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La Guerra Civile spagnola si presta a molteplici interpretazioni, a seconda del punto di vista dal quale la si osserva. Come conflitto interno, rappresenta l’apice dello scontro tra una Spagna conservatrice, reazionaria e cattolica e una Spagna progressista, laica e democratica. Scontro che non è terminato con il conflitto del ’36-’39, ma che continua ancora oggi tra i banchi delle Cortes; come conflitto internazionale, rappresenta il primo atto della guerra tra fascismo e antifascismo che vedrà il suo culmine nella II Guerra Mondiale, quando ormai, complice la neutralità di Inghilterra e Francia, Franco governava indisturbato.
Vi è poi un terzo punto di vista, sintesi dei due precedenti, che intuisce nelle divisioni interne del popolo spagnolo il microcosmo dei conflitti a livello mondiale che si sarebbero scatenati subito dopo. Questa è la prospettiva adottata da Ernest Hemingway in Per chi suona la campana.
Robert Jordan, il protagonista del romanzo, è un volontario americano delle Brigate Internazionali – unico vero supporto straniero all’esercito repubblicano spagnolo -, che ha l’ordine di far saltare un ponte in concomitanza di un attacco lealista sul fronte segoviano. La vicenda dura in tutto pochissimi giorni, dal momento in cui il dinamitardo riceve l’ordine fino a poco dopo il suo compimento, ma in questo lasso di tempo Hemingway riesce a racchiudere un intero conflitto e tutto il dramma umano che comporta.
Robert si reca nella sierra, dove potrà contare sull’appoggio di un gruppo di guerilleros comandati da Pablo, un vecchio repubblicano dai modi rudi e dalla forte insicurezza; accanto a lui, Pilar, la sua donna nonché vera anima della banda, e una serie di gitanos tra cui il vecchio Anselmo e la giovane María, di cui Robert si innamorerà contro ogni previsione.
Sullo sfondo del conflitto spagnolo, Hemingway lascia ampio spazio ai pensieri, del protagonista e non solo: Robert si sofferma sul senso di una guerra fratricida e sul senso della guerra in generale; a farlo ulteriormente riflettere c’è poi Anselmo, il vecchio contadino repubblicano e filocomunista, che non ha mai smesso di pregare e non riesce a trovare un senso logico nell’uccidere un uomo solo perché fascista.
“Li ho sorvegliati tutto il giorno, e sono uomini come noi. Potrei andare alla segheria e bussare alla porta e mi accoglierebbero cordialmente, credo, se non avessero l’ordine di fermare tutti i passanti e di esaminare i loro documenti. Gli ordini soltanto ci dividono. Quegli uomini non sono fascisti: io li chiamo così, ma non lo sono. Sono poveri diavoli come noi”.
Questa riflessione espressa dal personaggio di Anselmo apre le porte alla constatazione che, in una guerra, è impossibile dividere, con le dovute eccezioni, il bene dal male, chi ha ragione da chi ha torto in maniera netta e decisa, a meno che non si assuma il punto di vista di una delle due parti. In un’epoca in cui si era fermamente convinti che il buono era il repubblicano e il cattivo il fascista, Hemingway affida la narrazione di un massacro ai danni di una cittadina filofascista a Pilar. Il risultato è sorprendente: il flash-back della donna riporta alla luce una delle tante pagine oscure della guerra civile, la violenza e l’orrore si impadroniscono della narrazione, lo sgomento del lettore è lo stesso che assale Robert Jordan:
“Ma quando il fatto accade tu sei sempre lontano. I partigiani fanno il danno e tagliano la corda. I contadini rimangono sul posto e pagano. Il resto”, pensò Robert Jordan “l’ho sempre saputo. Quello che abbiamo fatto ai fascisti in principio. L’ho sempre saputo e mi faceva schifo, e ne ho sentito parlare, spudoratamente, vergognosamente; vantarsene, difenderlo spiegarlo e negarlo. Ma quella maledetta donna me l’ha fatto vedere, come se ci fossi stato”
Il potere di una narrazione raggiunge livelli di autenticità dai quali la cronaca pura è inevitabilmente esclusa e Hemingway/Jordan ne è perfettamente consapevole; per questo si rammarica del fatto che Pilar non sappia scrivere: “Dio mio come racconta! È più brava di Quevedo”.
Cosa sia la guerra, quella che si combatte fuori dagli alti comandi e dai libri di storia, il lettore lo capisce quando i fascisti attaccano la montagna su cui ripara la banda di El Sordo. Il massacro si compie, inutilmente, a combattimento finito quando il comandante ordina di tagliare la testa a tutti i repubblicani morti: trofei e prova tangibile di aver eseguito gli ordini. Ma bisogna fare attenzione a non confondere lo sgomento e la rabbia per queste stragi con un pacifismo utile a non schierarsi. Hemingway/Jordan difende la Repubblica perché è l’unica forma di governo democratico possibile; quello che provoca indignazione è la gratuità di una violenza inaudita e non documentata. E se pensiamo a chi dava gli ordini, sembra dirci Hemingway, la guerra vera era tra comunisti e fascisti, tra due forme totalitarie ed estremiste. Con il mondo democratico a godersi lo spettacolo in prima fila.
Per chi suona la campana è uno dei pochi romanzi sulla guerra civile spagnola che coglie nel segno il dramma di un popolo che aveva iniziato a combattere per un’idea di nazione e aveva finito per essere coinvolto nelle trame della politica internazionale del tempo.
Un ultimo appunto sull’edizione attualmente in commercio di Per chi suona la campana. La traduzione è di Maria Napolitano Martone: ottima per l’epoca in cui fu pubblicato per la prima volta in Italia, 1945, ma per il 2012, forse, sarebbe opportuna una revisione. La lingua italiana negli ultimi decenni ha subito molti cambiamenti e parole allora innocue oggi hanno una connotazione negativa o altro significato. E’ il caso, ad esempio, del sostantivo zingari, utilizzato per indicare i gitanos spagnoli; per quanto sinonimi, oggi i due vocaboli hanno connotazioni diverse: gitano indica più propriamente un gruppo nomade, spesso di origine andalusa, che vive nelle grotte ricavate tra i monti, dando note e parole ad un’espressione musicale tra le più struggenti al mondo, il flamenco.
La banda di Pablo è per l’appunto una banda di gitanos. E del mondo gitano ne cantava il mito Federico García Lorca nel suo Romancero gitano. Zingaro, invece, per quanto si voglia essere politically correct, ha assunto ormai una connotazione negativa, rimandando per lo più a spiacevoli episodi aventi come protagonisti persone di etnia ROM. Per il lettore italiano inesperto di cose ispaniche, ma avvezzo ai recenti fatti di cronaca, sarebbe quindi facile fraintendere.
Per questo le traduzioni vanno riviste, corrette e riscritte continuamente. Si fa con i grandi classici della letteratura antica e moderna, non c’è motivo per non farlo anche con quelli della letteratura contemporanea, come per l’appunto Per chi suona la campana.
a cura di Alessio Piras
Per coloro che vogliono effettuare una ricerca approfondita sulla figura letteraria e umana di Ernest Hemingway, la Biblioteca John F. Kennedy di Boston è una tappa obbligata; lì vi sono contenuti alcuni fra i cimeli più preziosi rimasti tuttora in circolazione, testimonianze fondamentali della vita quotidiana dell’artista, come alcuni manoscritti originali oppure come la sua corrispondenza con la famiglia, gli amici e i colleghi scrittori. Entrando è inoltre difficile non notare gli artefatti che ornano la camera dedicata, come una testa di antilope impagliata, bottino di un safari del 1933, oppure un autentico tappeto di pelle di leone, tutti oggetti originali di proprietà dello stesso Hemingway.
Anche se non è così evidente come un trofeo di caccia, vi è tuttavia un oggetto esposto in grado di suscitare un enorme interesse sia storico che letterario: è una scheggia proveniente dal campo di battaglia in cui Hemingway rimase ferito durante la Prima Guerra Mondiale; è inquietante pensare come se, in quella fatidica notte fra l’8 e il 9 luglio, quell’attacco di mortaio fosse andato a buon fine il mondo non avrebbe mai conosciuto uno dei più grandi scrittori del XX secolo. Al contrario, però, se Hemingway non fosse rimasto ferito in quel frangente, non sarebbe mai stato trasferito all’Ospedale della Croce Rossa americana a Milano e, conseguentemente, non si sarebbe mai innamorato della bella infermiera Agnes Von Kurowsky, protagonista della storia d’amore che avrebbe ispirato ‘Addio alle armi’, uno dei romanzi di guerra più letti dell’ultimo secolo.
Hemingway conservò gelosamente quella scheggia di metallo, memoria della sua avventura bellica, insieme ad un altro piccolo gruppo di “reliquie”, tra cui un anello con un frammento di proiettile incastonato e una piccola borsa di pelle. Allo stesso modo, Hemingway serbò nel suo cuore la conoscenza maturata nelle battaglie a cui prese parte e dimostrò per tutta la sua vita un vivo interesse per l’esperienza della guerra e i suoi effetti su coloro che se ne trovano loro malgrado a farne parte.
Nessuno scrittore americano del XX secolo è più associato alla narrazione della guerra di Ernest Hemingway; egli, a differenza di molti altri, la sperimentò in prima persona, sia come cadetto che come giornalista, scrivendo innumerevoli dispacci dalla prima linea e usando la guerra stessa come sfondo per molte sue opere memorabili. Ma, fra tutti i conflitti a cui prese parte, probabilmente quello che segnò più profondamente la sua anima e la sua attività letteraria fu la Guerra Civile Spagnola, combattuta dal 1936 al 1939 fra i Nacionales e i Republicanos, che Hemingway visse nei panni di inviato speciale.
Ai tempi della guerra civile, Hemingway aveva già maturato una duratura relazione d’amore con la Spagna e il suo popolo. Aveva visto la sua prima corrida all’inizio degli anni ’20 e la sua esperienza al festival di Pamplona era già confluita nel romanzo ‘Fiesta (Il sole sorgerà ancora)’. Quindi non sorprende che, nel momento in cui il fascismo iniziò a diffondersi per tutta Europa, Hemingway dedicò particolare interesse a cosa questo comportò in Spagna.
Il primo incontro fra Ernest Hemingway e il fascismo avvenne nel 1920, quando fu incaricato di intervistare Benito Mussolini, che successivamente descrisse come «il più grande bluff in Europa». Anche se all’epoca Mussolini era perlopiù accreditato come il salvatore della patria Italia, Hemingway lo aveva già inquadrato nella figura del brutale dittatore che poi sarebbe diventato.
Nel frattempo, in Spagna, Francisco Franco, con il sostegno di Germania e Italia, usava le proprie forze nazionaliste per promuovere una rivolta contro il governo democraticamente eletto e i sostenitori della Repubblica. Quando scoppiò la guerra civile in seguito all’Alzamiento, Hemingway tornò in Spagna come corrispondente per il North American Newspaper Alliance, insieme alla collega giornalista Martha Gellhorn, che sarebbe poi diventata sua moglie.
La cronaca di guerra redatta da Hemingway fu criticata per essere fortemente anti-franchista e, quindi, non obiettiva. In realtà, Hemingway, come spiegò nel 1951 in una lettera a Carlos Baker, sentiva di non parteggiare per nessun partito in particolare, sebbene avesse maturato uno spiccato interesse e amore per la Repubblica fin dalla sua proclamazione. Tuttavia, in Spagna aveva amici anche dall’altra parte, perciò tentò di scrivere anche dal loro punto di vista e di documentare le barbarie compiute dai repubblicani ribelli, certo non meno condannabili di quelle fatte dai nazionalisti.
La straordinaria esperienza vissuta da Ernest Hemingway nella campagna spagnola, inevitabilmente, era destinata a confluire in un libro. E’ così che, fra il marzo 1939 e il luglio 1940, in un hotel cubano, venne alla luce ‘Per chi suona la campana’, quello che è ancora oggi considerato il documento più commovente mai stato scritto sulla Guerra Civile Spagnola e fra i primi e più importanti romanzi redatti riguardo agli avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale.
In ‘Per chi suona la campana’ c’è tutto: vi è la guerra, la violenza, le armi(e, sì, anche un po’ di corrida!), una storia d’amore appassionata, una grande avventura, suspense, folklore, poesia pura e crudissime descrizioni delle oscenità compiute dagli spagnoli, ma anche un po’ di lezioni politiche sul comunismo, il fascismo e la rivoluzione. A tutto questo si aggiunga un intenso dramma psicologico, vissuto sia all’interno del protagonista, Robert Jordan, che nelle sue interazioni con gli altri personaggi, e la descrizione dettagliatissima della gloriosa campagna spagnola.
La storia dipinta da Hemingway è a dir poco superlativa: sangue, lussuria, avventura, volgarità, commedia e tragedia, si mescolano tutte insieme per dar vita al romanzo quasi perfetto; la lussuria e il desiderio d’avventura di Robert Jordan, infatti, sono destinate ad essere presto soffocate nel sangue, mentre la commedia, come in molti altri romanzi di Hemingway, costituisce un tutt’uno con la volgarità, la caratteristica distintiva che marchia a fuoco il mondo contadino e indigeno. La tragedia, inoltre, incombe su tutta la narrazione come una presenza soffocante, incarnata nel suono funebre di una campana che ha iniziato a rintoccare a Madrid nel 1936 e che è udibile distintamente ancora oggi.
‘Per chi suona la campana’ è ambientato nel maggio 1937, tra le montagne e le colline del centro-nord della Spagna, vicino alla città di Segovia. Il 1937 era il secondo anno di guerra civile, periodo in cui i Franco nazionalisti avevano mostrato di saper ottenere il sopravvento, grazie a numerose vittorie militari e al crescente supporto aereo della Germania nazista. La maggior parte dei combattimenti si concentrava appunto in questa zona settentrionale della Spagna e Segovia stessa era stata presa dai fascisti nel 1936. Il confine con la Spagna repubblicana, tuttavia, non era molto lontano, poiché i repubblicani erano stati in grado di mantenere il controllo di Madrid, a meno di 60 miglia di distanza.
Presso Segovia, nel maggio 1937, i repubblicani intentarono un attacco contro le forze fasciste, destinato al fallimento; gli analisti storici del libro suggeriscono che sia questo l’evento che ispirò Hemingway a scrivere la propria storia. Tuttavia, ciò che è bene tenere a mente, è che l’approccio con cui lo stesso Hemingway dichiarerà di aver scritto il libro fu quello di basarsi inizialmente sulla realtà geografica e storica dell’epoca, salvo poi affidarsi alla fantasia letteraria.
L’azione dell’intero romanzo ruota attorno a un ponte d’acciaio che attraversa una gola su una montagna nel territorio fascista. Oltre il ponte corre una strada, un’importante linea d’alimentazione fascista, mentre accanto ad esso scorre un corso d’acqua, in cui confluisce il torrente sopra il quale il ponte è stato costruito.
I repubblicani del romanzo, quindi, progettano un attacco da est, in modo da interrompere un’importante via strategica dei propri nemici. Compito del protagonista, Robert Jordan, è dunque quello di far saltare in aria il ponte sfruttando le proprie doti da esperto dinamitardo, in modo da aprire un importante varco per i repubblicani. E’ così che, all’inizio del racconto, lo vediamo incamminarsi verso le montagne dove, riparati da grotte naturali, si nascondono i guerriglieri locali, fra cui la banda di Pablo, della quale deve conquistare la fiducia e l’appoggio per compiere la sua missione.
Avvalendosi dell’episodio del ponte, Hemingway sviluppa una complessa riflessione su tutto il corso della guerra in Spagna, mostrando l’intreccio di elementi che in essa sono impegnati ed esponendo gli avvenimenti in una prospettiva molto più ampia dell’emergenza del momento.
Il narratore di ‘Per chi suona la campana’ ha la voce della mente, in grado di dimorare nella testa di un solo personaggio alla volta; è per questo che, per la stragrande maggioranza del tempo, il nostro punto di vista corrisponderà a quello del protagonista, Robert Jordan.
Robert Jordan è un partigiano associato alle forze lealiste, ma non è né un comunista né un soldato professionista; Robert Jordan è un professore americano di spagnolo che, in nome di un ideale, decide di combattere nella sua amata Spagna. Il lettore, ovviamente, si ritroverà a conoscerlo molto meglio di tutti gli altri personaggi, di cui veniamo a conoscenza solo grazie alle storie che essi stessi gli raccontano. Hemingway, quindi, per tutta la narrazione, ci fornisce come unico punto di riferimento la visione di uno straniero, che cerca di inserirsi in un mondo a lui fondamentalmente estraneo, tentando di dare un senso a ciò che lo circonda e a tutti gli accadimenti.
Robert Jordan percepisce se stesso come cavaliere di una crociata, tendente a un fine puro e nobile, ovvero quello di consacrarsi a una causa, di fare proprio il dovere di difendere gli oppressi di tutto il mondo dai loro persecutori e da un destino ingiusto. Robert Jordan partecipa a un qualche cosa in cui sente di poter credere fermamente e, attraverso il quale, è in grado di stipulare un’alleanza quasi sacrale con i propri compagni d’avventura. Tuttavia, quel sentimento e quella necessità possono esprimersi in un solo modo: combattendo. E così, Robert Jordan combatte, anche se la paura arriva a inaridirgli la bocca e la gola ,e il panico riesce a togliergli ogni voglia di vivere; Robert Jordan combatte la sua battaglia non per perseguire un obiettivo egoistico, ma in nome di tutti i poveri e i miserabili del mondo, contro ogni tirannia o persecuzione, imparando a resistere alle sofferenze e a ignorarle, a scavare la propria strada nella neve, nell’umidità e nel fango, forte solo del proprio profondo, sano e altruistico orgoglio.
Robert Jordan è un professore poco più che ventenne, ma la sua figura è una fonte d’ispirazione per qualsiasi giovane che abbia mai voluto scappare dalla propria vita e fare qualcosa di grande e importante per il mondo. Per rafforzare questo concetto, Hemingway farà innamorare Robert Jordan di Maria, un altro personaggio giovane, ferito e contorto dalla guerra, e la loro storia d’amore costituirà l’archetipo del sentimento che un qualsiasi adolescente sogna di provare.
Robert Jordan vede Maria per la prima volta nel momento in cui lei esce dalla caverna di Pablo, curva sul tegame di ferro del pranzo, e subito perde completamente la testa. Il loro idillio, tuttavia, è destinato a durare solo tre giorni, quei maledetti tre giorni che precedono l’attacco al ponte, che inevitabilmente cambierà per sempre il loro destino; il pensiero del lettore accompagna quindi quello di Robert Jordan e di Maria che, già dopo la prima notte di amore, sanno che il loro tempo insieme ha una scadenza e che forse a loro non sarà neppure destinata una vita intera da vivere; non futuro, non felicità, non figli, non divertimenti e neppure una casa, un bagno, un pigiama pulito e un letto in cui svegliarsi sapendo che non si è soli. Niente è concesso a questi giovani che sono costretti a vivere cent’anni in un giorno e a trascorrere ogni attimo consapevoli della sua fugacità.
La guerra e il romanticismo sono due elementi centrali del libro: è la guerra che genere tutte le tensioni e i conflitti presenti al suo interno ed è la storia d’amore il meccanismo che metterà in atto la trasformazione personale di Robert Jordan. Infatti, l’interazione fra i due protagonisti costituisce un punto cruciale della narrazione e la promessa di felicità rappresentata dal loro amore trasforma la scelta di Robert Jordan nel servire la causa militare in un gesto profondamente straziante ed eroico. Perché la faccenda del ponte potrebbe andare male e, di conseguenza, non ci potrebbe più essere un oggi o un domani: una vita che si condensa in quarantotto ore e l’insopportabile consapevolezza che ogni momento che passa è destinato a non tornare mai più.
La morte, non a caso, è il tema principale del romanzo:chi prima e chi dopo, ognuno dei protagonisti sarà costretto, a suo modo, a contemplare l’eventualità della propria sconfitta e della propria dipartita. Da questo punto di vista, profondamente significativo diventa il senso di cameratismo e di sacrificio di fronte alla morterappresentato magistralmente da Hemingway. Robert Jordan e tutti i suoi compagni sono pronti a fare “ciò che ogni vero uomo dovrebbe”, ovvero immolarsi in un ultimo sacrificio per una causa più importante della stessa vita, e il gesto più volte ripetuto dell’abbraccio fra i vari camerati, diventa da questo punto di vista quasi un comportamento rituale, un suggello di fedeltà e vicinanza fra coloro che sanno di trovarsi tutti, indistintamente, di fronte alla stessa morte.
Il suicidio più volte si profila come un’alternativa alla sofferenza; non a caso, molti dei personaggi, fra cui Robert Jordan stesso, preferiscono l’eventualità della morte piuttosto che la cattura e la tortura da parte dei nemici, e sono pronti a uccidere se stessi o ad essere uccisi per evitare entrambe. Eppure, nel caso di Robert Jordan, vi è anche un senso di repulsione nei confronti di questo gesto, che eleva l’uomo a divinità in grado di prendere e togliere una vita, ed è, allo stesso tempo, l’azione di un codardo, che sceglie egoisticamente una soluzione estrema per porre fine alle proprie tribolazioni. Le opinioni di Robert Jordan sul suicidio sono, probabilmente, lo specchio letterario del suo autore: infatti Hemingway ha in comune con il proprio personaggio il trauma di essere figlio di un padre suicida, elemento di profondo interesse ed estremamente significativo per quella che sarà, ahimè, la decisione che lo scrittore prenderà molti anni dopo riguardo la propria morte.
Un altro tema cruciale per lo svolgimento del romanzo è quello della divinazione come mezzo alternativo di percezione, incarnato nella splendida figura di Pilar, “donna di Pablo”, e fonte di ispirazione per tutte quelle femministe che possono sentirsi deluse dall’eccessivo atteggiamento sottomesso di Maria. Pilar ha sangue zingaro nelle proprie vene ed è in grado di leggere i palmi delle mani per predire il futuro e, al contempo, funge da perfetto alter ego di Robert Jordan.
Robert Jordan, infatti, è inizialmente presentato quasi come una macchina, un automa che opera ed esegue gli ordini senza provare particolari emozioni. Robert Jordan è logico, razionale all’estremo, tanto che il suo senso del dovere arriva a prevalere su qualsiasi altra cosa. Dal momento in cui incontra Pilar, tuttavia, un sentore di superstizione inizia a penetrargli nell’animo, tantoché arriverà successivamente a leggere lui stesso presagi funesti nella natura e nelle situazioni quotidiane, iniziando a considerare che, dopo tutto, potrebbe esservi un potere soprannaturale al di sopra di ogni cosa, che non necessariamente coincide con il proprio giudizio scientifico.
L’ “incidente” della lettura della mano di Pilar, quindi, da intermezzo divertente, diventa un’ossessione per Robert Jordan, che lo assilla per tutto il romanzo. Il lettore e Robert Jordan stesso non sanno cosa Pilar abbia letto sulla mano, se abbia visto un sentore di morte o una visione degli eventi che stanno per accadere; ciò che è certo è che, da quel momento, Robert Jordan diventa più consapevole della propria vita e di chi gli sta intorno e sarà proprio questo che , probabilmente, lo porterà a ricambiare l’amore di Maria.
Attorno al tema dell’amore per la propria donna e i propri compagni, c’è anche un altro tipo di sentimento: quello nei confronti della terra di Spagna. E’ una passione coltivata dal luogo, dai sensi e dalla vita stessa, simboleggiata fin dalla prima pagina dagli aghi di pino del sottobosco, incarnazione stessa della terra spagnola: è lì che incontriamo per la prima volta Robert Jordan, con il cuore premuto sul terreno, ed è lì che lo lasceremo dopo l’ultima pagina, in un senso di infinita e inafferrabile circolarità.
Hemingway ci descrive la terra spagnola miglio per miglio, collina per collina, dimostrando come uno dei suoi sensi più raffinati sia la propria visione geografica e strategica del territorio. E’ senza dubbio dalla frontiera che Hemingway ha ereditato la viva percezione di ogni albero, di ogni cespuglio o di ogni sentiero, tanto da presentarceli in un flusso ininterrotto, come solo un uomo che non è unicamente passato, ma che è anche vissuto su una terra, è in grado di dare.
Per Hemingway la Spagna è la terra del “sangre caliente”, delle forti emozioni, della vitalità, della virilità e della teatralità quasi esagerata. La Spagna di Hemingway è la Spagna della corrida, tradizione che tanto lo affascinava, la Spagna affettuosa e festosa, come anche la Spagna crudele e sanguinaria. L’unica cosa che riesce a tenere unito l’indomabile spirito spagnolo è un’intensità sfrenata nel vivere, che seduce tanto Hemingway come il suo protagonista; tale intensità è destinata a portare a risultati molto diversi: dall’energica cordialità e dal buon umore, si può passare a repentinamente un senso di tremenda profanità, oppure a un’insopportabile misoginia, a una brutalità senza pari e a un’insaziabile desiderio di vendetta. Hemingway rende alla perfezione l’imprevedibilità dello spagnolo, un personaggio fatto di estremi e, nello stesso momento, in lui incarna il paesaggio stesso del suo racconto. D’altronde, la Spagna è l’unico paese in cui, come per magia, può nevicare a fine maggio.
Hemingway, dal canto suo, prova sentimenti molto contrastanti nei confronti del popolo spagnolo; in ultima analisi dimostra di amarli appassionatamente, sebbene descriva molti aspetti terribili della loro indole, senza risparmiare nulla al proprio lettore. Questa concezione si riflette in ognuno dei personaggi che Robert Jordan incontra e, attraverso le varie storie e i flashback delle loro vicende, Hemingway offre al lettore l’opportunità di esplorare nuove parti dell’essere spagnolo, intessendo un arrazzo via via sempre più ricco e particolareggiato.
Passione, crudeltà, amore, guerra: i temi trattati da Hemingway sono le colonne portanti della storia umana, tanto breve quanto travagliata, tutti riassumibili nell’enigmatico titolo che campeggia su ogni vicenda: ‘Per chi suona la campana’.
Hemingway trae la propria ispirazione da un poema di John Donne e marchia a fuoco il proprio romanzo con un quella che sembra essere sia un’ammonizione che una verità rivelata.
Quando John Donne scrisse ‘Per chi suona la campana’, nel XVII secolo, in Inghilterra le campane scandivano costantemente il tempo, annunciando le più diverse occasioni: matrimoni, feste o, più semplicemente, il quotidiano servizio ecclesiale. Ma quando le campane rintoccavano lentamente e solennemente, di solito significava solo una cosa: qualcuno era morto.
‘Per chi suona la campana’ di Hemingway è un libro pervaso da un sentore di morte, non solo perché si parla di una guerra, ma perché costituisce una vera e propria meditazione su questo tema. La guerra è solo un pretesto, una contingenza che porta tutti i personaggi a fare i conti con la propria morte e con la possibilità di infliggere la stessa contro i proprio nemici. E’ a questo punto che sorgono domande esistenziali a cui molto difficilmente si riuscirà a trovare risposta: si è in diritto di uccidere in guerra? Si uccide indirettamente ordinando agli altri di arrecare morte? Se tutto questo non è giusto, che cosa vuol dire fare parte di una guerra? E, d’altronde, potrebbe essere mai giusto, o piacevole, uccidere qualcuno?
In poche parole, si potrebbe dire che la campana funebre non smette mai di rintoccare in questo libro.
Hemingway, tuttavia, non cita John Donne solo per ottenere un titolo enigmatico e altisonante, ma soprattutto perché l’opera di Donne riflette perfettamente il fulcro della filosofia del libro.
Il messaggio che Hemingway vuole trasmetterci è che nessun uomo è “un’Isola, intero in se stesso”; non è quindi portavoce solo della propria individualità, ma è indissolubilmente legato a tutte le altre persone, come un continente fa parte di un mondo molto più grande. Se anche solo un singolo frammento di questa terra viene trascinato via dalla corrente, allora tutto ne è diminuito, perché quel pezzo è in sè unico e insostituibile: ogni morte d’uomo, allo stesso modo, diminuisce ognuno di noi di una parte fondamentale, anche se con quel morto non avevamo nulla a che fare, anche se eravamo nella sponda, nel paese, nel continente opposto. Ed è così che ogni volta che qualcuno muore, anche una parte di noi arriva a lasciarci, perché tutti noi partecipiamo indistintamente alla stessa umanità. Quindi è sciocco chiedersi “per chi suona la campana”, perché essa, inevitabilmente, rintocca il suo lugubre suono non solo per chi ha lasciato questa terra, ma per tutti noi.
John Donne nasce a Londra nel 1572 da un ricco mercante di ferramenta, fu educato dalla madre Elizabeth, figlia del drammaturgo J. Heywood e pronipote di Thomas More in ambiente cattolico. Dal 1584 studiò a Oxford. Frequentò (1591-1594) l’istituto legale di Lincoln’s Inn. Soldato e cortigiano, partecipò alle spedizioni del conte di Essex a Cadice (1596) e alle Azzorre (1597). Nel 1601 sposò Anne More, nipote del guardasigilli lord Egerton di cui John Donne era segretario. Un matrimonio contrastato. Risale a questo periodo la conversione all’anglicanesimo. Fu diacono nel 1615. Dopo lunghi anni di gravi difficoltà, gli morì tra l’altro l’amatissima moglie, predicatore ormai celebre, fu eletto decano di Saint Paul (1621). Poco prima di morire, gravemente malato, nel 1631, John Donne pronunciò il quaresimale Il duello della morte (Death’s duel), capolavoro del ‘barocchismo macabro’.
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