«Prova di disegno insufficiente. Non ammesso»: questo fu il laconico giudizio con cui l’Accademia di Belle Arti di Vienna respinse il diciottenne aspirante allievo Adolf Hitler nel 1907.
Nondimeno, negli anni a venire le opere di questo artista autodidatta trovarono un certo apprezzamento fra i viennesi.
A partire dal 1910, infatti, Hitler si guadagnò da vivere dipingendo. Dapprima produsse cartoline che vendeva con l’aiuto di Reinhold Hanisch, un vagabondo conosciuto in un dormitorio. Le cartoline vendevano abbastanza bene, ma Hitler era un lavoratore discontinuo e perciò riusciva appena a sbarcare il lunario.
Nel 1911, Hitler si sbarazzò di Hanisch e prese a dipingere opere più impegnative che vendeva attraverso due canali: i corniciai, che per consuetudine offrivano i loro articoli completi di pitture, e certi mobilieri che producevano divani, all’epoca molto in voga, con un dipinto inserito nello schienale imbottito. Hitler rifornì regolarmente di quadri questi artigiani fino al 1913, quando si trasferì a Monaco per sottrarsi al servizio militare nell’Esercito austriaco. Nella capitale bavarese Hitler vendette i suoi dipinti da sé, girando di casa in casa, e si specializzò in riproduzioni dell’Ufficio di Stato Civile che offriva come souvenir alle coppie di sposi novelli all’uscita dell’edificio. Allo scoppio della guerra, Hitler si arruolò nell’Esercito tedesco, ma continuò a disegnare e a dipingere anche al fronte, immortalando desolate immagini di guerra.
Tuttavia non fu influenzato, dalle correnti artistiche rivoluzionarie affermatesi all’inizio del ventesimo secolo, e il suo stile pittorico fu rigidamente conservativo. Essendo particolarmente interessato all’architettura, si specializzò in paesaggi urbani, spesso copiati da fotografie e figure.
(tratto dalla collana «IL TERZO REICH»)
(…) Una malattia mi venne improvvisamente in aiuto, la quale decise in poche settimane del mio avvenire e pose fine al lungo conflitto. Una grave affezione polmonare consigliò a un medico di proporre a mia madre di non lasciarmi mai, a nessun patto, far vita d’ufficio. Per le stesse ragioni, la frequentazione della scuola tecnica doveva venir sospesa almeno per un anno. Ciò che avevo desiderato in silenzio per tanto tempo, ciò per cui mi ero sempre battuto, s’era fatto ora realtà, improvvisamente, quasi da sé.
Sotto l’impressione della mia malattia, mia madre accettò di togliermi più tardi dalla scuola tecnica, e di lasciarmi frequentare l’Accademia.
Son questi i miei giorni più fortunati, che mi appaiono oggi come un mirabile sogno; e non fu, difatti, che un sogno. Due anni più tardi, la morte di mia madre segnò la fine improvvisa di quei bei piani.
La sua morte fu la conclusione d’una lunga e dolorosa malattia, che fin dall’inizio non aveva dato adito a speranze di guarigione. Pure, quel colpo mi abbattè terribilmente. Io avevo onorato mio padre, ma amavo mia madre.
La necessità, una dura realtà, mi costrinsero a prendere una rapida decisione. Il mediocre asse paterno era stato in gran parte consumato per la malattia di mia madre; la pensione da orfano, che mi spettava, non bastava a farmi vivere; mi toccava dunque, in un modo o nell’altro, guadagnarmi il pane.
Con una valigia piena di vestiti e di biancheria, con un’indomita volontà nel cuore, partii per Vienna. Ciò che era riuscito a mio padre 50 anni prima, speravo anch’io di poterlo strappare dal destino ; anch’io volevo diventare qualcuno, certo — ma a nessun costo un impiegato !
Come mia madre morì, il destino aveva in certo senso già presa la sua decisione.
Già durante gli ultimi mesi della sua malattia, io ero andato a Vienna a sostenervi gli esami di ammissione in quella Accademia. Armato di un grosso rotolo di disegni, mi ero accinto al gran viaggio, convinto di poter sostenere facilmente tale esame, quasi giuocando. Alla scuola tecnica io ero di gran lunga il miglior disegnatore della mia classe, e da allora la mia abilità si era enormemente perfezionata, talché ne andavo orgoglioso, e speravo nel meglio.
Una sola ombra al quadro: il mio talento pittorico sembrava sorpassato da quello pel disegno, specialmente per ciò che riguardava l’architettura. In compenso, il mio interesse per l’architettura ne riusciva aumentato;
e anche stimolato, da quando avevo potuto, e non avevo ancora sedici anni, recarmi per la prima volta a Vienna per due settimane. Vi ero andato per visitare la Galleria di quadri del museo di Corte, ma la mia attenzione si era rivolta quasi esclusivamente al museo stesso. Dalla mattina presto fino a notte io correvo da un museo all’altro, ma eran quasi sempre i palazzi che mi attiravano a tutta prima. Ero capace di passare delle ore davanti all’Opera o davanti al Parlamento; e il Ring agiva su di me come un incantamento delle Mille e una Notte.
Adesso mi trovavo per la seconda volta nella bella città, e aspettavo con focosa impazienza il risultato del mio esame. Ero talmente convinto del successo, che la bocciatura mi colpì come un fulmine a ciel sereno. Ma era proprio così. Come mi presentai al Rettore e gli chiesi di chiarirmi i motivi della mia bocciatura, quel signore mi assicurò che dai disegni che avevo presentato risultava con ogni evidenza che non ero assolutamente adatto a fare il pittore, ma che il mio talento mi portava piuttosto verso il campo dell’architettura ; non c’era per me altra prospettiva che la scuola di architettura dell’Accademia stessa; ma in nessun caso quella di pittura. E gli riuscì naturalmente incomprensibile che io non avessi mai frequentato dei corsi d’architettura…
Completamente abbattuto, abbandonai il bel palazzo di Piazza Schiller; per la prima volta, in vita mia, in disaccordo con me stesso. Ciò che io avevo udito a proposito delle mie capacità mi parve gettare improvvisamente una luce cruda su un contrasto interno, a cagion del quale io avevo a lungo sofferto, senza riuscire a farmene una chiara ragione. Ma in pochi giorni intuii che la mia vocazione era appunto l’architettura.
Certo, questa nuova via era molto difficile, poiché proprio ciò che per dispetto io avevo trascurato alla scuola tecnica, mi si faceva ora necessario. L’ammissione nella scuola d’architettura presupponeva la licenza della sezione architettonica della scuola tecnica; ma l’entrata in questa esigeva la licenza di una scuola media. Tutto ciò mi mancava completamente. A viste umane, l’adempimento del mio bel sogno d’arte non era più possibile.
Quando poi, dopo la morte di mia madre, giunsi a Vienna per la terza volta, e stavolta coll’intenzione di starci molti anni, calma e decisione avevan seguito a quel grave colpo. E mi era tornata quella mia caparbietà infantile; e davanti ai miei occhi stava ormai definito il mio scopo. Volevo diventare architetto, e rifiutavo di ammettere ostacoli, davanti ai quali dovessi capitolare. Tali ostacoli io li avrei spezzati, avendo sempre davanti agli occhi l’immagine di mio padre, che da povero ragazzo di villaggio era riuscito a diventare impiegato di Stato. La mia situazione mi appariva migliore della sua, il terreno di lotta più favorevole; e ciò che allora mi sembrò durezza di destino, lo apprezzo oggi come saviezza provvidenziale. Ogni volta che la dea necessità mi prese nelle sue braccia e minacciò di stritolarmi, crebbe del pari la mia volontà di resistenza, e la mia volontà seppe vincere.
E’ proprio questo che io devo a quel tempo; di esser diventato duro, di saper essere duro. E ancor più io ringrazio il bisogno, perché mi strappò dalla vacuità di una esistenza tranquilla, dalle braccia della mamma, e fece della nera cura la mia nuova madre, gettandomi nel mondo della povertà, della miseria, e portandomi a contatto delle cose, per le quali più tardi io dovevo lottare…
In quel tempo gli occhi mi si aprirono in faccia a due pericoli che fino allora non avevo conosciuto neanche di nome, e di cui ad ogni modo non capivo la spaventevole importanza per l’esistenza del popolo tedesco: marxismo e semitismo.
Vienna, la città che a molti sembra l’ideale della gioia innocente, la residenza di gente felice, rappresenta per me il ricordo vivente del tempo più triste della mia vita.
Ancora oggi questa città risveglia in me soltanto grigi pensieri. Il suo nome solo evoca, per me, cinque anni di miseria e di desolazione. Cinque anni durante i quali dovetti guadagnarmi il pane come operaio avventizio e più tardi come misero pittore: un pane scarso, che non bastava mai a sfamarmi. La fame fu in quel tempo la mia fedele compagna, che non mi abbandonò mai, che divise con me ogni cosa. Ogni libro che compravo premetteva la sua collaborazione; una serata all’Opera le conferiva il diritto di tenermi poi compagnia per parecchi giorni; la mia esistenza era una lotta continua con questa mia spietata amica. Eppure, proprio in quegli anni, ho imparato più cose che mai prima di allora. Oltre all’architettura, oltre a qualche serata all’Opera, pagata con una economia all’osso, la mia unica gioia erano i libri.
Io lessi, in quel periodo, enormemente, e anche profondamente. Il tempo libero dal lavoro lo passavo studiando. E in pochi anni raccolsi il capitale di scienza, di cui vivo tuttora. Ma c’è di più.
In quel tempo si formò in me una visione del mondo e della vita, che è diventata il fondamento granitico della mia attività odierna. Nè mi toccò di aggiunger poi gran cosa a quello che avevo accumulato allora; nè mai dovetti mutarne anche una briciola. Al contrario.
Io credo oggi fermamente che i pensieri creatori ci appaiono già nella giovinezza, fin dove naturalmente un uomo ne possieda. Io distinguo la saviezza dell’età matura, che non è se non prudenza e assennatezza, quale risultato dell’esperienza di una lunga vita, dalla genialità della gioventù, che suscita inesauribilmente pensieri e idee, senza che neppure si possano elaborare, proprio a cagione della loro abbondanza. Essa ci fornisce i materiali, i piani d’avvenire, da cui l’età più saggia ricava le pietre e costruisce la casa; e ciò nella misura secondo cui la saviezza dell’età matura non ha soffocato la genialità giovanile.
La vita che avevo condotta nella casa paterna, non si distingueva da quella dell’altra gente. Io potevo aspettare allora il nuovo giorno senza ansia alcuna, nè esisteva per me un problema sociale. Le amicizie della mia gioventù venivano dalla cerchia della piccola borghesia, cioè da un mondo che non ha quasi rapporti coll’operaio manuale. Per quanto bizzarra la cosa possa apparire a prima vista, sta di fatto che l’abisso tra quella classe, tutt’altro che economicamente pròspera, e l’operaio della mano, è molto più profondo di quanto si creda. La causa di tale inimicizia sta nella paura di una categoria sociale, la quale da troppo poco tempo si è elevata sul livello proletario, di ricascarci o di essere ancora considerata come tale. A ciò si aggiunga il ricordo amaro della miseria intellettuale della massa operaia, la volgarità dei rapporti che vi regnano, per cui la propria posizione, per mediocre che sia, fa apparire come una insopportabile molestia l’idea di un qualsiasi contatto con quello stadio sorpassato di cultura e di vita.
Così avviene che è più facile a colui che sta in alto scendere incontro al suo più lontano collega in umanità, di quanto la cosa non riesca possibile ai nuovissimi arrivati alla borghesia.
Arrivato è appunto colui che per forza propria è riuscito ad alzarsi dal suo gradino di partenza ad uno superiore. Ma accade spesso che questa dura battaglia spenga in lui qualsiasi luce di compassione. La dura e dolorosa lotta per resistenza uccide ogni pietà per la miseria di coloro che son rimasti in basso. Da questo punto di vista, il destino mi fu clemente. In quanto mi obbligò a rituffarmi nel mondo della povertà e dell’incertezza, che mio padre invece aveva abbandonato nel corso della sua carriera, esso mi tolse i paraocchi della gretta educazione piccolo borghese. Allora finalmente imparai a conoscere gli uomini, a distinguere la sostanza intima dalle mere apparenze o dalle esteriorità brutali.
Da: Adolf Hitler «LA MIA VITA»
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