Note sulla Grande Guerra nel Biellese
di Massimiliano Franco
La devianza, come ogni altro fenomeno sociale, non sfugge all’influenza della guerra. Nei periodi bellici e nei dopoguerra la frequenza di alcuni reati ha spesso registrato variazioni molto rilevanti (uno dei primi studiosi a osservare tale fenomeno è stato il sociologo francese Émile Durkheim il quale, esaminando la guerra franco-prussiana del 1870, notava che, in quell’anno, il numero dei furti e delle truffe era diminuito e quello degli omicidi era rimasto costante, mentre al termine del conflitto il numero di tutti i delitti era cresciuto piuttosto considerevolmente[i]). Anche per il Biellese possiamo rilevare come all’interno del periodo tra il 1914-15 e il 1918 l’andamento medio dei reati subisca alcune modificazioni notevoli, sia per il numero sia per la natura di certi delitti[ii]. Dalla disamina dei fascicoli penali, perciò, si possono sinteticamente ricavare una serie di osservazioni: a. innanzi tutto crescono i furti e le appropriazioni indebite commessi da donne, a confermare lo scadimento delle condizioni di vita e un’affannosa ricerca di mezzi di sostentamento alternativi; b. appare in secondo luogo estesa l’inosservanza delle ordinanze impartite dalle autorità civili (comuni e sottoprefettura) e militari in tema di sicurezza pubblica (apertura/chiusura dei locali, vendita di generi comuni e di sostanze alcoliche, movimenti della popolazione civile); c. più nello specifico si registra un crescendo di contravvenzioni alle norme annonarie tese a regolamentare produzione, importazione, esportazione, consumi e prezzi dei beni di più largo utilizzo, con il conseguente proliferare di fenomeni di contrabbando e di mercato nero; d. compaiono, da ultimo, azioni specifiche di opposizione alla guerra, in graduale aumento mano a mano che si intensifica il conflitto: renitenza alla leva, pratiche di autolesionismo, atti di diserzione, sentimenti disfattisti e antimilitaristi, proteste politico-ideologiche, specie in ambito socialista. Tanto i reati individuali quanto le manifestazioni di piazza seguono un andamento crescente che tocca il suo culmine nel corso del 1917, quando esplode il malcontento generale per l’aumento dei prezzi, la rarefazione delle merci e la cattiva gestione delle requisizioni militari nelle campagne, mentre le infrazioni ai regolamenti annonari proseguono per tutto il 1918 e fino alla fine del 1919[iii], marcando una tendenza che si ripresenterà, in forma amplificata, anche alla fine della seconda guerra mondiale.
Fin dall’inizio del conflitto è consistente la quota di donne propense o costrette a commettere reati di varia natura. Si tratta nel complesso di una situazione risultante da due fattori, il primo più intuitivo, legato innanzitutto al cambiamento nella composizione per sesso ed età della popolazione (il conflitto bellico, infatti, per effetto della chiamata alle armi allontana dalle case e dalle strade un gran numero di giovani uomini, ovvero proprio gli appartenenti al gruppo che, in percentuale, più frequentemente commetteva tali reati), il secondo più complesso perché connesso a dinamiche di mutamento socio-culturale di varia natura, così che, ha scritto una studiosa americana, «nel momento stesso in cui si battevano per l’eguaglianza delle opportunità nel campo delle attività legali, le donne si facevano prepotentemente strada anche nel mondo della criminalità»[iv], laddove per la situazione biellese l’unica discrepanza riguarda l’uso dell’avverbio, forse troppo forte per il contesto. In ogni modo, le donne, sia quando tentano di risolvere dei problemi materiali contingenti, sia quando auspicano l’immediata fine della guerra, minacciando di scioperare nei campi e nelle officine oppure chiedendo l’aumento dei sussidi, sia quando subentrano a padri, mariti, compagni e fratelli sui luoghi di lavoro, sia ancora quando si dimostrano più disponibili a commettere infrazioni alla legge, diventano come mai in precedenza «soggetti pericolosi»[v], in grado di portare in questo loro inedito protagonismo espressioni e forme proprie di un bagaglio mentale e culturale antico, che gli stravolgimenti bellici, anziché scardinare, hanno fatto riaffiorare di nuovo. Nel complesso, nei quattro anni di guerra, sono 201 le biellesi denunciate presso l’autorità giudiziaria, per lo più per reati politici o contro la proprietà e il commercio, anche se spesso con talune complicanze, come nel caso di Felicita G*, costretta dal convivente a prostituirsi e borseggiare, che viene arrestata nel 1918 a Biella per furto ed appropriazione indebita[vi]. In tutti i casi parliamo di persone che provengono da ambiti socialmente ben delimitabili (lo strato contadino del basso Biellese, le botteghe) e politicamente connotati (il mondo delle fabbriche). Così, per es., Caterina L*, arrestata il 10 gennaio del 1918 per avere venduto all’attendente di un ufficiale dell’esercito alcune patate a 0,80 anziché a 0,40 lire al chilogrammo, viene processata per direttissima e condannata a tre giorni di detenzione e al versamento di 20 lire di multa[vii]. Erminia O*, gerente della Trattoria del sole, invece, dopo il richiamo del marito, sola e con un figlio piccolo, inesperta per di più della conduzione d’un esercizio pubblico, viene trovarsi nella più completa indisponibilità di denaro, tanto da non poter pagare non solo i creditori ma anche l’affitto, finché, accusata di bancarotta, è condannata ad una pena di cinque mesi di detenzione[viii]. Secondina B*, erbivendola di 48 anni, Maria M*, levatrice di 58, e sua figlia Maria Clara, sono al contrario processate per un giro di aborti clandestini che coinvolgono alcune giovani donne desiderose di nascondere gravidanze improvvide o adulterine[ix]. Marina R*, contadina di Castelletto Cervo, 27 anni, socialista, finisce invece nei guai per una lettera inviata al cognato in cui esprime «espressioni antipatriottiche» e «parole esaltate»: «Ti puoi immaginare come si vive quaggiù […]. L’intransigenza nostra non cambia direttiva, però le rappresentanze nostre [dopo la rotta di Caporetto] vogliono [prima] cacciare il nemico. Approvi? Informati tutti i deputati socialisti biellesi. Però intendimi. Oggi i soldati italiani, con bravura, arrestano il nemico. Ieri, demoralizzati da noi, lasciarono la strada al libero passaggio del nemico. Nervi a posto, brava gente. Non tutti moriranno e se son rose fioriranno, come io dico sempre…»[x]. Anna A*, di 17 anni, e Maria P*, di 21, vengono denunciate alle autorità militari per una canzone antimilitarista: «La figlia di Cadorna a l’è na gran putana!»[xi]. Salvina Q*, 23 anni, viene fermata per avere rivelato in pubblico i suoi sentimenti antipatriottici: «Amor patrio un corno, secondo me m’importerebbe poco d’esser tedesca, ma basta che la carneficina presente cessasse!»[xii]. Elda A*G*, infine, ricamatrice a Coggiola, 27 anni, ostentando entrature e certi contatti in ambiente medico-militare, promette dietro pagamento l’esonero dal servizio di leva per ragioni di salute, fidando sulla evidente angoscia, se non sulla disperazione, delle persone che l’avvicinano: uno dei raggirati «è un vaccaro di nome Eugenio […], un uomo onesto che tutti lo compatiscono tanto più che l’Elda dopo averlo rubato gli fa paura, perché, se denuncia il fatto, lei lo fa mettere in prigione dal maresciallo suo protettore. La medesima truffa l’à tentata con altre persone […], poveri ingenui che le capitano sotto le unghie»[xiii] (è in questo stesso modo che, nel luglio del 1918, esordisce alla cronaca anche Leonarda Cianciulli, la futura saponificatrice di Correggio[xiv]).
Più cospicuo e variegato è il contingente maschile. Anche in questo caso le fonti archivistiche disegnano un quadro complesso, che va dalla situazione “insostenibile” dei piccoli commerciati, presi a mezzo tra il forte disagio alimentare del Biellese (qui accresciuto da una modesta produzione agricola, dalla mancanza di patate e di legumi, dalla scarsità di latte, per la cui distribuzione le autorità sono costrette ad inviare le forze di polizia nei locali di vendita per contenere le proteste ed impedire lo scoppio dei disordini) e la montante ostilità del proletariato e di molti settori della piccola e media borghesia (che individuano in loro i responsabili del rincaro e della mancanza di viveri), fino alla riottosità di fronte all’imposizione di lacci e lacciuoli alla normale mobilità dei lavoratori, specie se stagionali. I primi casi di reato si registrano già a ridosso dell’intervento e si indirizzano soprattutto contro la mobilitazione militare e contro gli istituti militari. Si tratta di episodi piuttosto numerosi, non ancora studiati in modo sistematico, che riguardano proteste contro la partenza dei soldati per il fronte. È il caso di Angelo C*, salumiere trentottenne di Cossato, richiamato alle armi, che viene fermato dai carabinieri mentre sale sul treno alla stazione di Biella per aver detto «ad alta voce e ripetutamente in modo da farsi sentire da tutti gli altri militari che rientravano alla loro sede la seguente frase: avanti fieu, anduma tutti al masel»[xv]. Per tanti l’escamotage più semplice, consiste nell’evitare di presentarsi alla leva. Giuseppe M*, di Masserano, operaio, classe 1891, dopo essere stato riformato scrive una cartolina a una zia, madre di un suo cugino che sta a Losanna, per convincerlo a non ritornare: «Sarebbe meglio che lui andasse la visita al consolato italiano, e se caso lo facessero abile è meglio che rimanga lì: del resto, se viene in Italia, lo potrebbero mandarlo al fronte e rimanerci per sempre, e se anche rimanga lì è fuori di tutti i pericoli, che lui appena finita la guerra può venire in Italia come prima. Non ascoltare le ciacole dei giornali»[xvi]. Il comune sentirsi oppressi dagli ingranaggi dello Stato favorisce il manifestarsi ricorrente di forme di connivenza, di solidarietà e fraternizzazione popolare che esorbitano anche dalle matrici schiettamente politiche per rientrare invece, a buon diritto, nel contesto di una subalternità resistente.
Cosi’ ci appare il caso di Angelo A*, detto Berta, classe 1871, coniugato, sette figli, senza simpatie politiche note, negoziante di legnami, che, insieme ad altri due suoi conoscenti, un margaro ed un bracciante pregiudicato, trova lavoro a due disertori milanesi nell’alpe Fontanone, sopra Portula[1]. Così anche Luigi R*[2], classe 1879, commerciante di Mosso, proprietario d’uno spaccio di alimentari e di vini, che dà da dormire al suo garzone e ad alcuni disertori nella soffitta del suo esercizio, mettendoli a libro-paga (ma non tutti i disertori sono vittime che si danno alla macchia per fuggire gli orrori della guerra: così, per esempio, nel 1917 due fanti biellesi sono arrestati per stupro violento seguito da omicidio volontario di una ragazza).
Un discorso a parte lo meritano, pur in breve, le parole sulla guerra, dette e scritte. Moltissimi uomini nel corso del conflitto imparano a scrivere. L’idea di dar mano alla penna può dipendere da diversi fattori, ma emerge la convinzione che la guerra, lunga e devastante, abbia interrotto in modo irrimediabile la continuità della vita, gettando le persone in un’esperienza senza precedenti. Da qui il desiderio diffuso di lasciar traccia di sé, il bisogno di fermare sulla carta brandelli di un’identità minacciata e sconvolta da eventi enormi. Scrivere significa mantenere un legame con sé e con gli altri, e soprattutto dare segni di vita, della propria sopravvivenza quotidianamente messa a repentaglio[3]. Tuttavia scrivere significa anche incappare nelle maglie della censura, di quella militare e di quella di PS. Così, se Giovanni G*, di Magnano, classe 1894, racconta delle sue esperienze di combattimento e poi della sua cattura, a cui fa seguito un lungo calvario nei campi di prigionia austriaci[4], il soldato Clemente T* ci parla prima di tutto della sua pena quotidiana e della nostalgia per la lontananza dai suoi cari. Destinato a un reparto sanitario di un ospedale militare a Pallanza (anche se non possiede conoscenze mediche), scrive: «Si comincia a sentire gli effetti ed i disagi del terribile macello, che è a null’altro destinato che a distruggere il popolo Europeo. Io fortunatamente non sono al fronte, come lo sono molti miei compagni e amici, [perché] con poca, anzi pochissima istruzione e disarmati quasi al completo, ci inviarono negli ospedali di riserva a far l’infermiere, e cioè a curare i feriti e i malati». Spedisce a casa un ritratto fotografico in cui posa indossando «la poco onorata divisa» e finisce, ovviamente, per attirarsi le cure dei censori[5]. Anche R*R*, 22 anni, tessitore, in una serie di lettere e cartoline manifesta la sua avversione al conflitto con parole, secondo gli inquirenti, «dirette a deprimere lo spirito pubblico ed a diminuire la resistenza del Paese». Essendo socialista, in più di un’occasione fa riferimento ad iniziative di carattere politico: «Dovunque mi trovi il mio pensiero è verso coloro che sono rimasti sulla breccia a lottare per il nostro grande ideale di libertà, contro questo regime di iniquità, che vuol ritornare il popolo alla ignoranza e alla schiavitù»[6]. Anche sul fronte interno, comunque, scrivere e dire certe cose è rischioso: Antonio P*, cartolaio di Serravalle, è arrestato dalle autorità per via delle illustrazioni delle cartoline postali che vende[7], mentre Giuseppe M*, 42 anni, originario di Pavia, professore al Liceo di Biella, viene accusato da allievi e colleghi di fare dell’antipatriottismo dalla cattedra[8]; Edoardo Z*, soldato del 33° fanteria in licenza, già magazziniere presso il lanificio Bozzalla, nel dicembre 1917 in una bettola di Crevacuore viene invece sentito dire «l’entrata in guerra dell’Italia non è stata giustificata, che gli Italiani debbono imparare dagli Austriaci e dai Tedeschi, di non avere il partito socialista colpa alcuna circa la recente ritirata, che i soldati non vollero combattere, di non sentire amor di Patria e quindi di non sentire la necessità di difenderla, e che tanto valeva per lui dipendere dall’Austria come dall’Italia»[9].
Alla fine della guerra il conflitto, come è noto, continuerà, sebbene in forme diverse, né basterà l’aver portato a casa la vittoria per riuscire a sanare le tante fratture nel frattempo scavatesi all’interno della società. Il 10 novembre 1918 un grande corteo operaio per le vie di Biella termina con l’approvazione di un ordine del giorno rivendicativo, mentre i problemi legati al caroviveri non paiono ridursi e già si profilano all’orizzonte quelli della smobilitazione, fisica e psicologica.
[Articolo pubblicato: Devianza al femminile, in «Rivista Biellese», XXII, 4, 2018, pp. 41-46]
[1] Ivi, m. 736, Procedimento penale contro A* Angelo, V* Vittorio e F* Giovanni Battista, Verbale di denuncia dei R. Carabinieri, 9 giugno 1917; Certificati di moralità, 10 giugno 1917.
[2] Ivi, m. 735, Procedimento penale contro R* Luigi, Verbale dei R. Carabinieri, 15 giugno 1917; Sentenza del Tribunale Militare Territoriale di Torino, 15 novembre 1917.
[3] A. Gibelli, Perché la scrittura, in «Movimento operaio e socialista», 1989, 1-2, p. 7; Id., La grande guerra degli italiani 1915-1918, Rizzoli, Milano 2014 (1998), pp. 138-141. Sulla censura cfr.: O. Forcade, Informazione, censura e propaganda, in La prima guerra mondiale, a c. di S. Audoin-Rouzeau e J.-J. Becker (ed. it. a c. di A. Gibelli), 2 voll., Einaudi, Torino 2014 (2004), vol. I, pp. 504-519.
[4] Si veda N. Maranesi, Avanti sempre. Emozioni e ricordi della guerra di trincea, Bologna, il Mulino, 2014, pp. 138 sg.
[5] ASBI, Tribunale, Fascicoli penali, m. 728, Procedimento penale contro T* Clemente, Lettera del 29 febbraio 1916.
[6] Archivio Centrale dello Stato, T.S., Tribunale di Guerra, b. 105, f. 157/II, Sentenza n. 999 (da E. Forcella, A. Monticone, Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 1972, pp. 318 sg.). Alla condanna al carcere (dieci anni, cioè il massimo della pena, giustificata dalla «volontà disfattista e sovversiva» delle missive), si associa la pena di morte tramite fucilazione alla schiena per quattro giorni di ritardo “non giustificato” al ritorno dalla licenza.
[7] ASBI, Tribunale, Fascicoli penali, m. 743, Procedimento penale contro P* Antonio, Processo verbale di denuncia, 5 luglio 1918, Nota della Regia Sottoprefettura della Spezia, 16 luglio 1918.
[8] Ivi, m. 741, Procedimento penale contro M* Giuseppe, Memoriale del 4 febbraio 1918. Su questo caso si può vedere M. Franco, Il professore disfattista, in «Rivista Biellese», XXII, 1, 2018, pp. 5-11.
[9] Ivi, Procedimento penale contro Z* Edoardo, Verbale di denuncia dei R. Carabinieri, 11 dicembre 1917.
Note
[i] É. Durkheim, Leçons de sociologie. Physique des mœurs et du droit. Cours dispensés entre 1890 et 1900, Paris, Les Presses universitaires de France, 1950 (trad. it., Lezioni di sociologia. Fisica dei costumi e del diritto, Milano, ETAS, 1973, pp. 115-16).
[ii] Una quantificazione veramente precisa è inficiata da troppe variabili, tra cui l’atteggiamento repressivo e censorio delle forze dell’ordine e degli apparati giudicanti, per alcuni reati in senso maggiormente restrittivo e più lasco per altri, oltre al solito dark number delle statistiche criminali (cfr. R. Canosa, Storia della criminalità in Italia 1845-1945, Torino, Einaudi, 1991, p. 321). Per una analisi dei reati di opposizione locale al conflitto rimando a M. Franco, Antimilitarismo e disfattismo nel Biellese della prima guerra mondiale, in «Bollettino DocBi», Studi e ricerche sul Biellese, XXX, 2015, pp. 71-100.
[iii] M. Franco, La questione annonaria a Biella tra la fine dell’età giolittiana e la prima guerra mondiale, in «Studi e ricerche sul Biellese», XXIV, 2009, pp. 171-196; cfr. anche Id., Vita dura in bottega, in «Rivista Biellese», XVI, 3, 2012, pp. 5-15. Per una comparazione: M. Anastasia, Questione annonaria e piccoli commercianti a Torino nella prima guerra mondiale, in «Passato e presente», 44, 1998.
[iv] F. Adler, Sister in crime: the rise of the new female criminal, New York, McGraw-Hill, 1975, p. 1.
[v] Cfr. P. Sorcinelli, Il quotidiano e i sentimenti, Bruno Mondadori, Milano, 1996, pp. 62-65.
[vi] Archivio di Stato di Biella (ASBI), Tribunale di Biella, Fascicoli penali, m. 742, Procedimento penale contro G* Felicita.
[vii] Ivi, m. 739, Procedimento penale contro L* Caterina.
[viii] Ivi, m. 727, Procedimento penale contro O* Erminia.
[ix] Ivi, m. 716, Procedimento penale contro B* Secondina; m. 735, Procedimento penale contro M* Maria e M* Maria Clara.
[x] Ivi, m. 741, Procedimento penale contro R* Marina, Lettera del 24 novembre 1917.
[xi] Ivi, m. 746, Procedimento penale contro A* Anna e P* Maria, Processo verbale dei R. Carabinieri, 17 settembre 1918, Verbale d’udienza per direttissima, 26 settembre 1918, Testo della canzone con controfirma di A* Anna, 17 settembre 1918, Interrogatorio delle imputate, 19 settembre 1918.
[xii] Ivi, m. 740, Procedimento penale contro Q* Salvina.
[xiii] Ivi, m. 734, Procedimento penale contro A*G* Elena, Verbale d’udienza del 24 maggio 1917, Lettera anonima indirizzata al Procuratore del Re di Biella, Interrogatorio dell’imputata, 2 aprile 1917.
[xiv] B. Bracco, La saponificatrice di Correggio. Una favola nera, Bologna, il Mulino, 2018, p. 30.
[xv] ASBI, Tribunale, Fascicoli penali, m. 726, Procedimento penale contro C* Angelo, Processo verbale d’arresto, 18 febbraio 1916, Interrogatorio dell’imputato, 21 febbraio 1916.
[xvi] Ivi, m. 726, Procedimento penale contro M* Giuseppe, Lettera del 23 gennaio 1916.
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