, alberi motore verticali che grazie ad apposite trasmissioni trasferivano il movimento ad alberi orizzontali disposti a ogni piano, e di qui infine con l’ausilio di pulegge e di cinghie fino alle diverse macchine operatrici. La fabbrica, costruita intorno ai percorsi del movimento, veniva commisurata anche nelle sue dimensioni alla quantità di energia che poteva essere prodotta e trasferita, senza eccessive perdite dovute ad attriti, sino alle “meccaniche”. Nella seconda metà dell’Ottocento, a fronte di una sempre più massiccia meccanizzazione delle diverse fasi di lavorazione, gli industriali biellesi iniziarono a ricorrere, nei momenti di magra dei torrenti, alla forza motrice generata dalla macchina a vapore. Questa forma di energia venne tuttavia utilizzata in funzione ausiliaria: per quanto infatti il costo del carbon coke fosse diminuito, con il miglioramento dei mezzi di trasporto, esso era comunque ancora piuttosto rilevante.
Alle soglie del Novecento l’introduzione dell’energia elettrica consentì di svincolare gli stabilimenti dalla vicinanza ai corsi d’acqua. Se alcuni industriali scelsero di restare nei luoghi d’origine e di convertire all’uso dell’energia elettrica gli impianti esistenti (l’acqua continuava a essere un bene prezioso per lo svolgimento di alcune fasi del ciclo di lavorazione), altri decisero invece di spostarsi in aree meglio servite da strade e ferrovie, realizzando grandi complessi a sviluppo orizzontale più idonei a garantire stabilità al macchinario e a limitare i danni in caso di incendio.
In seguito all’avvio del processo di industrializzazione (1816), grandi e severi opifici pluripiano di tipo “manchesteriano” avevano iniziato a sorgere spesso sul luogo di più antichi mulini, cartiere o setifici, riadattati e ampliati nelle loro strutture. L’adozione del modello “manchesteriano”, impiegato nel Biellese con un ritardo di diversi decenni rispetto a quanto si era verificato in Inghilterra, era dettata tuttavia dalle medesime esigenze tecniche e produttive, riassumibili nella distribuzione in verticale dei sistemi di trasmissione dell’energia idraulica e nella necessità di ampi spazi interni indivisi in cui insediare le diverse fasi della produzione: preparazione e pettinatura della lana ai piani inferiori, filatura e tessitura ai piani superiori. Nella fabbrica alta biellese caratteri tipologici ricorrenti si accompagnavano all’assenza pressoché totale di qualsiasi ricercatezza figurativa e al ricorso a materiali tipici dell’edilizia rurale locale: pietra, legno, laterizio, solo in un secondo tempo integrati dall’impiego di componenti metallici e dal calcestruzzo armato. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento l’edificio alto iniziò ad essere affiancato da capannoni a un piano, talvolta a due o più piani verso il torrente, ad ospitare i magazzini e i locali destinati alle caldaie e al deposito del carbone, fiancheggiati dalle ciminiere. In seguito, con l’introduzione dell’energia elettrica, molte industrie si rilocalizzarono in aree di fondovalle o di pianura meglio servite dalle vie di comunicazione, costruendo nuovi stabilimenti a shed, capaci di garantire un’illuminazione uniforme dei grandi saloni di lavorazione e spesso contraddistinti da una maggiore attenzione al trattamento dei prospetti esterni e ai loro caratteri di decoro.
Sino al Sette e Ottocento, nelle vallate biellesi la lavorazione della lana rivestì per le famiglie contadine un ruolo fondamentale per integrare i magri proventi derivanti dall’agricoltura. Il passaggio degli artigiani lanieri a domicilio da questa condizione, dura ma sostanzialmente autonoma, a una situazione di dipendenza dai ritmi e dalle logiche del lavoro industriale, fu un processo lungo e tutt’altro che lineare, che comportò un mutamento sociale e culturale di ampia portata. Prima ad essere accentrata in fabbrica e meccanizzata, in seguito all’introduzione delle “meccaniche” nel Biellese (1817), fu la filatura: pur espropriando la famiglia contadina di una fase importante della lavorazione della lana, appannaggio tradizionale delle donne (le filere), questa innovazione venne accolta e “assorbita” senza determinare forti proteste. Quando intorno alla metà del secolo, per migliorare la qualità delle stoffe prodotte, gli industriali biellesi puntarono ad accentrare in fabbrica anche le operazioni di tessitura, molti artigiani acconsentirono a trasferirsi negli opifici – dove il loro lavoro continuò in quegli anni, per lo più, a essere svolto con i tradizionali telai a mano – ma rifiutarono di adeguarsi alle richieste di stabilità lavorativa avanzate dagli industriali e formalizzate nei cosiddetti “regolamenti di fabbrica”. Quelle richieste, infatti, mal si conciliavano con l’esigenza di dedicare parte del tempo alla coltivazione della terra, importante fonte di sussistenza per la famiglia del tessitore. Fu proprio in difesa di una loro autonomia dal sistema di fabbrica che i lavoranti, organizzati in società di mutuo soccorso, diedero vita negli anni ’60 e ’70 a una lunga serie di scioperi. La risposta degli industriali fu, negli anni successivi, l’introduzione su vasta scala del telaio meccanico: pur comportando grossi investimenti, questa scelta infatti consentì loro di abolire i reparti di tessitura a mano, costringendo gli operai ad accettare ritmi e modalità di lavoro del “regime” di fabbrica. Un lungo ciclo si era ormai chiuso, un altro si stava aprendo. Quando nel 1889 il conflitto sociale si riaccese, le rivendicazioni operaie puntarono piuttosto ad ottenere aumenti salariali, una diminuzione dell’orario e un complessivo miglioramento delle condizioni di lavoro. Era questa fra l’altro la strada per riaffermare la dignità di un “mestiere” che, seppure profondamente mutato, aveva forti radici nella storia e nell’identità della popolazione biellese.
Alla figura dell’artigiano dedito alla lavorazione della lana, che filava e tesseva per l’autoconsumo e un limitato smercio locale, si affiancò nelle vallate biellesi – fra Sei e Settecento – la figura del “mercante-imprenditore”. Forte di un patrimonio di terre e di capi di bestiame che gli garantiva una certa ricchezza addizionale, il “mercante-imprenditore” acquistava lane grezze sulle piazze di Borgosesia o del più lontano Bergamasco e le affidava alla trasformazione degli artigiani, per poi rilevare le pezze lavorate, farle rifinire tramite la follatura e smerciarle infine sui ricchi mercati urbani. Talvolta, assumendo le vesti del “fabbricante”, i mercanti-imprenditori accentrarono alcune fasi del ciclo produttivo laniero – cernita e lavaggio delle lane, ordito, tintura e finissaggio – in laboratori predisposti all’interno delle proprie abitazioni, trasformate così in vere e proprie case-opificio. La svolta dal sistema manifatturiero al sistema industriale si avviò nel 1817 per iniziativa di Pietro Sella. Superate rivalità e diffidenze, altri manifatturieri biellesi – ad esempio i Piacenza, gli Ambrosetti e i Vercellone, da generazioni impegnati nella produzione e nel commercio delle stoffe – imboccarono ben presto la stessa strada, raccogliendo la sfida dell’innovazione tecnologica e della riorganizzazione produttiva. Una mentalità aperta, un interesse non solo per l’impresa laniera ma anche per altre forme di investimento, fecero di alcuni membri di queste famiglie, oltre che industriali affermati, l’ossatura della classe dirigente biellese, con figure di primo piano nella politica nazionale, nelle scienze e nelle arti. Accanto all'”aristocrazia laniera” di provenienza manifatturiera emersero, nella seconda metà dell’Ottocento, imprenditori come i Rivetti, i Botto, i Bertotto e molti altri che, veri pionieri, partiti come semplici operai nelle prime fabbriche dell’epoca, grazie ad una dedizione costante al lavoro e continui risparmi costruirono, nel giro di qualche decennio, veri e propri imperi industriali.
Oggi, quello di Biella è l’unico distretto in Europa ad aver mantenuto integra l’intera filiera produttiva del tessile. Le produzioni principali sono relative all’abbigliamento da uomo e da donna, oltre ai filati per tessitura e maglieria e tutto ciò che concerne la filiera tessile laniera.
Attualmente la produzione avviene totalmente attraverso macchinari meccanotessili ad alta automazione. La manodopera specializzata, il know-how sviluppato dai lavoratori biellesi nel settore, tuttavia, è una componente fondamentale per l’ottenimento della qualità finale dei prodotti.
Si tratta di conoscenze stratificate nel tempo che non è facile “trapiantare” in altri luoghi; non a caso, il distretto tessile Biellese è stato lungamente studiato negli anni ’80 e ’90 per cercare di comprenderne la ricetta di successo, ma nessuno è mai riuscito a ricreare altrove l’eccellenza raggiunta in questo territorio.
SITOLOGIA:
https://www.docbi.it/modules/smartsection/item.php?itemid=39
https://www.archivitessili.biella.it/le-macchine/
https://artsandculture.google.com/exhibit/il-tessile-biellese/gQHHvQ4V?hl=it
https://www.lofficielitalia.com/moda/tessile-biellese-storia-aziende
https://issuu.com/marta.barducchi/docs/della-stessa-lana-versione-finale-c
ARTICOLO DI CAMILLA CHIAVERINA DELLA CLASSE III B DEL LICEO CLASSICO
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