Nato a Milano nel 1842 da un modestissimo impiegato di origine veneziana.
Morto a Roma nel 1898 in un duello.
Fu uomo politico, giornalista e autore drammatico.
Come giornalista collaborò all’”Unità italiana” e fondò nel 1866, il “Gazzettino rosa” il giornale politico-letterario degli “scapigliati”..Di carattere vivace, poco più che diciottenne raggiunse Garibaldi in Sicilia nel 1860 con la seconda spedizione garibaldina (guidata da G. Medici) combattento a Milazzo. Poi nel 1866 combatté con lo steso Garibaldi nel Trentino.
Già precoce verseggiatore si buttò nel giornalismo, con una penna arguta e beffarda, denunciando scandali, innescando polemiche, componendo poesie politiche con le quali attaccava un po’ tutti, i moderati, i governi della destra e la stessa monarchia.
Questi impeti letterari gli costarono denunce, processi, condanne, che tuttavia lo resero famoso nei più remoti angoli della provincia italiana.Deputato radicale nel 1873, fu rieletto per dieci legislature consecutive e sedette sempre all’estrema sinistra, da dove con la sua tribunizia e tagliente oratoria si scagliò appassionatamente contro le minacce dei diritti di libertà; fu implacabile avversario della vita politica del Depretis e del suo “trasformismo” o la politica megalomane e repressiva del Crispi; contro di essi e contro ogni forma di ingiustizia risolse la sua critica oltre che con gli arguti discorsi in Parlamento, con articoli e libelli vari, che gli procurarono, oltre all’appellativo di “bardo della democrazia”, frequenti processi e duelli. Ma lui stesso si definiva “can da guardia” quando denunciava e arginava le tendenze conservatrici e autoritarie della classe dirigente e i fenomeni degenerativi della vita pubblica.
Fu ucciso il 6 marzo 1998 nel corso di un duello col direttore della “Gazzetta di Venezia” deputato di destra Ferruccio Macola (nativo di Camposampiero, deputato della destra per il collegio di Castelfranco Veneto e appunto direttore della “Gazzetta di Venezia”).
che aveva sfidato in seguito alle offese recategli dalle pagine del giornale.La morte del popolare radicale rinfocolò da un lato i contrasti tra l’estrema sinistra, i socialisti e i repubblicani, e dall’altro il governo conservatore di Rudinì.
I funerali del Cavallotti si trasformarono in una imponente manifestazione popolare contro le forze conservatrici e l’autoritarismo di re Umberto I.
Non solo, ma esattamente a due mesi dalla sua morte, il 6 maggio, iniziano i tumulti del popolo contro il caropane, ma che assumono un chiaro carattere di protesta politica.
Come si concluse è noto: proclamato il Re lo stato d’assedio il generale Bava Beccaris fece una strage (80 morti, 300 feriti) sparando con i cannoni sulla folla.
Per questo Beccaris fu anche premiato da re Umberto I, che però proprio per questo gesto, cadde il 29 luglio 1900 sotto i colpi dell’anarchico Gaetano Bresci, giunto dal New Jersey appositamente per vendicare i poveri morti milanesi.Carducci ai funerali di Cavallotti lo defini “l’ultimo dei romantici”.
Pur così attivo, vivace e impetuoso nella vita politica, si cimentò con qualche fortuna anche nell’attività letteraria con alcune produzioni teatrali, con drammi storici (I Pezzenti, 1871 – Guido Agnese, 1873 – Alcibiade, 1874 – I Messeni, 1877 – La sposa di Menacle, 1882), con alcune commediole sentimentali o legate alla società del suo tempo, e infine con una raccolta di poesie pubblicate nell’anno della sua morte – Il libro dei versi, 1898.
CAVALLOTTI, Felice Carlo Emanuele. – Nacque il 6 ott. 1842 a Milano, al n. 4129 di piazza S. Giovanni in Conca. Tipico rappresentante della democrazia lombarda, si sentì e si professò sempre legatissimo alla sua città, quella stessa di Cattaneo, Ferrari, Bertani, Cernuschi, pur essendo la sua famiglia paterna di antica origine veneziana.
Un trisavolo, Giandomenico, aveva goduto di qualche notorietà, nel Settecento, come costruttore di vascelli all’Arsenale. Il nonno Giacomo, travolto nelle vicende seguite alla caduta della Serenissima, dopo aver fatto parte delle intendenze degli eserciti nel periodo napoleonico, era stato assunto nell’amministrazione finanziaria del Regno lombardo-veneto nei primi anni della Restaurazione, trasferito da Legnago a Morbegno (e di qui, poi, a Lodi e a Pavia). Il definitivo passaggio della famiglia da una regione all’altra segnò anche un declassamento sociale e un grave impoverimento. Il padre del C., Francesco, nato a Venezia nel 1800, dopo molti anni di collegio militare e di servizio nel 2. reggimento Bellegarde, divenne anch’egli impiegato alle finanze, e nel 1838 entrò in pianta stabile alla giunta del censimento di Milano, ove rimase fino al suo pensionamento, nel 1865:un’esistenza grigia, angustiata da difficoltà economiche, e assorbita, nelle ore libere, da traduzioni dal tedesco e studi grammaticali e lessicali. Solo nel 1849,dopo le Cinque giornate, parve uscire, timidamente, dal suo guscio: ma senza compromettersi e, parrebbe anche (checché ne abbiano poi scritto i biografi del figlio), senza troppi fervori patriottici e liberali.
In questo ambiente meschino, e aduggiato dalla povertà, crebbe il giovane C., assieme al fratello Giuseppe, di un anno maggiore di età, e alla sorella Adele, l’ultima nata (mentre due altri fratelli erano morti giovanissimi). Unico svago, i lunghi soggiorni a Ghevio, sopra Meina, in vista del lago Maggiore, presso gli zii Fontana. Ghevio e più tardi, non lontano di lì, Dagnente sarebbero stati, fino all’ultimo, il rifugio sereno del Cavallotti.
Vivacissimo e di carattere impetuoso, il C. primeggiò negli studi al liceo di Porta Nuova (in greco specialmente, e nella lingua e letteratura tedesca). Cominciò assai presto a verseggiare, con una vena anche troppo facile, da improvvisatore; e,poco prima del 1859, abboracciò con molto entusiasmo e poca arte le sue prime poesie politiche. Dopo la liberazione di Milano nel ’59, si buttò, ancora studente di liceo, nella politica; collaborò al giornale IlMomento – anche per rinsanguare il magro bilancio familiare -, capeggiò deputazioni del suo liceo in attestazioni di omaggio a Cavour e Mamiani, in visita a Milano; e nel giugno del 1860, non ancora diciottenne, arruolatosi garibaldino, fuggì di casa e s’imbarcò con la spedizione Medici, ponendosi in luce già durante la traversata per i suoi inni di guerra e l’esuberante e scanzonata gaiezza. Combatté a Milazzo, e nell’ottobre era a Napoli, già ribollente di sdegno per i “piemontesi”. La sua evoluzione politica era stata rapida.
Qualche mese prima, a Milano, era ancora su posizioni filocavouriane, e aveva pubblicato un opuscolo, Germania e Italia. Un partito nazionale germanico. Le sue vicende, le sue speranze (Milano 1860),accomunante con pari lode gli Hohenzollern ai Savoia. Ora, invece, si era già decisamente spostato su posizioni anticavouriane e garibaldine; come si deduce anche dalla sua collaborazione all’Indipendente, il giornale fondato a Napoli da Alessandro Dumas.
Tornato a Milano e ripresi gli studi al liceo e all’università di Pavia (che frequentò assai poco), si era tuffato nel giornalismo, anche per sostentare sé e la sua famiglia. Dopo aver scritto su giornali minori, divenne nel 1863 redattore stabile della Gazzetta di Milano, l’organo magno della Sinistra moderata ispirato da Emilio Treves e Raffaele Sonzogno.
Qui egli trattò soprattutto problemi di politica estera (rivelando una discreta conoscenza del mondo di lingua tedesca, e ancor molta ingenuità di apprezzamenti); mentre, sul terreno della politica interna, ci appare piuttosto inceppato dall’indirizzo del giornale e forse anche da un’intima irrisolutezza del suo pensiero: al punto da approvare, contro quasi tutto lo schieramento della Sinistra italiana, la convenzione di settembre (1864) e da biasimare come eccessivi taluni atteggiamenti di Garibaldi all’opposizione.
Furono, questi, anche anni di irrequietudine bohémienne e dissipazione nella vita privata (con varie relazioni amorose da una delle quali, con un’attrice di origine ungherese, nacque nel 1867 la figlia Maria, che egli tenne sempre con sé e più tardi riconobbe), di poesie satiriche o giocose, di frequentazione della Milano artistica e teatrale. Nel 1865 fondò e diresse il giornale Lo Scacciapensieri, che inondò di versi e racconti e commenti scherzosi; ma nel 1866, avvicinandosi la guerra con l’Austria, dopo alcuni articoli improvvisamente seri, di risoluto impegno, pose termine al giornale, e accorse ancora una volta volontario agli ordini di Garibaldi. Dopo l’infelice campagna militare, si portò d’un balzo su posizioni combattive. La crisi di Mentana (1867), e l’adesione entusiastica al Gazzettino rosa e al mondo della Scapigliatura politica segnarono il suo subitaneo trapasso su posizioni di aperta rottura e di sfida alla politica dei moderati, di accesi spiriti democratici e antidinastici, di Sinistra estrema. Verso la fine del 1867, Achille Bizzoni gli aveva lasciato per qualche tempo la direzione del Gazzettino rosa; ed egli cominciò a farsi notare come uno dei più animosi rappresentanti della giovane generazione radicale.
La collaborazione tempestosa al Gazzettino rosa, i numerosi duelli nei quali, per intemperanza polemica e sincerissimi sdegni e un certo gusto tracotante e sbarazzino, si lanciò sull’esempio dell’amico Bizzoni, e specialmente la rimeria politica di cui si compiacque per la facilità stessa dell’estro versaiolo e il gusto beffardo e dissacrante, e che gli valse processi, sequestri, arresti, condanne, gli diedero ben presto, e non solo a Milano, una crescente notorietà. Una delle sue prime poesie, Le auguste nozze, risposta pungente all’ode di Giovanni Prati per le nozze del principe Umberto con Margherita (1868), gli procurò l’epiteto di “poeta anticesareo”,che egli stesso adottò sulle colonne del Gazzettino. Seguirono ben presto Il dìdello Statuto, Per l‘anniversario di Mentana, Monti e Tognetti. Come osservò un contemporaneo, in queste odi “l’arte c’entrava poco; ma il successo sul pubblico fu enorme”.
Erano, più che altro, invettive, gesti di sfida, d’indubbia efficacia sulle più avanzate correnti di opinione, irritate in quegli anni dalle misure repressive del governo Menabrea. I tumulti per il macinato, le dimostrazioni a Milano per la traslazione della salma di Cattaneo, gli arresti per cospirazione repubblicana (e fra gli imprigionati di aprile ci fu anche il fratello del C., Giuseppe), lo scandalo della Regia Cointeressata dei tabacchi che fu sollevato proprio dal Gazzettino rosa, e il conseguente affare Lobbia, esasperarono ancor più, nel corso del 1869, la sensibilità politico-sociale del C., e ne rinfocolarono gli umori satirici.
In quello stesso anno egli cominciò pure a pubblicare, a puntate, la Storia della insurrezione di Roma nel 1867 (Milano 1869-1870), per la quale si valse delle testimonianze di amici garibaldini e della collaborazione di Carlo Tivaroni, il futuro storico del Risorgimento, allora redattore del Gazzettino. Idisordini seguiti all’affare Lobbia portarono all’arresto dei principali redattori del giornale; il C. si diede alla latitanza, assumendo la direzione del quotidiano. Solo nell’ottobre l’amnistia (spunto per un altro suo iroso carme) lo tolse dalla clandestinità, e rimise in libertà i compagni rinchiusi nel forte Bormida. Ma gli animi non si quetarono. Nell’estate del 1870, in seguito a violente dimostrazioni per la neutralità dell’Italia nel conflitto franco-prussiano, il C. fu arrestato e rinchiuso nel carcere criminale di Milano. Di qui fece uscire di soppiatto, per gli amici e per il Gazzettino, altre mordaci e accese poesie; e qui prese anche a scrivere un opuscolo Della proprietà letteraria e artistica e sua perpetuità. Lettera al deputato Antonio Billia (Milano 1871), e l’introduzione al Lessigrafista moderno del padre Francesco. Scarcerato all’indomani di Porta Pia, bruscamente passò, come altri giovani repubblicani, dai furori antibonapartisti all’aperta solidarietà con la Francia repubblicana, mentre il fratello Giuseppe, sorretto dallo stesso entusiasmo, nel dicembre raggiungeva Garibaldi in Francia e moriva in combattimento, il 21 genn. 1871, nei pressi di Digione.
Frattanto il C., lasciata la Gazzetta di Milano dopo una collaborazione durata sette anni, e allontanatosi anche dagli amici del Gazzettino rosa come Achille Bizzoni e Vincenzo Pezza (che, a differenza di lui, erano da tempo fautori di un intransigente astensionismo parlamentare, e, sul terreno sociale, stavano per accostarsi all’internazionalismo di Bakunin e alla Comune parigina), fondò e diresse un giornale a Milano, Il Lombardo, a sostegno della politica di opposizione radicale perseguita in Parlamento da amici già “gazzettinanti” come Billia e Ghinosi. Il suo giornale ebbe pochi mesi di vita e, per la pubblicazione di una sua ode sulla fucilazione del caporale Barsanti, gli costò anche qualche giorno di carcere; ma ne accrebbe ancora la popolarità.
Conclusa questa breve e agitata esperienza di direzione giornalistica – che aveva avuto anche l’appoggio di anziani democraatici, come Guerrazzi e Bertani, il leader della pattuglia radicale in Parlamento -,e ormai definitivamente abbandonata la Gazzetta di Milano, il C.riannodò qualche legame con il Gazzettino rosa. Ma il febbrile e battagliero impegno politico degli ultimi anni si era allentato; e anche il dolore per la morte del fratello sembrò per un momento fiaccarne lo spirito pugnace, e avviarlo ad altre, meno polemiche attività.
Per qualche tempo vagheggiò di scrivere un’ampia storia del martirologio del Risorgimento (dalla Repubblica partenopea all’unità), ispirata a sensi democratici e repubblicani, sulle orme di Cattaneo e di Mazzini e di scrittori come Luigi Anelli; ma non andò oltre la stesura di alcuni capitoli, sui moti del 1821 e Santarosa, sui martiri di Rubiera, e sui processi antimazziniani del 1833 (capitoli che, rimasti nel cassetto, Carlo Romussi volle pubblicare, nella Biblioteca universale Sonzogno, una ventina di anni dopo).
Nel corso di quello stesso anno – 1871 – l’incitamento dell’amico Carlo Righetti (il Cletto Arrighi della Scapigliatura milanese, direttore della Cronaca grigia) lo indusse inaspettatamente a scrivere, per il teatro. Tratto lo spunto da un racconto di appendice di un mediocre autore francese, Gonzales, sulla rivolta dei Paesi Bassi contro Filippo II (Les Iconoclastes, ou les briseurs d‘images), racconto che egli stesso aveva tradotto alcuni anni prima, e riprendendone alcuni effettacci melodrammatici e sensazionali colpi di scena, scrisse a furia un dramma in versi, I Pezzenti, infarcito di tirate patriottiche e anticlericali, ma non privo, qua e là, di qualche immaginosa scioltezza e languore romantico. Il lavoro, rappresentato al teatro Re di Milano, ebbe un grande successo di pubblico. Le malevole insinuazioni di alcuni critici – come l’accusa di plagio mossagli dal giornalista Torelli-Viollier, il futuro direttore del Corriere della Sera -, i consensio i dissensi determinati più da predilezioni o avversioni politiche che da considerazioni puramente artistiche, la simpatia dimostratagli da autori come Paolo Ferrari e da capocomici e attori famosi furono per il C. altrettanti incentivi a proseguire per una strada che fino a quel momento – nonostante il suo interesse per le cose e la gente di teatro – non aveva mai pensato potesse esser la sua. Egli venne anche a trovarsi per le mani un insperato mezzo di guadagno, nel momento in cui le porte del giornalismo sembravano chiuderglisi una dopo l’altra.
Sull’onda del successo, scrisse e rappresentò altri due drammi di argomento storico, Guido e Agnese (Milano 1872), che, pur con qualche contrasto, finirono anchessi per affermarsi in molti teatri; e, a rintuzzare le opinioni dei critici e ribadire i suoi intendimenti, li corredò, prima di darli alle stampe, di abbondanti note, ricche di informazione storica sia pure raccogliticcia e di arguta spigliatezza. La sua non estinta passione politica sembrava così effondersi per le vie dell’arte, fossero versi o drammi.
Nel 1872-73,le morti di Mazzini, Luigi Napoleone, Manzoni, Guerrazzi, Rattazzi ne riaccesero l’estro e gli umori polemici. Nel 1871, la pubblicazione di una raccolta di suoi versi gli procurò nuove traversie giudiziarie e lo costrinse, per evitare l’arresto, a nascondersi per alcuni mesi a Ghevio; e qui, in un granaio, sulla scorta di molte letture fatte nei mesi precedenti a Milano, scrisse quello che a ragione è considerato il suo migliore, e certamente il più accurato ed elaborato, lavoro teatrale: le scene dell’Alcibiade. Inaugurava così, con qualche indubbia originalità, la seconda fase della sua produzione drammatica, quella di argomenti greci, dai Messeni alla Sposa diMènecle:in questa produzione, accompagnata da commenti dotti e sapidi, egli espresse, come autore di teatro, forse il meglio di sé, pur senza mai toccare grandi altezze, ma sempre con discreto successo di pubblico e di cassetta, anche per virtù degli ottimi interpreti, da Luigi Bellotti-Bon ad Alamanno Morelli, da Giovanni Emanuela Pia Giotti e a Virginia Marini, da Francesco Pasta a Cesare Rossi e a Virginia Reiter (fino a Ermete Novelli e a Eleonora Duse, molti anni più tardi). Nel mediocre grigiore del teatro italiano dell’Ottocento, il C. riuscì così a conquistarsi una certa nomea, dovuta altresì, dobbiamo riconoscerlo, al suo sempre crescente risalto politico.
Nel 1873,mentre, nascosto a Ghevio, egli scriveva l’Alcibiade, improvvisamente moriva Antonio Billia, l’animoso deputato radicale del collegio di Corteolona. Gli amici di partito proposero come candidato, in sua sostituzione, il giovane Cavallotti. Del quale erano noti, da tempo, i fieri sentimenti repubblicani o, piuttosto, antidinastici; per il che qualche amico lo esortava, se eletto, a non entrare in Parlamento, per non dover prestare il giuramento di fedeltà alle istituzioni regie. D’altra parte il C. era sempre stato assertore, in sede politica, della linea partecipazionista, in polemica con gli amici astensionisti; e lo stesso Garibaldi pubblicamente lo esortava ad accettare il mandato dei suoi elettori. Il C., eletto a Corteolona, fece precedere il suo ingresso in Parlamento da una pubblica dichiarazione sui giornali che negava qualsiasi valore al giuramento imposto; e, dopo aver giurato, richiamò, fra i clamori dell’assemblea, la sua precedente dichiarazione. E così fece poi, puntualmente, a ogni sua nuova elezione in Parlamento. Quello del 1873 fu un passo decisivo, non solo per la sua carriera politica, ma per la nostra storia parlamentare. Come ha detto Leo Valiani, “con quel suo debutto parlamentare Cavallotti creò una rappresentanza di Estrema Sinistra, che i mazziniani medesimi non potevano più accusare di compromesso con la monarchia”.
Ebbe così inizio la sua attività parlamentare, durata per un venticinquennio sino alla morte. Già nel 1874 l’anziano Bertani lo elogiava per quel suo saper dire “con nitidezza e schietta vivacità pane al pane”. Per i primi tempi egli rimase però nell’ombra, in secondo piano, amareggiato dall’abbandono di alcuni amici, e con qualche assalto di malinconia per la difficile vita a Roma, lontano dalla sua Milano e dal lago. Ma già nel 1875 i suoi interventi alla tribuna, con le geniali apostrofi e gli indignati accenti e le battute pronte e argute (come sul sequestro delle sue poesie nonostante l’assoluzione, o sui brogli elettorali a Ravenna) lo misero in luce. E veramente, col passare degli anni, egli si sarebbe rivelato, per il nitore e la robustezza dell’eloquio e la vivacità impetuosa non disgiunta da toni bonariamente scanzonati, uno dei migliori oratori della Camera, fra i più attentamente seguiti da tutta l’assemblea. Si può in ultima analisi affermare che il C. fu, anche artisticamente, assai più felice come oratore o prosatore – ad es. nella introduzione alle Anticaglie o nella lunga risposta a Yorick o nei commenti alle proprie opere e perfino in alcune sue lettere – che non come poeta o drammaturgo. Sul finire del 1875 fondava a Milano un giornale da lui diretto, La Ragione. Doveva essere l’organo della “opposizione lombarda”,e cioè combattere la Destra – ormai declinante – da posizioni radicali, più avanzate di quelle, tatticamente possibiliste, del discorso di Depretis a Stradella. E fu in effetti un bel giornale, vivace e animoso. Se la sua vis polemica ovviamente si stemperò dopo la “rivoluzione parlamentare” del 18 marzo 1876, che segnò la caduta della Destra, essa tuttavia riacquistò un certo mordente col passare dei mesi, quando le grandi speranze aperte dall’avvento della Sinistra al potere cominciarono ad apparire, agli occhi dell’Estrema, non più, appunto, che speranze, e “promesse ancora non adempiute”. E come sulle colonne della Ragione, così e più ancora cominciò a dar battaglia al governo dalla tribuna di Montecitorio. I suoi discorsi del 1877 sulla commemorazione dei moti milanesi del 6 febbr. 1853, sull’espulsione di Benoît Malon dall’Italia, sul diritto di associazione brutalmente violato a spese degli internazionalisti, sul colpo di Stato di Mac-Mahon e il dovere di solidarietà verso i repubblicani francesi, furono le prime avvisaglie dell’opposizione radicale, e soprattutto cavallottiana, essenzialmente centrata sulla difesa delle libertà statutarie e degli ideali democratici.
Con qualche simpatia e fiducia, al pari di Bertani, egli salutava nel marzo 1878 il primo ministero Cairoli; e in un discorso parlamentare del 9 apr. 1878, mettendo a tacere, per il momento, ogni inclinazione irredentista, caldeggiava, all’indomani del trattato di Santo Stefano e in previsione di complicazioni nella crisi d’Oriente, una intesa con l’Austria.
Anche su altri spinosi problemi, come l’abolizione della tassa sul macinato e la crisi di Tunisi, egli avrebbe dato prova di spirito pieghevole e conciliante, tutt’altro che demagogico: un dato del suo carattere, quest’ultimo, che solitamente viene trascurato nei convenzionali ritratti del “bardo della democrazia”,ma che non sarebbe sfuggito – per citare un solo esempio – alla perspicacia di un Giolitti.
In realtà, ciò che colpiva i suoi contemporanei, e sarebbe poi rimasto nelle tradizionali raffigurazioni dell’uomo, erano i suoi scatti impulsivi e focosi, le sue efficacissime impennate oratorie, anche certe sue pose gladiatorie e ostentazioni di gesti un po’ esibizionistici: potremmo quasi dire quella stessa ricerca di facili effetti che andava perseguendo sulle scene teatrali. Ma al fondo di tutto questo luccicore, c’era una buona dose di realistico e misurato buonsenso, squisitamente lombardo. Il suo massimo impegno politico in questi anni, dal 1876 al 1882, fu per la riforma elettorale (l’allargamento del suffragio, lo scrutinio di lista, la distinzione fra delitti comuni e delitti politici, l’abolizione di odiose discriminazioni fra gli aventi diritto di voto, ecc.), della quale si era argutamente definito il “cane da guardia”: una lunga, ostinata lotta, contro le calcolate lungaggini depretisiane, alla fine coronata da successo. Nello stesso tempo, egli cercava di dare più coesione alle sparse pattuglie radicali; sosteneva la Lega della democrazia, sorta nel 1879 sotto l’egida di Garibaldi (del quale egli si era fatto il più acceso celebratore: e lo si vide allorché il generale, nel 1880, venne a Milano, paralizzato e quasi morente, per l’inaugurazione del monumento ai caduti di Mentana; e fu in questa occasione che il C. compose la famosa, anche se poeticamente tutt’altro che bella, Marciadi Leonida); ridava fiato alla campagna irredentista, specialmente dopo il sacrificio di Oberdan, e sfogava il suo inveterato anticlericalismo nel notissimo Cantico dei Cantici, e, qualche anno dopo, nell’iscrizione dettata per una lapide in onore di Garibaldi a Loreto.
In questo stesso periodo il C., rimasto artisticamente legato ai vecchi moduli romantici di stampo tradizionale, e urtato dalle innovazioni di stile e di contenuto introdotte in Italia dallo zolismo e dalle correnti veriste, nonché dalle audacie di uno Stecchetti e più dei suoi seguaci, sostenne una lunga battaglia di retroguardia contro il verismo e il “realismo” della “nuova scuola”. Fu, da una parte come dall’altra, una disputa accanita ma poco profonda, e zeppa di ovvietà e incoerenze; anche se sostenuta dal C. con brio e qualche lampo di buon senso. L’introduzione alle Anticaglie resta, come già si è accennato, una delle sue cose migliori. Più cautelosa la polemica del C. in difesa della vecchia metrica, contro la voga delle “odi barbare”; anche perché in lui perduravano l’amicizia e l’ammirazione, politica e letteraria, per Giosue Carducci: che del resto lo ripagò di altrettanta stima e simpatia.
Nel 1879 le condizioni economiche del C., assorbito dall’attività politica, si erano fatte critiche; ma egli rifiutò la cattedra di letteratura all’università di Palermo, che gli era stata offerta per trarlo dal grave imbarazzo.
Le elezioni del 1882, le prime a suffragio allargato e a scrutinio di lista, postulavano la necessità di accordi fra i radicali, i repubblicani non astensionisti, e i primi gruppi socialisti. Il C. che, osteggiato dal governo, non fu eletto pur avendo raccolto molte migliaia di voti nei diversi collegi (e lo sarebbe stato solo in gennaio, in elezioni suppletive), si era adoprato per promuovere questi accordi, non solo a scopi elettorali, ma per mantenere e rinsaldare la preminenza dei radicali su tutto lo schieramento di estrema sinistra. Gli sforzi suoi, dei suoi seguaci (primo fra tutti Ettore Socci) e di altri uomini politici condussero, nel 1883, alla costituzione del Fascio della democrazia (in sostituzione della Lega, ormai languente dopo la morte di Alberto Mario): e il C. entrò a far parte del comitato centrale, accanto a Giovanni Bovio e Andrea Costa. Ma non fu facile la convivenza fra le varie correnti dell’Estrema; e anche il Fascio si rivelò poco operante, dando già nel 1885 qualche preoccupante segno di crisi. Il C., assalito da sempre più frequenti stanchezze e disgusti della vita politica, ebbe soprattutto a lottare, in questi anni, contro i governi di Depretis e la ormai dilagante pratica del trasformismo, che, nei discorsi più famosi dal 1883 al 1886, egli bollò come “putredine” e “sfacelo morale”: con quella moralistica insistenza sulla degenerazione del costume pubblico e sulla difesa delle minoranze e dei conculcati diritti di libertà che era ormai diventata una delle caratteristiche essenziali della sua personalità.
Ma è un fatto che, negli anni ’80, e soprattutto per opera sua, il partito radicale si rafforzò nel paese, destando crescenti allarmi negli ambienti moderati e nelle sfere governative, e sollecitando una larga parte dell’opinione sulla via delle riforme. Il C. si era ormai affermato – e tanto più lo sarebbe rimasto dopo la morte di Bertani nell’aprile 1886 – come l’indiscusso leader dei radicali. Ma fu proprio negli stessi anni che costoro, fino allora pacificamente arrogatisi la funzione di rappresentanti dei ceti popolari, cominciarono a subire la concorrenza del movimento operaio e già tendenzialmente socialista, che si era venuto rafforzando per l’incipiente sviluppo dell’industria e per effetto della riforma elettorale, e ormai chiaramente mirava a emanciparsi dalla tutela radicale.
Al momento delle elezioni del 1886, irritato da questa concorrenza e volontà di autonomia, e dalla interessata e momentanea tolleranza del governo verso il Partito operaio italiano (che, sottraendo voti ai radicali, aveva indirettamente favorito le manovre antiradicali di Depretis), l’impulsivo C., indotto dalle insinuazioni di alcuni suoi compagni di partito, e dall’esito stesso delle elezioni, lanciò l’avventatissima e calunniosa accusa al Partito operaio di essere un prezzolato strumento del governo. Ne nacque una furibonda polemica e, in conclusione, un definitivo sottrarsi del movimento operaio e socialista all’egida protettiva del radicalismo borghese (tipico, in questa circostanza, l’indignato distacco di Filippo Turati).
Né solo per la sua attività politica la popolarità del C. giunse in questi anni alle stelle. Non meno vi concorsero i suoi troppo frequenti duelli (in uno dei quali, dell’aprile 1885 col ten. Ambrosini a Piacenza, rimase gravemente ferito); i suoi gesti generosi e un po’ anche teatrali – come l’accorrere a Napoli, alla testa dei volontari lombardi e toscani, durante il colera del 1884, e l’anno dopo in Sicilia -;i clamorosi processi in cui fu coinvolto, massimamente quello Della Vecchia-Nasi per diffamazione; i suoi efficacissimi discorsi, in Parlamento e fuori; e anche la sua produzione teatrale. Già nella Sposa di Mènecle, sopra menzionata, egli aveva toccato, sotto le sembianze di argomento greco (o “menandreo”, com’egli diceva), temi non lontani dai gusti e dai costumi del proprio tempo, e dalle abituali inovenze del teatro borghese, modellato su quello allora corrente in Francia. Qualche anno dopo, la stessa tendenza si palesava nell’ultima sua “commedia greca”, Nicarete. Ma ormai egli si era volto definitivamente a soggetti moderni, a personaggi “in marsina e cilindro”,a scene della vita borghese o aristocratica di tutti i giorni, con chiari riferimenti all’ambiente culturale e politico e sociale di quegli anni. Nacquero così, fra il 1880 e il 1890, numerose commedie, atti unici, “proverbi”,scherzi dialogati, in prosa o in versi martelliani: IlCantico dei Cantici, La luna di miele, Sic vos non vobis, Il povero Piero, La cura radicale, Le rose bianche, La figlia di Jefte, Lettere d‘amore, Lea, Agatodémon.
Lavori per lo più futili, convenzionali, lacrimosamente patetici o superficialmente giocosi, a volte banali nell’intreccio, o nella ricerca di troppo facili effetti, spesso tirati giù alla brava, senza alcun originale approfondimento di stile o scavo psicologico. Non si deve dimenticare che questa abbondante produzione teatrale, recitata dalle migliori compagnie e sorretta spesso dal favore delle platee, era anche diventata, dopo l’abbandono del giornalismo, l’unico mezzo di sostentamento del C.; ed essa gli consentì perfino (nonostante alcune disavventure finanziarie, dovute alla leggerezza dell’amico Luigi Fontana, per questo suicidatosi nel 1886) l’acquisto di una modesta casa a Dagnente, sopra Meina sul lago Maggiore: la casa in cui sempre più anelò a rifugiarsi, nei suoi ultimi anni. Pur nella complessiva mediocrità di questi testi – del resto adeguati al livello piuttosto scadente, tranne pochissime eccezioni, del teatro italiano di quei decenni -,l’opera teatrale del C. non è priva, qua e là, di un arguto e bonario dialogare, di felici trovate sceniche, di qualche efficace ritratto di giornalisti, uomini politici, artisti mancati, nobili infrolliti, sullo sfondo poco edificante del trasformismo e della corruzione del mondo degli affari e della vita parlamentare. Ne risulta, per implicito contrapposto, lo spirito onesto, sdegnosamente pugnace e inflessibile dell’autore. E anche questo ci spiega la relativa fortuna, in quegli anni, del pur modesto teatro cavallottiano: curiosamente caratterizzato, vogliamo ancora aggiungere, da inclinazioni moraleggianti, dal costante, vittorioso affermarsi dei personaggi virtuosi, schivi, altruisti, poco appariscenti su quelli brillanti, cinici, vanesi, rubacuori. Al di là di ogni spregiudicata schermaglia, tutto sembra in esso approdare al trionfo delle virtù più casalinghe, piccolo-borghesi, convenzionali.
Salito Crispi al potere nel 1887, dopo la morte di Depretis, il C. non assume, all’inizio, un atteggiamento ostile, sembra anzi condividere le speranze diffuse nel paese. Ma non ha alcuna fretta di aderire alla nuova maggioranza crispina, tanto meno di prospettarsi un’andata dei radicali al governo. Egli ritiene che l’estrema sia ancor troppo debole per nutrire “aspirazioni al potere”. Solo quando essa si sarà rafforzata in Parlamento e nel paese, “sarà il caso di discutere delle condizioni;fino a quel giorno non possono darsi che sottomissioni, e la Estrema Sinistra non si sottomette”. Il suo sforzo è piuttosto quello di tenere unita la compagine radicale, attestandola su una linea realistica che si ponga fra le “impazienze” di chi, come Alessandro Fortis, comincia a sentire le lusinghe del potere e le “intransigenze” dei repubblicani e repubblicaneggianti. Ma il suo programma politico resta immutato. Ed è pertanto fatale il distacco da Crispi, che già comincia a rivelare le sue propensioni autoritarie, “megalomani”,antifrancesi, ultratripliciste, antisocialiste. Le prime critiche, agli inizi del 1888, sono ancora larvate, e senza malanimo personale. Ma già nell’aprile, in seguito al primo urto violento, il C. per protesta si dimette da deputato (e subito dopo si fa rieleggere). La sua non è però, per il momento, un’opposizione preconcetta e assoluta: fra il maggio e il dicembre 1888 più volte approva singoli progetti governativi di riforma. Solo nel 1889, per il radicalizzarsi dei contrasti, sarà “battaglia aperta e fiera”; e il C. attaccherà, in Crispi, le “millanterie preparatrici di catastrofi”. Uno dei punti di maggiore dissenso è la francofilia del C., la sua professata solidarietà con la democrazia d’oltr’alpe. Ma la sua non è supina acquiescenza alla Francia: lo si vedrà nel 1890, in uno scambio di lettere col gen. Boulanger. “Io mi sento italiano prima di essere francofilo”,scriverà a Ettore Sacchi il 10 ott. 1890. Sullo sfondo di questa divergenza fra Crispi e il C., c’è anche l’opposto modo di considerare la Rivoluzione francese: assai poco amata dal primo ed esaltata dal secondo (anche in un bel discorso commemorativo a Milano, del 5 maggio 1889). Crispi vede ormai nel C. un pericoloso demagogo, e alla Camera lo definisce un novello Fouquier-Tinville. Altro punto di acuta frizione è il problema sociale. In polemica con l’antisocialismo di Crispi, il C. si professa socialista, sia pure “a modo suo“,perché “senza tanto monopolizzar la parola, credo che con me siano in fondo socialisti tutti gli uomini di mente e di cuore che studiano, intendono le miserie, le ingiustizie flagranti, i dolori onde sorge il problema sociale”. A ciò si aggiunga l’irredentismo, aspramente osteggiato da Crispi, la politica finanziaria, il “bismarckismo”, le sia pur momentanee velleità di conciliazione con la Chiesa. Le occasioni di conflitto si moltiplicano.
Entro questo quadro agitato si viene preparando il grande congresso democratico del maggio 1890, da cui uscirà il famoso patto di Roma, personale fatica del C., coadiuvato da alcuni esperti. A un testo, nel suo complesso, piuttosto equilibrato e misurato, qua e là generico, impreciso e declamatorio, non privo, in alcuni punti, di un certo realismo, e assai parco e fin troppo prudente sul terreno sociale (tanto che non mancheranno le vivaci critiche di socialisti come Turati e Antonio Labriola). Esso voleva essere, in realtà, il programma della democrazia radicale per la prossima legislatura, e poggiava tutto sulla speranza che alle elezioni di fine anno i radicali avrebbero raddoppiato i loro seggi in Parlamento, acquistando così un peso politico decisivo, tale da consentire una dislocazione della maggioranza e un nuovo assetto governativo in senso anticrispino. Ma erano sogni. Fra maggio e novembre, in campo radicale, si acuirono non solo i contrasti, ma le difficoltà finanziarie. Nel tentativo di uscirne, il C. si rivolse a Enrico Cernuschi, il democratico milanese delle Cinque giornate, arricchitosi in Francia con fortunate imprese bancarie e affari di Borsa; e ne ottenne 100.000 lire per le spese elettorali. Ma l’effetto fu disastroso: lo stesso Bovio, impulsivo e male informato, protestò; e, soprattutto, la propaganda governativa sfruttò l’episodio, parlando di “oro francese”, di radicali al soldo dello straniero. Anche, ma non solo per questo, le elezioni del novembre 1890 delusero le aspettative del Cavallotti. Dileguava la sua speranza di un capovolgimento della situazione parlamentare. Ma non per questo egli abbandonò il perseguimento della pur difficile e incerta linea politica che aveva da tempo prescelta.
Caduto l’inviso Crispi all’inizio del ’91, il C., diversamente da alcuni suoi compagni di partito, tenne sulle prime un atteggiamento di prudente e persino benigna attesa nei riguardi di Rudinì, sia per il timore di riaprire con una troppo recisa opposizione la via a Crispi, sia per l’illusorio proposito di favorire una convergenza fra le correnti di Sinistra e di Estrema che in qualche modo influisse sul governo. Ma già nel maggio si produssero i primi dissapori, per ragioni di politica interna, e poco dopo si acuirono per il temuto rinnovo della Triplice. La sua non fu tuttavia un’opposizione di fondo. Non aveva perduto la speranza di realizzare almeno una parte del programma del patto di Roma. Verso la fine del 1891 un suo discorso a Belgioioso, nel quale aveva richiamato il motto garibaldino “Italia e Vittorio Emanuele”,fu interpretato, da alcune frange dell’Estrema, come un indizio di troppo spinto possibilismo monarchico. Qualche mese dopo, alla sala Dante di Roma, egli attaccava con molta vivacità i suoi critici “intransigenti”. In effetti questa sua linea, più duttile e realistica di quella di un Bovio o di un Imbriani, tendeva a impedire lo scivolamento dei radicali “legalitari” verso l’area governativa; e proprio questo suo rifiuto dell’estremismo a oltranza appariva – non a torto – ancor più allarmante agli occhi dei conservatori. Gli sforzi ostinati del C. tendevano a creare, alla lunga, una alternativa di maggioranza e di governo, senza sostanziali cedimenti e abbandoni del programma radicale.
Di fronte al governo Giolitti (1892-93) il C. fu, dall’inizio alla fine, all’opposizione. Gli spiaceva, in questo homo novus della politica italiana, il modo stesso con cui era stato chiamato al governo, all’infuori della consueta prassi parlamentare, la totale mancanza rinfacciatagli con tono di degnazione di un passato “risorgimentale”,e, sotto le sembianze di un’ostentata antiretorica, l'”empirismo degli uomini pratici, che credono di poter risolvere le grandi questioni coi piccoli mezzi”; ma soprattutto, la politica abilmente lusingatrice e corruttrice nei confronti dei radicali “legalitari”. Per tutto questo il C., scoppiato lo scandalo della Banca Romana, si gettò a testa bassa contro Giolitti. Sotto le indignate apostrofi cavallottiane, c’era, a ben guardare, la preoccupazione tutta politica di preservare la unità del partito.
Tornato Crispi al potere, il C., dopo un colloquio con lui l’11 dic. 1893, assunse inizialmente un atteggiamento di riserva, acconsentendo alla “tregua di Dio” chiesta dal vecchio statista; ma già nel genn. ’94, dopo le prime misure repressive contro i Fasci siciliani, si schierava all’opposizione, accentuandone sempre più il vigore col passare dei mesi e l’esasperarsi dell’autoritarismo crispino. Dopo le leggi “antianarchiche” e lo scioglimento di organizzazioni socialiste, il C. fu tra i principali animatori della Lega italiana per la difesa della libertà, sorta nell’ottobre 1894 dal seno di tutta l’Estrema.
Il socialista Prampolini gli scriveva: “È il tuo momento, questo” Con la “questione morale”, nel 1895 egli si impose al paese come il principale antagonista di Crispi. La lettera agli onesti di tutti i partiti ebbe nel giugno una diffusione enorme.
Al di là dei toni moralistici o troppo scopertamente scandalistici di questa furibonda campagna, si profilava il disegno politico, tipicamente cavallottiano, di raggruppare intorno a sé le sparse forze di opposizione, restituendo ai radicali una funzione di guida e di sprone: un disegno di assai difficile realizzazione, per ragioni oggettive oltre che per i limiti stessi dell’uomo. Fu ad ogni modo la sconfitta di Adua (marzo 1896), ben più che l’opposizione dei radicali – rimasta esigua e fragile, ad onta della sua vasta popolarità, e lo si sarebbe visto anche in seguito -,a determinare il definitivo crollo di Crispi.
Sotto il secondo governo di Rudinì doveva tragicamente concludersi la carriera politica del C., giunta ormai alla soglia di svolgimenti forse decisivi. Il nuovo governo fu da lui accolto con sollievo e qualche moderata speranza. Era la rivincita contro Crispi. Ma questo temporeggiare del C. e dei suoi più fedeli seguaci fu ancora una volta criticato da opposte parti, dagli “intransigenti” (che egli ironicamente chiamò i “bigotti della repubblica” o i “repubblicani di Sua Maestà”) come dai “ministeriali” o “ministeriabili”,ansiosi di una rapida evoluzione filogovernativa; e le sue difficoltà erano accresciute dallo stesso atteggiamento ambiguo e irresoluto di Rudinì. Obiettivo essenziale del C. erano nuove elezioni politiche a distanza ravvicinata, dalle quali egli si attendeva per un verso uno sfaldarsi della forte e pur sempre temibile rappresentanza crispina, e per l’altro (illusione sempre rinascente) un cospicuo aumento delle forze radicali, tale da consentire nuovi schieramenti di maggioranza. Negli ultimi mesi del 1896 il salernitano Giampietro si adoperò febbrilmente presso Rudinì e gli stessi ambienti di corte perché l’insistente richiesta del C. fosse accolta. Raggiunto questo obiettivo all’inizio del ’97,il C. riprese di fronte al ministero la sua libertà di azione, e venne man mano accentuando i motivi di contrasto. Ma la sua posizione restava difficile e precaria. Da un lato Sacchi lo invitava a prendere il potere, Giampietro a non rompere con Rudinì; dall’altro Bovio, che frattanto aveva costituito un autonomo gruppo repubblicano alla Camera, usciva in pungenti allusioni al “tribuno che si fa conservatore”. Di qui, nel C., sempre più frequenti assalti di stanchezza e nausea della politica, e desiderio di rifugiarsi a Dagnente, a scrivere poesie e drammi, e a curarsi del figlio Giuseppe, natogli nel 1885 da Assunta Mezzanotte (la figlia Maria era morta nel 1895).
Aveva da ultimo pubblicato un Libro dei versi: un “libro vissuto – com’egli stesso lo definì -,il compendio in versi delle memorie di un poeta”. Doveva essere, nelle sue intenzioni, la raccolta delle sue liriche migliori. Eppure proprio questo libro è una riprova dell’estrema modestia della poesia cavallottiana. L'”ultimo dei romantici”,lo definì Carducci: definizione che possiamo accogliere, ma nel senso limitativo di una stanca ripetitività di moduli tradizionali, tratti da Berchet, Prati, Manzoni. “Versi da chitarrino”,li disse con troppa severità (in una lettera privata) Ferdinando Martini, “odi bracalone”. Certamente erano versi per lo più improvvisati; e proprio nell’età romantica era fiorito l’improvvisatore. Del resto lo stesso C. parlava della “furia negligente con che buttava giù i versi, come venivano”; ed era il primo ad ammettere che molti fossero “brutti”; ma li ripubblicava perché gli erano cari, e gli ricordavano generose passioni e battaglie del suo passato. Fra tanto straripante e trasandato verseggiare, pur qualcosa di non brutto si salva: alcune efficacissime invettive politiche (fra le più sferzanti di questo genere), o leggiadre poesiole d’amore, o malinconici ripiegamenti su di sé, non privi di qualche finezza.
Ma se talvolta questa nostalgica tentazione di abbandonare la vita politica parve sopraffarlo, c’era sempre qualcuno o qualcosa che lo richiamava alla lotta. Negli ultimi mesi del 1897 sembrò non alieno da contatti con Zanardelli e Giolitti, in vista di qualche combinazione parlamentare. In realtà egli rimase sempre ancorato all’idea che solo da posizioni di forza, come elemento determinante, i radicali sarebbero potuti entrare a far parte della maggioranza, e dello stesso governo. La sua ora non era ancora giunta; e non sarebbe giunta neanche più tardi, perché il fatale duello col direttore della Gazzetta di Venezia, Ferruccio Macola, avvenuto nel pomeriggio del 6 marzo 1898 nella villa Cellere alle porte di Roma, stroncò per sempre il suo ambizioso e arduo disegno politico: che nessun altro, dopo di lui, avrebbe avuto la capacità e la forza di riprendere. Con la sua morte si chiudeva veramente un periodo storico, come bene disse Filippo Turati nel suo discorso al cimitero Monumentale di Milano, il 9 marzo 1898: “Non un sepolcro è questo che spalanchiamo, ma un cimitero vastissimo, nel quale un’era della storia riposa; non fra due anni, come novella il lunario, ma oggi, qui, il secolo si rinnova”.
Le poesie del C. sono state raccolte nella nuova edizione aggiornata, Milano 1869 e 1873; i suoi scritti (poesie, drammi, discorsi, polemiche) sono in gran parte raccolti nei nove volumi delle sue Opere, Milano 1881-1896.Fra i suoi lavori teatrali non compresi nella raccolta, e pubblicati a parte: La luna di miele (Milano 1883), Sic vos non vobis (ibid. 1884), Il povero Piero (ibid. 1884), La cura radicale (ibid. 1884), La figlia di Jefte (ibid. 1887), Lettere d‘amore (ibid. 1890), Lea (ibid. 1890), Agatodémon. (ibid. 1895), Le rose bianche (ibid. 1895). Altre opere: Canti e frammenti di Tirteo. Versione letterale e poetica, preceduta da un‘ode a Giosuè Carducci (Milano 1879); Martirologio italiano. Santorre di Santarosa. I martiri di Rubiera. I giustiziati del 1833. Monografie storiche inedite (ibid. 1802); La meravigl. storia del march. di Roccabruna (ibid. 1893); Chauvet svelato. Il romanzo del tutore. Coll‘app. della lett. al min. Grimaldi (ibid. 1893); Per la storia. La quest. morale su F. Crispi (ibid. 1896); Il libro di versi (ibid. 1897); Italia e Grecia (Catania 1898); Discorsi parlamentari, pubbl. per deliberazione della Camera dei deputati (2voll., Roma 1914).
Fonti e Bibl.: La principale fonte docum. è costituita dal Fondo Cavallotti presso l’Ist. Giangiacomo Feltrinelli di Milano: fondo di recente riordinato a opera di Cristina Vernizzi (da questo fondo sono tratti i Carteggi di F. C., 1867–1898, nel volume L‘Italia radicale, a cura di L. Dalla Nogare-S. Merli, Milano 1959). Molti altri documenti, e specialm. lettere del C., si trovano sparsi in archivi pubblici e privati (come i Musei del Risorgimento di Milano, Roma, Torino, Bologna, la Collezione Piancastelli della Biblioteca comunale di Forlì, la casa di Carducci a Bologna ecc.). Cfr. inoltre: P. Bardazzi, F. C. nella vita, nella politica, nell‘arte, Milano-Palermo 1898; A. De Mohr, F. C. (La vita e le opere), Milano 1899; P. Bardazzi, Il C., Libro per la gioventù italiana, Milano 1904; R. Colapietra, F. C. e la democrazia radicale in Italia, Brescia 1966. Oltre a V. Santini, F. C. e il Gazzettino rosa, in Rass. di pol. e di storia, VII(1961), 77, pp. 21-32; 78, pp. 21-32, sono pure da vedersi gli importanti articoli di R. Colapietra che, nel loro complesso, costituiscono la prima documentata e non agiografica biografia del C.: La giovinezza di F. C.,in Rass. di pol. e di storia, VI(1960), 70, pp. 21-32; 71, pp. 8-15; L‘esordio parlam. di F. C., ibid., VII(1961), 80, pp. 19-32; 81, pp. 19-29; Il fallim. della Sinistra ed i radicali, in Storia e politica, I (1962), pp. 38-66, 232-263; L‘opposiz. radicale a Depretis, in Rass. di pol. e di storia, VII(1961), 82, pp. 19-32; 83, pp. 19-29; Il primo ministro Crispi. Il patto di Roma, ibid.,VIII (1962), 90, pp. 25-32; 91, pp. 18-32; 92, pp. 23-32; Il radicalismo legalitario, ibid.,93, pp. 23-32; 94, pp. 16-32; Il ritorno di Crispi. La questione morale, ibid., 97, pp. 23-32, 98, pp. 28-32; IX (1963), 99, pp. 24-32; Gli ultimi anni di F. C., ibid., 100, pp. 20-32; 101, pp. 27-29. Cfr., ancora, dello stesso autore, Arte e politica nell‘opera letter. di F. C., ibid., V (1959), 52, pp. 25-32; 53, pp. 11-21. L’ultima biografia è di A. Galante Garrone C.,Torino 1976. Si v. inoltre: G. Spadolini, I radicali dell‘Ottocento, Firenze 1972; S. Merli, La democr. “radicale” in Italia, in Mov. oper.,(1955), pp. 31-64; A. Galante Garrone, I radicali in Italia, Milano 1973, ad Indicem. Altri brevi scritti sul C.: G. Bacci, C. e Costa, Milano 1887; F. C. nella vita e nelle opere, Milano 1898 (contiene pagine di A. Bizzoni, G. Bovio, L. Bufalini, F. Cameroni, N. Colaianni, E. De Amicis, S. Farina, F. Fontana, F. Fulgonio, F. Giarelli, E. Pantano, E. Pozzi, P. Premoli, E. Quadrio, M. Rapisardi, E. Re, E. Socci); F. Giarelli, F. C. Giornalista–letterato–drammaturgo, Firenze 1898; I. Bonivento, Sugli scritti di F. C. Osservaz. e appunti, Verona 1905; G. Marangoni, Note sulla vita e sulle opere di F. C., Milano 1906; O. Marinelli, Icanti dell‘ultimo romantico. La lirica di F. C.,Massa Marittima 1913; F. Armellani, C. oCrispi?, Pitigliano 1936; P. Carraroli, F. C. e l‘inno dei Mille, Firenze 1960; V. Cassiano, F. C.,Milano s.d.; C. Vernizzi, Cernuschi e C. (1890–1896), in Mazzini e i repubblicani italiani, Torino 1976. Giudizi e impress. sulla figura e l’opera del C. sono anche in: P. G. Molmenti, Nuove impress. letterarie, Torino 1879; G. Robustelli, Rizzi e C.,Milano 1880; R. P. Vassallo, Profili, Catania 1882; F. R. Pittoreggi, C.,Firenze 1898; A. Sorani, F. C.,Pitigliano 1901; L. A. Vassallo, Gli uomini che ho conosciuto, Milano 1911; A. Savinio, Narrate, uomini, la vostra storia, Milano 1944.
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