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ASSOCIAZIONE ITALIANA STUDI TOLKIENIANI
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Un sondaggio effettuato nel 1999 tra i lettori britannici su chi fosse il più significativo scrittore di lingua inglese del Novecento, diede un risultato per molti sorprendente: John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973). Che un autore di narrativa «fantastica» abbia prevalso su una miriade di nomi oggettivamente più noti, la dice lunga non solo sulla fama e la popolarità del professore di Oxford, ma soprattutto su quanto la sua opera – da Lo hobbit a Il Signore degli Anelli a Il Silmarillion – abbia inciso sull’immaginario collettivo del XX secolo e lo abbia influenzato in modo che dire indelebile non è esagerato.
Se ne deve dedurre che la sua opera complessiva non è soltanto una vicenda di semplice avventura fantastica, come ne esistono a migliaia, che non è soltanto una «favola per adulti», il divertissement di uno stravagante e svagato filologo oxoniense. Anche perché a 60 anni esatti dalla pubblicazione del Signore degli Anelli le traduzioni in tutto il mondo sono state decine e decine nelle lingue più impensate per oltre 80 milioni di copie, di cui oltre un milione in Italia. La conclusione è che le vicende «fantastiche» scaturite dall’immaginazione di Tolkien hanno un senso e un valore per ogni tipo di cultura e non solo per quella occidentale, in quanto utilizzano simboli universali. Il successo della seconda trilogia del regista Peter Jackson, tratta da Lo Hobbit e altri scritti del professore, sta ancora una volta a dimostrarlo, anche se la sua efficacia è inferiore a quella del Signore degli Anelli di dieci anni fa. A differenza di tanti osannati e conclamati best seller (tanto per citarne uno, Il Codice da Vinci) che come si suol dire lasciano il tempo che trovano e nessuna traccia se non quella di un boom di vendite, l’opera di Tolkien complessivamente e Il Signore degli Anelli in particolare è un long seller, si vende sempre, attira sempre lettori di generazioni successive senza una particolare pubblicità. Insomma, è un «classico».
Tolkien ha spiegato più volte ciò che lo spinse a cimentarsi con questa prova narrativa: da un lato, il desiderio di dare uno spessore concreto alle genti che parlavano i linguaggi che lui inventava sin da ragazzino; inoltre, la volontà di fornire al suo Paese, la Gran Bretagna, una mitologia. Creò così una narrazione epica sulla falsariga delle saghe leggendarie e delle storie cavalleresche, adatta all’uomo del XX secolo e, cosa straordinaria, non soltanto di cultura occidentale. Quella che è stata anche definita «la fiaba più lunga del mondo». E proprio come in una narrazione tradizionale, di un folklore di per sé immaginario ma nel cui interno sono confluite tutte le sue competenze e conoscenze di filologo, mitologo e appassionato delle leggende europee, in essa si può trovare di tutto e può essere analizzata in molti modi e secondo diversi metodi critici, uno dei quali non esclude l’altro, anche se alcuni di essi possono fornire una analisi più completa e approfondita delle fonti che sono dietro all’immaginario tolkieniano, spiegando da dove nascano certe sue figure, personaggi, creature, luoghi, addirittura nomi. Sotto questo aspetto, la sua opera è una miniera.
C’è chi, ad esempio, ha indagato sulle fonti letterarie dei suoi libri, a cominciare dal mondo medievaleggiante ma immaginario di William Morris, autore quasi sconosciuto in Italia; c’è chi ha indagato sugli aspetti linguistici e sulle fonti filologiche; c’è chi ha sviscerato le fonti mitologiche, leggendarie e simboliche, e chi invece quelle storiche. E c’è chi si è rifatto a quanto delle sue esperienze di vita può averne influenzato gli scritti, cercando di rintracciarle nelle sue pagine. Ad esempio, l’esperienza della prima guerra mondiale di cui ricorre quest’anno il centenario dell’inizio.
Tolkien venne inviato sul fronte francese della Somme nel giugno 1916, quando aveva dunque 26 anni, inquadrato nei Fucilieri del Lancashire. Partecipò alla terribile battaglia che ebbe inizio l’1 luglio fino al 27 ottobre, quando si ammalò della «febbre delle trincee», venne ricoverato in ospedale e l’8 novembre tornò in patria. Nemmeno quattro mesi, che tuttavia rimarranno impressi in modo indelebile nella sua memoria e incisero sulla sua immaginazione. Non solo sulla Somme erano morti due suoi carissimi amici e sodali, ma quel che lì vide fu di certo trasfigurato in alcune parti del Signore degli Anelli. Che inizialmente si sarebbe dovuto intitolare The War of the Ring, «La Guerra dell’Anello», il che appare significativo, dato che fa pensare alla sua giovanile e traumatica esperienza. Se si pensa poi alla descrizione di Mordor e della landa che Frodo e Sam attraversano faticosamente, molte similitudini possono venire in mente: l’aldilà oscuro e la terra dei morti della mitologia classica; le terre imputridite dall’inquinamento industriale contro il quale lo scrittore lanciava le sue invettive quando viveva a Oxford; e infine la «no man’s land» di fronte alle trincee inglesi e francesi che le divideva da quelle tedesche: crateri di bombe, fumi delle esplosioni, filo spinato, esalazioni di gas, pozze d’acqua infetta, cadaveri, ruderi di case sventrate dalle cannonate. Uno scenario apocalittico rimasto impresso nella mente e nel cuore, che si riverbera nella sua scrittura.
Come tanti letterati presenti su tutti i fronti, Tolkien affrontò la disumana «guerra di materiali» come poi la definì un soldato che forse Tolkien ebbe di fronte, oltre i reticolati, Ernst Jünger. Un conflitto ancor più disumano della «guerra di uomini» come era sempre stata sino a quel momento… Dove la «macchina» senz’anima ha il predominio e gli esseri viventi sono nulla, in sua balìa.
John Garth, Tolkien e la Grande Guerra. La soglia della Terra di Mezzo, Marietti 1820, Genova, 2007
Questa fondamentale biografia su J.R.R. Tolkien rivela l’orrore e l’eroismo che egli ha realmente vissuto come ufficiale nella Battaglia della Somme e descrive il suo rapporto col TCBS, il primo circolo di amici intimi di Tolkien, che in quegli anni lo spinsero a scrivere la sua mitologia.
Un uomo pallido e provato è convalescente nel letto di un ospedale di guerra. Tira fuori un quaderno e, usando una calligrafia molto elaborata, scrive sulla copertina: Tuor e gli esuli di Gondolin. Poi si ferma, riflette un po’, fa un sospiro fra i denti chiusi sulla pipa, e borbotta: “No, non può più andare”. Basterebbe quest’immagine per riassumere molte cose: siamo nel 1917 e la Prima Guerra Mondiale è al suo culmine. L’uomo è J.R.R. Tolkien e quel quaderno è l’origine delle leggende che troveranno forma compiuta nel Signore degli Anelli. Appartenente alla leva del 1892, lo scrittore inglese venne catapultato nel marasma della Grande Guerra insieme a tutti i suoi amici. La maggior parte di loro non sopravvisse al conflitto e forse è proprio per questo che il sopravvissuto Tolkien si sentì autorizzato a perseguire quel disegno d’epica della modernità che farà nascere il suo capolavoro.
Racconta tutto questo un approfondito studio, pubblicato dalla Marietti, Tolkien e la Grande Guerra. La soglia della Terra di Mezzo, terzo volume della collana “Tolkien e dintorni”. L’autore, John Garth, giornalista dell’Evening Standard di Londra, ha passato due anni sotto una montagna di carta, spulciando tra gli archivi dell’esercito britannico, gli stati di servizio degli ufficiali durante il conflitto, gli appunti che Tolkien stesso aveva conservato, oltre alle lettere del Tea Club and Barrovian Society (TCBS). Era questo il circolo dei compagni di scuola dello scrittore che si pensavano predestinati a rivoluzionare la sensibilità del secolo appena cominciato, ad «accendere una nuova luce nel mondo» (p. 241), ma che trovarono quasi tutti la morte nella tragedia dei loro tempi. Tolkien parlò inoltre spesso delle sue esperienze di guerra ai suoi figli Michael e Christopher, mentre questi prestavano a loro volta servizio durante la Seconda Guerra Mondiale.
Il libro si concentra sugli anni che vanno dal 1910 al 1919. Sono anni cruciali, quelli della formazione universitaria e dell’esperienza bellica. Emerge un’immagine un po’ diversa dello scrittore. Lo troviamo mentre lotta nel fango, in un campo da rugby durante un incontro della squadra del liceo, mentre affronta con fatica gli esami universitari o organizza iniziative per il recupero della cultura antico inglese. È una figura lontana dall’austero professore di Oxford degli anni della maturità. Eppure, proprio in questi anni sono poste le basi per le sue opere maggiori.
Le lusinghe della propaganda
Sfogliando il capolavoro di Tolkien sono chiare le idee che lo scrittore aveva sulla guerra. Si può leggere, ad esempio, il brano in cui Sam Gamgee vede un nemico morire davanti ai propri occhi:
«Era per Sam la prima immagine di una battaglia e non gli piacque… Avrebbe voluto sapere da dove veniva e come si chiamava quell’uomo, se era davvero d’animo malvagio, o se non erano state piuttosto menzogne e minacce a costringerlo ad una lunga marcia lontano da casa; se non avrebbe invece preferito restarsene lì in pace…».
Menzogne e lusinghe erano il pane quotidiano nell’Inghilterra del 1914, dove la propaganda militare martellava i giovani con campagne d’arruolamento fin dentro le università. Tolkien, studente a Oxford, venne anche criticato perché si arruolò soltanto dopo la laurea e il matrimonio, un anno dopo i suoi amici e colleghi. Fu una generazione intera che si arruolò avendo negli occhi le imprese dei cavalieri medievali e le conquiste dell’impero coloniale britannico. Fu una generazione intera che perì nelle trincee della Francia, sotto le bombe dell’artiglieria e i proiettili delle mitragliatrici: nella battaglia della Somme ci furono oltre 620mila vittime, 57mila solo nel primo giorno. Quel che la propaganda descriveva con toni trionfalistici era in realtà «un carnaio» in cui l’uomo soccombeva alla tecnologia e alle macchine. Tutto questo, come scriverà un amico del college a Tolkien, soltanto per «pochi acri di fango». Tolkien se ne rese subito conto, tanto da scrivere già mentre era al campo d’addestramento:
«Lo spreco della guerra, non solo materiale ma morale e spirituale è così sconcertante per quelli che devono subirlo. E lo è sempre stato (nonostante i poeti), e sempre lo sarà (nonostante la propaganda)…». (p. 377)
Il dolore e lo strazio per la perdita degli amici più cari, il forzato distacco dalla sua amata Edith e il sentimento di disperata impotenza di fronte all’avvento delle nuove macchine da guerra, sono per Garth i fattori che segnano maggiormente il nascere e il definirsi dell’intero legendarium di Tolkien. Al fronte, lo scrittore vide la morte in faccia in almeno due occasioni: all’inizio della campagna della Somme, in un attacco notturno a un villaggio presidiato dai tedeschi, e in un freddo giorno d’autunno nella conquista di una trincea nemica. All’età di 24 anni, Tolkien era ufficiale segnalatore del suo battaglione e passò mesi nelle trincee francesi dove fu testimone di tutti gli orrori della “morte meccanizzata”: ripetitiva, scientifica, impersonale e tuttavia sempre presente e imprevedibile. I soldati camminavano faticosamente nel fango, vivevano in trincee sporche e infette, in balia dei capricci del tempo, aspettando ordini a volte inutili o attacchi suicidi.
Nel 1916 Tolkien si ammalò come molti suoi compagni e fu rimpatriato, con la testa piena di quelle tragiche immagini che sarebbero riemerse più di venti anni dopo nel suo capolavoro. In ospedale, Tolkien scrisse la Caduta di Gondolin, l’ossessionante epica della città che viene distrutta da un attacco a sorpresa di un esercito nemico. Il meglio e il peggio dell’esperienza bellica dello scrittore è incarnato dai brutali goblin che attaccano e dagli elfi che si difendono strenuamente contro ogni speranza.
Tolkien perse due dei suoi migliori amici nell’offensiva della Somme e la Grande Guerra si prese la vita di un quarto dei suoi conoscenti, studenti laureati a Oxford o Cambridge. Lo scrittore rielaborò più volte la sua mitologia, ma non la completò mai: una parte fu pubblicata postuma, col nome di Silmarillion. Il Signore degli Anelli ne riflette l’atmosfera scura e la tensione narrativa, ma ha toni anche vivaci perché descrive la Terra di Mezzo – il nostro mondo in un’era pre-storica – attraverso gli occhi degli hobbit. Sono questi gli uomini comuni, i borghesi inglesi e più specificamente, i manovali e gli operai che formavano lo scheletro del battaglione di Tolkien, l’11° Fucilieri del Lancashire. Nella figura di Sam si può anche scorgere quella dell’attendente (il “bateman”), il soldato che si occupava dei problemi pratici di un ufficiale dell’esercito britannico. Tra i due si instaurava un rapporto d’amicizia profondo, simile a quello che si crea nel libro tra Sam e Frodo.
Tragiche realtà e accuse di escapismo
Da quel “punto morto” che fu la Prima Guerra Mondiale emersero due movimenti letterari nuovi ed enormemente influenti: quello dei War poets, gli “scrittori della Grande Guerra” appunto, e il Modernismo. Entrambi non ebbero che un’influenza trascurabile su Tolkien.
Della pletora di scritti prodotti dai soldati, ciò che si ricorda è un amalgama di amare proteste e di coraggiosi primi piani, inflessibilmente diretti nella descrizione della vita e della morte in trincea. Padroneggiando questo stile, Robert Graves, Siegfried Sassoon e Wilfred Owen, sono i più celebri. Alcune delle poesie di Owen sono diventate la misura di tutte le altre descrizioni della Prima Guerra Mondiale – o perfino della guerra in generale. Ricercando la franchezza, Graves e i suoi amici hanno rigettato il lessico usato da giornali, propaganda e poesia tradizionale, che filtravano la guerra attraverso lo stile ereditato dai conflitti precedenti. La più famosa poesia di Owen, Inno per una Gioventù Condannata, sottolinea questo divario fra immagine sacra della guerra e la realtà:
Quali campane funerarie per quelli che muoiono come bestiame? Solo la mostruosa rabbia dei cannoni.
Tolkien non fece parte neanche della sperimentazione modernista dei primi anni del dopoguerra. L’epoca della Terra Desolata di T.S. Eliot e dell’Ulisse di James Joyce era per lui «un’epoca in cui a tutti gli autori si permette di bistrattare l’inglese (specialmente se in modo dirompente) nel nome dell’arte o dell’“espressione personale”».
Diversamente da tutti loro, Tolkien scrisse molto poco di quel vide nelle trincee. Ma quelle immagini si ritrovano nel Signore degli Anelli: nei visi bellissimi e putrefatti che affiorano dalle putrescenti Paludi Morte; nell’urlo di Merry quando si aggrappa disperatamente al suo nemico per poi piantagli un pugnale nel ginocchio; in Frodo e Sam accucciati in un cratere nel terreno, mentre tutto erutta intorno a loro e si domandano se è la fine; nello stupore e al tempo stesso terrore con cui Sam vede per la prima volta l’Olifante, grande come un edificio, precipitarsi giù da una collina; e infine nelle schiere degli elfi del Martello d’Ira, che combattevano con grandi mazze e scudi pesanti, sterminate fino all’ultimo dopo essere rimaste isolate tra i nemici. Questa è la Grande Guerra, non romanzata in maniera tragica ma interiorizzata come amara esperienza personale. Decisamente in contrasto con la sua immeritata reputazione di scrittore escapista, l’opera di Tolkien quindi riflette decisamente l’impatto della guerra; inoltre, la sua voce dissidente esprime aspetti dell’esperienza di guerra che i suoi contemporanei hanno tralasciato.
A lungo considerato una metafora degli avvenimenti della Seconda guerra mondiale, la trilogia sviluppa intuizioni già elaborate dall’autore in seguito alla sua esperienza bellica. Ma a essere decisivo, come sempre accade nell’opera di Tolkien, è l’atteggiamento linguistico dello studioso di letteratura anglosassone che arriva al fronte mentre sta già perfezionando la complessa grammatica elfica destinata a fornire uno dei più sorprendenti sviluppi al Signore degli Anelli. Il contrasto fra la continua fabbricazione di neologismi da parte dei soldati inglesi in trincea e la raffinata rielaborazione di lingue e tradizioni nordiche intrapresa da Tolkien è esaminata con estrema precisione da Garth, che dedica pagine illuminanti anche alla genesi dei cosiddetti Racconti perduti da cui germinerà la ramificata mitologia del Silmarillion. Ma ancora più dettagliata e rivelatrice è l’analisi della prima produzione poetica di Tolkien, che durante l’esperienza bellica consente una sorta di contrappunto al «disincanto» degli autori contemporanei, erroneamente convinti che l’epica non possa essere una radicale – e profetica – forma di realismo. Robert Graves, nel suo Goodbye To All That, dice addio agli ideali dell’Impero britannico e al patriottismo cieco, ma dimentica che da soldato sul Fronte Occidentale non poteva far altro che morire in maniera implacabile, tornare a casa mutilato o in barella. I miti di Tolkien ci dicono un’altra verità sulla guerra: i soldati in quell’immenso orrore erano qualcosa di più che vittime passive. Erano persone reali, renitenti, terrorizzate, codarde e brutali. Ma talvolta anche eroiche.
da Roberto Arduini
Cento anni fa, pochi giorni dopo l’avvio della più sanguinosa offensiva della Prima Guerra Mondiale, il comando militare britannico dislocava sul fronte della Somme l’11mo Fucilieri del Lancashire, e un sottotenente chiamato John Ronald Reuel Tolkien si trovò nel pieno dell’inferno dell’attacco. Ne sarebbe nato uno dei libri più letti e tradotti di tutta la letteratura del secolo scorso, “Il Signore degli Anelli”. Tolkien, all’epoca, aveva 24 anni ed era impegnato nelle comunicazioni tra le truppe in prima linea. Era fresco di laurea ad Oxford e di matrimonio. Con lui sulla Somme c’erano quattro compagni di corso. Ne sarebbero tornati solo lui e un altro. Ricorderà anni dopo: “Noi sottufficiali venivamo spazzati via, a decine al minuto”. Ungaretti avrebbe descritto lo stesso stato d’animo con una delle sue poesie più belle, “Soldati”; Tolkien si rifugiò nella poetica norrena ed eddica: Beowulf e le saghe nordeuropee.
Sotto il riparo di tende di fortuna, spesso nel fango delle trincee nel bagliore delle luci da campo inizia a gettare i primi schizzi della cosmogonia del Silmarillion, della mitologia delle Terra di Mezzo, infine della descrizione della Contea, terra pacifica e serena dove tutti sognano di tornare. L’offensiva dura dal luglio al novembre del 1916: quattro mesi nel corso dei quali Tolkien partecipa al macello che furono la battaglia del Crinale di Thiepval, quella per la Ridotta di Schwaben e quella per la presa della trincea Regina. Nella sola prima giornata dell’Offensiva della Somma i morti britannici erano stati 19.240. Mai erano stati cosi’ tanti in un solo giorno di guerra prima di allora, mai lo sarebbero stati nemmeno in seguito. Alla fine delle operazioni i caduti dall’una e dall’altra parte avrebbero superato i 300.000: era l’Europa che si suicidava.
Tolkien vive fino in fondo questa esperienza di fango, paura e morte. Viene colpito dalla febbre da trincea, una malattia trasmessa dalle pulci che infestavano le postazioni militari. Ricoverato, può passare un periodo di convalescenza nello Staffordshire e completa il primo dei “Racconti Perduti”, “La Caduta di Gondolin”. Ma sono le pagine abbozzate sulle Morte Paludi, e soprattutto quelle in cui si descrivono le grandi battaglie e gli assedi, che fanno del “Signore degl Anelli” l’opera che più di tutte riprende la terribile esperienza di quei quattro mesi. Orchi, nani e gnomi non sono solo i popoli e le razze che si incrociano nella Terra di Mezzo o lungo il cammino che porta al Monte Fato: sono le categoria in cui si suddivide l’uomo sotto l’incessante cannoneggiamento del pezzo da novanta. E il tempo scandito dal cannoneggiamento, mentre si è in trincea, è lo stesso che si vive tra le mura di Minas Tirith, cosi’ come respingere l’offensiva nemica nelle strettoie della trincea diviene, all’inizio delle Due Torri, la disperata resistenza della Battaglia del Fosso di Helm. Lo stesso Assedio di Gondor vede gli orchi “scavare, scavare linee di profonde trincee a fornare un anello sconfinato”. E la stessa creazione meccanica degli orchi a Isengard ricorda la formazione e l’addestramento delle truppe, volto a trasformare il soldato in macchina da combattimento. Le stesse Morte Paludi, in un riferimento particolarmente esplicito, altro non sono per Tolkien se non i campi della Somma impregnati di morti e acqua marcia dopo le piogge e i combattimenti dell’ottobre 1916.
Ma ad essere plasmati dalla terribile esperienza della Somma sono due punti salienti della trilogia del Signore degli Anelli. Il primo è costituito dalla figura dell’Hobbit, mezzo uomo e amante del privato, della birra e delle feste, costretto ad affrontare prove più grandi di lui perché altrimenti anche la sua amata Contea sarà spazzata via da una furia che prima o poi arriverà. L’Hobbit è per eccellenza l’antieroe, l’uomo riuscito anche fisicamente a metà in un’epoca in cui sono considerati veri uomini solamente gli eroi e gli arditi. Frodo Baggins e Samwise Gamgee sono figure quasi fuori luogo, del tutto inferiori all’impresa cui sono chiamate: sono la raffigurazione di quelle centinaia di migliaia di persone normali che si trovarono costrette a buttarsi sul filo spinato o sotto il fuoco della mitraglia per conquistare pochi metri di terreno. A riguardo, anche dopo la Seconda Guerra Mondiale (il Signore degli Anelli viene pubblicato nel 1953), Tolkien è categorico: l’Hobbit è “il riflesso del soldato britannico“, vittima della guerra e del motore che l’ha scatenata: la volontà di potenza. Questa, insieme alla nostalgia, è una delle grandi tematiche del libro. E’ la volontà di potenza che muove Sauron, il Male che minaccia tutta la Terra di Mezzo. L’Anello che la racchiude rende schiavi, a cominciare dalla figura disperata di Gollum. E lo stesso Frodo, alla fine, vi cede anche se solo in parte: come tutte le abiezioni, si tratta di un male più contagioso della febbre da trincea. Quella prendeva soprattutto la gente normale, il soldato medio o il sottufficiale J. R. R. Tolkien, del 11mo lancieri del Lancashire, mandato nelle retrovie dopo aver visto lo scempio della Somme e aver trovato un primo, disperato rifugio nella letteratura norrena.
da Nicola Graziani
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http://www.nationalarchives.gov.uk/pathways/firstworldwar/index.htm
Officer’s service record: J R R Tolkien |
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John Ronald Reuel Tolkien was born in Bloemfontein, South Africa on 3 January 1892. He went to England with his family after his father’s death in 1896 and grew up in the West Midlands. After his mother’s death in 1904, Tolkien and his brother were cared for in a local boarding house under the watchful eye of a Catholic priest. A prodigious linguist, Tolkien entered Exeter College, Oxford in 1911. |
Outbreak of war |
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Unlike many of his contemporaries, Tolkien did not rush to enlist in the British army after the outbreak of war in August 1914. Instead he completed his studies at Oxford, in June 1915, before finally enlisting as a second lieutenant in the Lancashire Fusiliers later in the same year. After a number of dull months at various training camps in England, Tolkien embarked for France in June 1916. He saw action almost immediately at the Battle of the Somme (July-November 1916), which claimed the lives of two of his closest friends.
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