Invisibili sui libri di Storia, ma presenti nel percorso dell’Unificazione d’Italia, molte donne con le loro vite coraggiose, in bilico tra modernità e tradizione, anticonformismo e pregiudizio, sono state “l’altra Metà del Risorgimento”, contribuendo a sostenere il progetto dell’Indipendenza italiana.
“Per amore o per Gloria” ovvero “ Risorgimento, il bianco, il rosso, il verde e ..il rosa” è il titolo della conferenza partita dalle icone femminili più note, Anita Garibaldi, Virginia Oldini, ovvero la contessa di Castiglioni, Cristina Trivulzio Belgioioso, Giuditta Sidoli, Maria Clotilde di Savoia, per parlare dell’esercito “rosa” che affiancò gli uomini nell’avventura italiana. ”Donne che hanno partecipato in prima persona e hanno combattuto, mettendo a repentaglio la loro vita, già dall’ insurrezione milanese dove si fecero onore, oltre che come soccorritrici, come porta ordini, staffette nel carico delle. Armi.”
Tra queste la donna che viene cantata nella canzone la Bela Gigogin, vezzeggiativo piemontese di Teresina, diventata emblema del Risorgimento. Una storia e una canzone che cadenzerà il passo dei Mille di Garibaldi, come dei Soldati di Novara e San Martino, una Lilì Marleen, ante litteram, che scaldò i cuori dei soldati e comparirà su tutti i campi di battaglia delle guerre di Indipendenza. Dalla bella Gigogin a Colomba Antonietti Porzi , caduta durante la difesa di Roma combattendo vestita da soldato accanto al marito ufficiale.
Fu fondamentale il loro ruolo in battaglia, dove oltre ad assistere feriti e a compiere funzioni, impugnavano le armi e andavano a coprire postazioni lasciate scoperte dai caduti. Avevano spesso il volto sfigurato da cicatrici e sfregi, ma erano nei sogni dei soldati, ha esposto il relatore.
“Nel 1854 negli eserciti europei il termine vivandiera viene sostituito da quello di cantiniera e dal 1860 viene riconosciuto loro lo stesso trattamento dei soldati, la possibilità di essere decorate e ricevere il soldo. Hanno inoltre il diritto a partecipare alle sfilate del reparto a cui sono assegnate. A partire dal 1865 il loro numero viene fissato. Anche nell’esercito italiano, su modello di quello francese,era previsto l’impiego delle cantiere, ma l’unico ad averle, a parte i Garibaldini e i Cacciatori delle Alpi furono i bersaglieri. Con la riforma Ricotti del 1872, le cantiniere sparirono anche se previste e solo in epoca fascista le italiane indossarono le uniformi come Ausiliarie”.
Un’ altra figura femminile che ha affiancato soldati nel corso della Grande Guerra, ha concluso Martinelli furono le portatrici carniche. Donne di varia età che, per poco più di una lira, operarono lungo il fronte della Carnia, trasportando pesanti gerle di fornimenti e munizioni alle prime linee italiane, dove molto spesso combattevano i loro uomini nei reparti alpini.
Infine il Corpo delle Crocerossine, ausiliario dell’esercito che durante la prima guerra mondiale con oltre 7 mila Infermiere Volontarie furono presenti nei 204 ospedali da campo della Croce Rossa, gestendo un totale di 30.mila posti letto.
Le vivandiere erano delle operaie militarizzate che, nel periodo del nostro Risorgimento, continuavano a svolgere gran parte di quelle funzioni logistiche che esse avevano assicurato, fin dal Medioevo, presso i reparti militari. Sottoposte al regolamento di disciplina militare, lavavano, rammendavano, attaccavano bottoni, cucinavano, acquistavano generi alimentari, vino e tabacco che poi rivendevano alla truppa, per conto dell’amministrazione.
Durante i combattimenti raccoglievano, trasportavano ed assistevano i feriti, distribuivano acqua, gallette ed, all’occorrenza, anche munizioni. Non erano travestite da uomini ma indossavano la versione al femminile dell’uniforme dei loro commilitoni, con i pantaloni sotto la gonna. Appesa al cinturone, sopra la gonna, portavano una daga, anche, forse, per scoraggiare sgradite confidenze da parte di amici o nemici che fossero.
Molte rimasero ferite od uccise ed un gran numero di loro venne decorato per il coraggio ed il senso del dovere profuso nell’andarsi a prendere i feriti, con le loro carrette, fin sulla linea del fuoco. Fu proprio a Solferino, nel 1859, che venne concepita quell’idea che avrebbe portato, cinque anni dopo, alla nascita della Croce Rossa.
La Bela Gigogin, protagonista della celebre canzone risorgimentale, era una vivandiera dei Bersaglieri di cui si tramanda, purtroppo, solo la versione dialettale piemontese (Gigogin) del nome (Teresina).
La loro presenza, encomiabile ed insostituibile a giudizio del militari, era per i politici un problema ideologico non da poco. Con la rivoluzione francese, infatti si era affermato il principio che il soldato non fosse più un professionista acriticamente al soldo del sovrano, ma un cittadino che difendeva le istituzioni ed i diritti riconosciuti. Come era possibile, tuttavia che le vivandiere concorressero a difendere delle istituzioni che le discriminavano e dei diritti di cui non godevano? Per questo motivo, fatti salvi di diritti acquisiti dalle vivandiere ancora in servizio, la loro presenza, durante le guerre d’indipendenza era in via di progressiva contrazione. Si era passati dalle sei vivandiere ogni cento soldati delle guerre di successione e della guerra dei sette anni, nel XVIII secolo, alle due vivandiere ogni battaglione nel XIX secolo.
Fu durante la brevissima epopea della Repubblica Romana, nel biennio 1848 – 1849, che si manifestò una improvvisa ed imprevedibile inversione di tendenza. L’articolo 12 di quella Costituzione della Repubblica Romana dalla quale deriva la nostra attuale Costituzione Repubblicana, prevedeva che la difesa delle istituzioni fosse obbligo per tutti i cittadini. La norma era ambigua ma venne da molti interpretata in senso estensivo, per cui, mentre gli eserciti austriaco, francese e borbonico incombevano sulle frontiere si iniziò ad addestrare alle armi anche le donne. Non ci fu il tempo e nemmeno, probabilmente, una volontà condivisa, di costituire dei reparti femminili. Trecento donne vennero ascritte come infermiere e un numero imprecisato venne assegnato ai reparti combattenti, non sempre e non solamente come vivandiere. Quante fossero non lo sappiamo. Siamo certi, però, che tra i 938 soldati morti per difendere la Repubblica Romana, tra i quali c’era il Capitano Goffredo Mameli, autore del testo del nostro inno nazionale, sei erano donne.
La figura della “vivandiera“, l’intrepida donna che porta il barilotto di liquore per rincuorare i combattenti con un sorso di acquavite e rischia la sua vita mescolandosi ai soldati per prestare loro i primi soccorsi, compare già nella Francia del XVII secolo e diviene in seguito personaggio caratteristico durante la Rivoluzione francese.
La vivandiera della metà del XIX secolo non deve essere confusa con una semplice aiutante che svolge mansioni varie, di cucina o di pulizia degli indumenti e del Campo; la vivandiera, che porta anche tabacco e rifornimenti di cibo ai soldati, è inquadrata ufficialmente nelle fila del Reggimento, veste una sua divisa di foggia femminile… e spesso è armata!
A quel tempo l’Esercito francese era considerato dai più come tra i migliori del mondo e non c’era Reggimento del Secondo Impero di Napoleone III che non disponesse, per dirsi veramente al completo, delle sue “figlie”, delle Vivandiere.
I Reggimenti Zuavi erano famosi per le loro elaborate e vistose uniformi di foggia africana, per la qualità del loro addestramento e il valore sempre dimostrato in combattimento: erano “il meglio del meglio”.
E le loro vivandiere, con divise altrettanto sgargianti, li seguirono in Crimea, nella Campagna del Risorgimento nel 1859 con l’Esercito di Vittorio Emanuele II, in Messico…
C’erano nomi noti come Madame Jouay del 3° Zuavi e Antoinette Trimoreau del 2° Zuavi (che ricevette una medaglia al valore militare per aver salvato a Magenta l’Aquila del Reggimento); e Jeanne Marie Barbe della Guardia Zuava, anch’essa decorata durante questa battaglia.
Alle vivandiere era consentito seguire i soldati in combattimento (per questo erano armate), mentre le altre aiutanti di Campo non lo potevano fare.
Dal 1854 in poi le vivandiere vennero chiamate “cantiniere” anche se non si limitavano a servire bevande alcoliche ma anche cibo e tabacco; e prestavano le prime cure ai feriti.
La loro divisa (come anche avvenne negli Eserciti della Guerra Civile Americana in seguito) riprendeva quella del Reggimento di appartenenza, ma veniva ingentilita da abbellimenti tipicamente femminili quali piume e nastri colorati, grembiuli e ricami.
Una vivandiera Francese
I loro cappelli erano sempre di foggia civile e mai militari.
Non stupisce quindi che allo scoppio della Guerra Civile Americana , entrambi gli Eserciti, nordista e sudista, si siano presto dotati di Compagnie e anche di interi Reggimenti che vestivano zuavo, arrivando persino a premiare le unità che dimostravano miglior addestramento e qualità nel combattimento con uniformi zuave che erano importate direttamente dalla Francia o erano confezionate in patria in modo quasi identico all’originale o elaborate in modo simil-zuavo.
E’ interessante notare, a questo proposito, che moltissime delle uniformi importate dovettero essere allargate perché la “taglia media” del soldato americano era superiore a quella del soldato francese!
Così anche la tradizione di arruolare donne volontarie allo scopo di dotarsi della figura della “vivandiera” fu presto acquisita sia dall’esercito della Confederazione che da quello dell’Unione.
Alcune vivandiere dimostrarono capacità spiccate nel curare i feriti e vennero dotate di fusciacca e di galloni verdi, proprio come i medici e gli infermieri del reggimento.
Molte di queste donne si arruolarono per seguire il proprio marito in guerra, ma lo facevano a loro rischio e pericolo e non solo per quanto riguarda la possibilità di essere ferite, uccise o (peggio!) prese dal nemico.
Il Capitano di un Reggimento di uomini di Fanteria del Tennessee che fu a contatto con il Reggimento zuavo sudista del 1° Louisiana, gli Zuavi di Coppens, scrisse a casa: “Billy si è terribilmente invaghito delle Vivandiere di Coppens… insiste perché io chieda di convertire la mia Compagnia in Zuavi e poter avere anche noi due di queste Vivandiere!”
In genere il numero di Vivandiere era stabilito in una o due per battaglione di fanteria, due per squadrone di cavalleria, quattro per reggimento di artiglieria e genio.
E’ evidente quindi che in America le Vivandiere ebbero così successo che tutti le volevano, non solo gli Zuavi!
Tra i Reggimenti nordisti, il 114° Pennsylvania, Collis’ Zouaves , vestiva una tra le uniformi più simili a quelle degli Zuavi francesi: i pantaloni erano rossi ma meno larghi e con un cavallo più alto; la giacca corta e di color blu notte era finemente ornata di nastri rossi con forme a trifoglio; fez rosso e nappa gialla; panciotto blu, fusciacca e polsini azzurri rendevano particolarmente elegante questa figura di soldato.
La sua vivandiera era altrettanto elegante ed appariscente:
la giacca era praticamente uguale, e vestiva una gonna blu notte, con un bel bordo rosso sul fondo, sopra i tipici pantaloni rossi; la cintura sopra la fusciacca azzurra era chiusa da una placca più grande e decorata; una camicetta bianca e un bel nastro azzurro sul cappello davano il giusto tocco di femminilità alla sua uniforme. Ma l’elemento che la caratterizzava di più era il barilotto di liquore dotato di un piccolo rubinetto e… la pistola al fianco, chiusa nella fondina.
Questa era proprio la divisa di Marie Tepe che accompagnò il 114° Pennsylvania, ma non sappiamo se lei abbia mai usato quella pistola.
I soldati nordisti del 72° Pennsylvania erano Zuavi ma la loro uniforme era molto diversa per via del panciotto e dei pantaloni, piuttosto stretti, di colore azzurro (blu cielo).
Inoltre non avevano sempre il fez zuavo ma spesso un normale berretto blu. Caratteristica la corta giacca blu notte con molti bottoncini tra due passamanerie rosse .
La loro vivandiera vestiva interamente di blu notte e portava oltre alla pistola anche uno spadino su un fianco; la caratterizzava il berretto stile Rivoluzione Americana. Alcune vivandiere dimostrarono capacità spiccate nel curare i feriti e vennero dotate di fusciacca e di galloni verdi, proprio come i medici e gli infermieri del reggimento.
Molte di queste donne si arruolarono per seguire il proprio marito in guerra, ma lo facevano a loro rischio e pericolo e non solo per quanto riguarda la possibilità di essere ferite, uccise o (peggio!) prese dal nemico.
Il Capitano di un Reggimento di uomini di Fanteria del Tennessee che fu a contatto con il Reggimento zuavo sudista del 1° Louisiana, gli Zuavi di Coppens, scrisse a casa: “Billy si è terribilmente invaghito delle Vivandiere di Coppens… insiste perché io chieda di convertire la mia Compagnia in Zuavi e poter avere anche noi due di queste Vivandiere!”
In genere il numero di Vivandiere era stabilito in una o due per battaglione di fanteria, due per squadrone di cavalleria, quattro per reggimento di artiglieria e genio.
E’ evidente quindi che in America le Vivandiere ebbero così successo che tutti le volevano, non solo gli Zuavi!
Dopo la prima battaglia di Bull Run del Luglio 1861, in Virginia, si racconta che Lavinia Williams, una Vivandiera che era al seguito degli Zuavi sudisti di Wheat (le famose “tigri della Louisiana” di New Orleans) per raccogliere un po’ di denaro che le serviva per uno zuavo ferito che aveva in cura, tenne uno spettacolo in Sud Carolina
.
French Marie
Il biglietto costava 25 Cents e lo spettacolo ebbe grande successo; Lavinia si esibì in vari numeri tra i quali emozionanti dimostrazioni di come si usava il coltello e altre tecniche di combattimento proprie degli Zuavi, che erano considerati maestri nell’adoperare la baionetta.
Così ne parlò un cronista del “Edgefield Advertiser” nell’Ottobre del 1861: “..è una donna dal forte aspetto… tutti erano protesi a guardarla nel suo vivace costume di soldato zuavo… e i ragazzini si accalcavano nel teatro… raccontava con estrema disinvoltura di come si ammazza uno Yankee col coltello… e altre cose simili…”
Le Vivandiere si trovarono a volte costrette a combattere, essendo in prima linea accanto ai loro uomini, e svolsero oltre al ruolo di dispensare “cicchetti” di liquore, cibarie e tabacco, anche quello di cuoche, assistenti e cantanti, ma anche spie e, talvolta, se molto giovani, di “mascotte”.
Quando le donne cominciarono a rivendicare pari diritti e pari opportunità rispetto agli uomini, le vivandiere, che erano cuoche e lavandaie, dipendenti retribuite dallo stato, vennero congedate e sostituite dalla crocerossine, ricche borghesi ed aristocratiche, da cui ci si aspettava che non pretendessero nulla in cambio della loro opera filantropica. Se non fosse per l’opera di Gaetano Donizetti “La Figlia del Reggimento” nessuno si ricorderebbe più di loro. In seguito il governo fascista decretò la distruzione di ogni memoria od immagine che non facesse riferimento ad una donna…sposa fedele, madre premurosa ed angelo del focolare.
Una sección de Rita Zambon sobre el baile italiano durante los años de los movimientos patrióticos en ocasión del 150° de la Unidad de Italia
Según la Gazzetta di Venezia: la noche del 6 de febrero 1848 Fanny Cerrito, mientras baila La Vivandiera e il Postiglione en el Teatro La Fenice, añade una Sicilienne en homenaje a los movimientos sicilianos desencadenando el ardor de los espectadores que gritan “¡Viva la Sicilia! Viva los Sicilianos!”. El público en delirio aplaude la Cerrito que «aparece en escena envuelta en un velo blanco rojo y verde”.
Más allá de este episodio de crónica, en aquellos años hubo muchas anécdotas realativas a conductas anti-austríacas delas estrellas románticas; quizás algunas veces se hayan confundido las épocas. Entre estas una anécdota mítica, atribuida de vez en vez a la misma Cerrito, a Caterina Beretta Viena, y también erróneamente a Carolina Pochini: la bailarina, de acuerdo con los patriotas, sube al escenario siempre vestida de blanco y recibe del público ramos de flores verdes y rojos que, estrechos a su pecho, forman la bandera tricolor. La policía austriaca, entendido el engaño, obliga la bailarina a no recoger más las flores: ella obedece. La misma noche le tiran ramos de flores amarillos sujetados por un hilo negro, colores símbolo de Austria, y ella, obedeciendo a la imposición los deja en el escenario, sin siquiera mirarlos, entre la vergüenza de las autoridades y el alborozo del público.
GRANDI FIGURE FEMMINILI NEL RISORGIMENTO
Quando si parla di Risorgimento al femminile, due figure sono ben presenti nell’immaginario collettivo: Anita Garibaldi e la Contessa di Castiglione, tali, per il temperamento e le personali vicende, da colpire profondamente la fantasia.
Anita Garibaldi (Morinhos, vicino alla città di Laguna, in Brasile, 1821 ca. – Mandriole, Ravenna, 1849). Appartenente ad una famiglia contadina, terzogenita di dieci figli, a 14 anni va sposa ad un ciabattino. Incontra Garibaldi a 18 anni. Dalla loro unione nascono 4 figli: Menotti, Rosita (morta a 2), Teresita, Ricciotti. Ottima amazzone, buona nuotatrice, esperta nell’uso delle armi, la fiera, indomita, passionale Anita fu sempre accanto allo sposo, anche in battaglia. Lo seguì pure nel 1849, quando, caduta la Repubblica Romana, Garibaldi intraprese la pericolosissima e faticosa marcia da Roma a San Marino, a Cesenatico, a Magnavacca (oggi Porto Garibaldi). Anita, in stato di gravidanza, stremata dai disagi e da una febbre altissima, dopo un penoso vagare nelle valli ravennati, muore nella fattoria di Mandriole. A forza, Garibaldi viene stacccato da Anita, ormai esanime. I patrioti lo salveranno dagli austriaci che lo incalzavano, grazie alla “trafila”, una delle “glorie” della storia risorgimentale romagnola.
Virginia Oldoini Verasis (Firenze, 1835 o 1837 – Parigi, 1899), sposa del conte Francesco di Castiglione, familiarmente chiamata “Nicchia” (diminutivo di “Virginicchia”, datole dall’amico di famiglia Massimo d’Azeglio), incaricata da Cavour di sedurre Napoleone III, Imperatore dei francesi, onde ben disporlo nei confronti della causa italiana, riuscì perfettamente nell’intento. Di tale successo andò sempre molto orgogliosa. Narrano che conservasse in bacheca la camicia da notte indossata per il primo “storico” incontro con l’Imperatore (che, peraltro, non fu né il primo, né l’ultimo dei suoi molti amanti) e che mostrasse l’indumento col medesimo orgoglio dei vecchi comandanti nei confronti delle bandiere di guerra dei propri reggimenti. Se, volutamente, si è sottolineata questa “nota di colore”, triste in realtà fu il declino di Virginia: essa visse gli ultimi decenni nel proprio appartamento parigino, con gli specchi schermati da veli, perchè non riflettessero la sua immagine non più giovane e seducente. |
Vogliamo ricordare, accanto ad Anita e a Virginia, una personalità del tutto affascinante (anche: se meno conosciuta): la marchesa Cristina Trivulzio (Milano, 1808 – 1871), sposa del principe di Belgioioso.
In possesso di una cultura assai vasta ed insolita per i tempi (storia, filosofia, lingue, musica, algebra), di grande intelligenza, affascinante, ricchissima, lasciato Milano dopo il rapido fallimento del matrimonio, dapprima si trasferì a Genova, ove aderì alle istanze patriottiche, poi, per sfuggire ai sospetti della polizia sabauda, a Parigi, ove avevano trovato rifugio numerosi perseguitati politici italiani. A Parigi, il suo salotto divenne uno dei più famosi: accanto ad esuli quali Mazzini, Mariani e Tommaseo, vi si potevano incontrare Musset, Balzac, Liszt, Heine, Chopin, Hugo, La Fayette ed altri ancora. Ardente sostenitrice della causa italiana, al fine di propugnarla Cristina, fra l’altro, fondò nel 1845, a Parigi, un giornale, “La Gazzetta d’Italia”, che trasformò poi nell’ “Ausonio”. Tornata in Italia allo scoppio della Prima Guerra d’indipendenza, si adoperò per il buon esito di questa (purtroppo vanamente), quindi raggiunse Roma stretta d’assedio dalle truppe francesi, dopo la proclamazione della Repubblica. Qui, anticipando di un decennio Florence Nightingale, fondatrice della Croce Rossa, organizzato il primo corpo di infermiere volontarie, si distinse per coraggio ed abnegazione. Il ventiduenne Goffredo Mameli, afflitto da cancrena ad una gamba, a seguito di una ferita mal curata, spirò fra le sue braccia. Caduta Roma, Cristina fu costretta ancora una volta all’esilio. Andrà prima in Asia Minore, ove acquisterà una vasta tenuta, poi a Parigi. Tornerà in Italia solo ad avvenuto raggiungimento dell’Unità. I compatrioti, comunque, non le mostrarono certo grande gratitudine: la sua attività patriottica venne dimenticata o trascurata, così come, già in precedenza, le innovazioni sociali, che si era sforzata di introdurre nei propri fondi agricoli, erano state oggetto di derisione o di sospetto. Oltremodo significativa è la seguente riflessione di Cristina: “Perché in una società ansiosa di abbattere tutte le tirannidi e di aiutare gli oppressi, ci si dimentica che in ogni famiglia ci sono delle vittime rassegnate, il cui sacrificio non è neppure riconosciuto da chi le ha condannate ad una vita di dipendenza?”.
A proposito di salotti, nei quali gli incontri mondani o intellettuali erano in realtà occasione per tessere una fitta rete di solidarietà nazionale, citiamo quello milanese di Clara Maffei (Bergamo, 1814 – Milano, 1886), quello torinese di Olimpia Rossi Savio (Torino, 1815 – 1889) e, a Bologna, quello di Cornelia Rossi Martinetti (Lugo, 1781 – Bologna, 1867). Cornelia, amicissima di Giuseppina Beauharnais, nel primo trentennio del secolo fu una vera celebrità per bellezza, spirito, cultura, adoratori ed illustri amici, fra cui Monti, Canova, Leopardi, il re di Baviera, Foscolo. Quest’ultimo, nel II Inno de “Le Grazie”, la rappresenta come sacerdotessa delle Grazie stesse. Del salotto di Cornelia fu ospite anche Piero Maroncelli, sia negli anni 1816-’17, quando egli studiava presso il locale Liceo musicale, sia nel 1830, quando, uscito dallo Spielberg, tornò brevemente in Italia, fermandosi a Bologna, ove venne aiutato, oltre che da Cornelia, da altre generose dame, quali Gentile Sacchi Clementina e Degli Antoni. Frequentare un condannato allo Spielberg, nell’ambito dell’occhiuto, sospettoso, retrogrado Stato Pontificio richiedeva un vero coraggio, come dimostra la vicenda di Francesco, fratello di Piero, espulso dallo Stato proprio a causa della parentela.
Dai salotti, passiamo agli ambiti familiari, ricordando le donne che furono accanto ai propri uomini, nelle vicende umane e politiche. Esemplare, in tal senso, è Giorgina Craufurd Saffi (Firenze, 1827 – Forlì, 1911). Nata da John e Sofia Maria Churchill, la sua era un’illustre famiglia scozzese, di tradizioni liberali, sostenitrice della causa nazionale italiana e legata a Giuseppe Mazzini da una strettissima amicizia. Conosciuto nel 1851 Aurelio Saffi, giunto esule a Londra, lo sposò nel 1857, dopo aver superato l’opposizione del padre. Validissima collaboratrice del marito, ne condivise appieno le idealità, adoperandosi con passione per la loro diffusione. Particolarmente sensibile ai problemi dell’educazione civile e morale dei giovani, fu del pari attenta alla condizione delle donne, di cui evidenzia il ruolo fondamentale nell’ambito familiare e sociale, adoperandosi anche per la promozione di esperienze di associazionismo femminile. Giorgina, fra l’altro, aderì nel 1875 alla campagna promossa dall’inglese Josephine Butler per l’abolizione della prostituzione in Europa e rappresentò l’Italia, assieme al marito e ad Ernesto Nathan, al Congresso internazionale delle opere e delle iniziative femminili, tenutosi nel 1889 a Parigi.
Come non ricordare, poi, Amalia Schneider Maroncelli (Lahr, 1809 – Ueberlingen, 1895)? La giovane mezzosoprano del Baden, conosciuto a Parigi nel 1832 Piero Maroncelli, più anziano di quattordici anni e, soprattutto, profondamente segnato dalla mutilazione, lo sposò nel 1833, seguendolo nell’ “avventura” statunitense: qui, sfumato il sogno di Lorenzo Da Ponte di dar vita a New York ad un teatro stabile lirico e con Piero precocemente invecchiato, malato e “perso” nei sogni fourieristici, essa divenne l’unico sostegno della famiglia.
Come non ricordare, altresì, la contessa Teresa Casati Confalonieri (1787-1830)? A lungo trascurata dal marito Federico Confalonieri, quando questi venne condannato a morte dal governo austriaco, nel 1823, per alto tradimento, attesi i suoi rapporti con le società segrete dei Carbonari e dei Federati, Teresa si precipitò a Vienna, alla corte imperiale, riuscendo, grazie all’intervento dell’imperatrice, ad ottenere la commutazione della pena in carcere a vita, nello Spielberg. A nulla valsero le rinnovate suppliche di Teresa per una riduzione della pena: essa morì prima che il consorte uscisse dal carcere, per grazia sovrana, nel 1837.
E, ancora, citiamo Anna Zannini Tinelli (Milano, 1805 – 1885), il cui marito venne condannato, per cospirazione, a venti anni di carcere duro allo Spielberg, e Maria Bonaparte Valentini (1819 – Perugia, 1874), figlia di Luciano Bonaparte, fratello di Napoleone I, e sposa del conte perugino Vincenzo Valentini di Canino, il quale ardente patriota, condivise con la consorte le speranze e le vicissitudini delle Guerre d’Indipendenza.
Fra le tante mogli, poi, che affrontarono col coniuge le difficoltà e le ristrettezze dell’esilio, è doveroso rammentare Ifigenia Gervasi Zauli Sajani (nativa di Sarsina, nel 1810, e morta a Forlì, nel 1883). Andata sposa diciannovenne (1829) all’avvocato forlivese Tommaso Zauli Sajani, uno dei protagonisti dei moti del 1831, lo seguì nell’esilio a Corfù e a Malta. Successivamente, a seguito della partecipazione di Tommaso alla Prima Guerra d’Indipendenza e alla difesa della Repubblica Romana, ne condivise l’esilio in Toscana e in Piemonte, sino al 1859. Donna di grande cultura letteraria, Ifigenia ha al suo attivo una vasta produzione di poesie, racconti storici e drammi teatrali, rappresentati con successo dalle maggiori compagnie italiane. Calcò anche le scene, prima nell’Ateneo Forlivese, poi in importanti teatri d’Italia.
Fra le “compagne di vita” (almeno per un certo periodo) esemplare è Giuditta Sidoli Bellerio (Milano, 1804 – Torino, 1871). Giovane vedova, esule per i propri ideali politici, “amò, come leggiamo in un repertorio biografico ottocentesco, di forte amore Giuseppe Mazzini, il grande Agitatore ligure, e tanto intensamente egli corrispose al suo affetto, che tra loro fu ventilato anche qualche progetto di matrimonio. Poi però, in Lui, come è noto, il pensiero di dedicarsi tutto alla redenzione della Patria prevalse sugli affetti di cuore”. In realtà, fu Giuditta a staccarsi da Mazzini, nella speranza di ricongiungersi ai figli. LE MADRI Eleonora Curlo Ruffini (Genova, 1781 – Taggia, 1856) ebbe tredici figli, di cui solo sette raggiunsero la maggiore età. Anche di questi, però, il destino fu tragico: Vincenzo, che studiava medicina, si defenestrò; Fortunio morì di tisi; Jacopo, arrestato nel 1833 per aver partecipato ad una congiura mazziniana contro il governo piemontese, si suicidò in carcere, in carcere, Giovanni ed Agostino vennero esiliati per il medesimo motivo e poterono tornare in patria solo alla fine degli anni ’40; Ottavio, il primogenito, violinista e compositore, estraneo alla politica, morì prematuramente nel 1839. Agostino morirà nel 1855. Ad Eleonora sopravvissero solo Angiolina e Giovanni.
Adelaide Bono Cairoli (Milano, 1806 – Pavia, 1871), sposa del medico Carlo Cairoli, di lei più anziano di circa trenta anni, fu madre di cinque maschi e di tre femmine: di queste, due morirono bambine e la terza, assai giovane, di parto. I fratelli Cairoli si batterono tutti per l’unificazione d’Italia e quattro ne morirono: Ernesto combattendo nella Seconda Guerra d’Indipendenza; Luigi di tifo, partecipando all’Impresa dei Mille; Enrico nel 1867, nello scontro di Villa Glori, alle porte di Roma, nel vano tentativo di far insorgere la città, e Giovanni per le ferite riportate nella medesima circostanza, dopo una lunga agonia. L’unico figlio sopravvissuto, Benedetto, al raggiungimento dell’Unità si dedicò alla politica, divenendo anche Presidente del Consiglio (1878 e 1879) LE GUERRIERE Concludiamo con le donne “guerriere”, che al pari dell’intrepida Anita Garibaldi combatterono sui campi di battaglia. Citiamo, dunque, Teresa Cattani Scardi (Forlì, 1807 ca. – 1850), che prese parte ai moti del 1831. “Allo scoppiare della rivoluzione, fu col marito, Vincenzo Scardi, all’assalto del Palazzo del Governo di Forlì, agitando una bandiera tricolore che, perforata dalle palle nemiche, fu da lei vittoriosamente issata al balcone dell’appartamento legatizio. Alla testa di una colonna di donne inquadrate militarmente si recò poi a Cesena, per infondere alle popolazioni il proprio ardore rivoluzionario. Infine, si rifugiò a Rimini col Governo provvisorio, sempre recando il tricolore, con la scritta: – O Libertà, o Morte – “. I coniugi, comunque, poterono tornare a Forlì, dopo un breve esilio. Il ritornello di una canzone popolare così celebrava Teresa “La Scardi fu la prima / che si mostrò guerriera / portando la bandiera / dei sacri tre color”.
Continuiamo con Colomba Antonietti Porzi (Bastia, 1829 – Roma, 1849), sposa del conte imolese Luigi Porzi. Come leggiamo in un testo ottocentesco, “tagliatisi i neri capelli, onde evitare possibili imbarazzi, e vestita l’uniforme da ufficiale”, combattè col marito nel 1848, nella campagna del Veneto, e nel 1849, a favore della Repubblica Romana, ove “fu sempre tra i più arditi difensori delle mura: il 13 giugno, aperta dal cannone nemico una breccia a S. Pancrazio, e tentandosi da quei di dentro ogni mezzo per ripararla, la giovane, calma e serena, nel posto dov’era più incessante e tremendo il pericolo, aiutava efficacemente il marito nell’opera della difesa, animando gli altri colla voce e coll’esempio, quando, colpita al femore da un proiettile d’artiglieria, cadde tra le braccia dello sposo, gridando –Viva l’Italia- e morì”.
Passiamo ad Angela Cerotti Pasqui (Bertinoro, 1819 – Forlì, 1878). Essa seguì il marito, soldato del Battaglione Pietramellara, nelle campagne del 1848 e nel 1849, quale vivandiera. Fatta prigioniera dai francesi, nel corso dell’assedio a Roma, venne per breve tempo deportata in Corsica.
Vivandiere furono anche le forlivesi Antonietta e Paolina Basini. Mentre i loro nove fratelli parteciparono in vario grado, a seconda dell’età, alle guerre per l’unificazione d’Italia, esse col fratello Salvatore seguirono Garibaldi in Sicilia, aggregate alla Brigata Bixio, quali vivandiere dei bersaglieri.
Numerose, poi, le donne che prestarono aiuto ai feriti in combattimento. Accanto a Cristina di Belgioioso, di cui già abbiamo parlato, veramente singolare è la personalità di Jessie White Mario (Gosport, Inghilterra, 1832 – Firenze 1906) Animata da viva simpatia per la causa nazionale italiana, nel 1854 conobbe Garibaldi, che così la salutò: “Voi sarete l’infermiera dei miei feriti nelle prossime battaglie”. Profezia veramente puntuale! Pur essendole stato precluso l’accesso all’Università, Jessie studiò medicina di propria iniziativa. Sposato Alberto Mario e trasferitasi con lui in Italia, si prodigò nell’assistenza dei volontari garibaldini in occasione dell’Impresa dei Mille, dei fatti di Aspromonte, della Terza Guerra d’Indipendenza, della spedizione nel Lazio del 1867, della spedizione in Francia nel 1870. Fu anche autrice di ricerche storiche e sociali.
Del pari interessante la figura di Laura Solera Mantegazza (Milano, 1815 – 1873). Infermiera ed addetta alle ambulanze in occasione delle Cinque Giornate milanesi, della Prima e Seconda Guerra d’Indipendenza, fu anche particolarmente attenta alle esigenze delle donne e dei bambini: creò, infatti, la Casa di ricovero per i bambini delle madri povere e oneste che lavorano fuori di casa, una Scuola per le adulte analfabete, una Scuola Professionale Femminile, rivolta alle fanciulle costrette a lavorare per vivere.
In ambito locale, citiamo infine la bolognese Giulia Bovio Silvestri, sposa di Vittorio Amedeo Paulucci di Calboli, che con altre valorose diresse le ambulanze, in occasione dell’assedio di Roma, nel 1849, e fece parte, nel 1860, del comitato a sostegno di Garibaldi.
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