Dal Volturno a Biella

Luigi Fanfani e la divisione “Medici”

di Massimiliano Franco

Nell’autunno del 1860 la conquista del Regno delle due Sicilie pose, anche dal punto di vista militare, una serie di problemi assai gravi ed urgenti. Dovendo decidere come trattare gli ex borbonici ed i garibaldini, entrambi malvisti (ma forse questi ultimi più dei primi disprezzati), sebbene per motivi diversi, il governo sabaudo, com’è noto, optò per un atteggiamento improntato ad una drastica rigidità, dettata più da timori politici e dalle pressioni delle alte sfere militari (gelose delle proprie tradizionali prerogative) che non da una strategia lungimirante. «I prodi dell’eroico Garibaldi, battezzati sui campi nel sangue delle loro ferite […],alle mani del nuovo governo furono e sono trattati peggio che cani». Malgrado il rancore ed il risentimento provato dai generali piemontesi contro gli irregolari, tacciati di eccessiva fede democratica se non proprio repubblicana, alcune centinaia di ufficiali garibaldini, con qualche difficoltà in più rispetto ai pari grado ex borbonici, furono comunque assorbiti nei quadri del neonato esercito italiano. Il Comando generale del Corpo dei volontari nell’Italia meridionale venne sciolto il 1° febbraio 1861. Entro il 16 febbraio successivo gli ufficiali e la truppa mantenuti in servizio vennero smistati in varie località del Settentrione. Così la divisione “Bixio” venne acquartierata a Vercelli, la “Cosenz” ad Asti, la “Türr” a Mondovì. La commissione di scrutinio dei titoli di ammissione fu trasportata da Napoli a Torino. A tutti coloro i quali avevano partecipato alla campagna del Meridione fu riconosciuto un indennizzo, e per gli ufficiali più promettenti venne istituita ad Ivrea una scuola teorico-pratica di perfezionamento sui regolamenti e sulle discipline strategico-militari. Agli osservatori meno sprovveduti, nondimeno, le disposizioni emanate parvero delle blandizie, utili tutt’al più per vellicare l’opinione pubblica progressista. Non erano molti coloro i quali si facevano grandi illusioni suquell’esercito «garibaldino» che si andava «rimontando in Piemonte»: se era vero che una selezione dei volontari doveva servire senza dubbio a escludere gli elementi indesiderabili, l’operazione finì d’altra parte con lo spingere alla disperazione molti uomini eccellenti, sperimentati soldati e sinceri patrioti. «Di quei numerosi che aspiravano di servire la patria nelle fila dell’esercito regolare […], [pochi] rimasero come ombre o scheletri superstiti delle quattro divisioni garibaldine. Ad ovviare poi al pericolo che anche le ossa potessero fare rumore, complicando le già gravi difficoltà del problema meridionale, […] quegli scheletri delle divisioni […] furono spediti in altrettanti depositi».

Tra gennaio e febbraio il Commissario di Guerra comunicò anche al Sindaco di Biella che la città era stata designata sede di quello che rimaneva della divisione “Medici”. Il 1° febbraio il Sindaco Coppa faceva dare alle stampe un manifesto in cui si annunciava la prossima venuta di 550 ufficiali e 300 militari di bassa forza, in ottemperanza al dettato del regio decreto 16 gennaio 1861. Per una popolazione che non arrivava a contare 9.000 abitanti l’arrivo di quasi un migliaio di militari rappresentava un impatto notevole, così che non pare inopportuno l’appello delle autorità cittadine «a mantenere l’equità nel prezzo delle pigioni». Il loro alloggiamento dovette in ogni caso essere un problema non da poco, tanto che le autorità finirono anche con il contrarre debiti nel tentativo di trovare una collocazione adeguata al deposito della truppa, la quale, per lo meno inizialmente, indugiò nell’ozio, girovagando liberamente, e, pare, con «stili e coltelli e manifestando in luogo pubblico sinistre intenzioni». Problematica anche la sistemazione del corpo degli ufficiali. È il primo indizio di un’integrazione difficile: «Nei depositi fummo lasciati dal Governo nel più completo abbandono, ed in un ozio dei più miserevoli, pur pagandocisi […] (vedi ironia!) puntualmente gli assegni».

Intanto, se pure l’arrivo di questo scampolo dell’armata meridionale garibaldina doveva sollevare dai pochi obblighi previsti la locale milizia municipale (per altro, senza che questa venisse sciolta, essendo, al contrario, ancora presente almeno fino al 1890) e dare un po’ di respiro al mai troppo florido commercio al dettaglio del capoluogo, non si può certo affermare che il deposito di Biella apparisse come una meta ambita, specie per via della perifericità della cittadina. Anzi, a qualcuno poté apparire come un ripiego immotivato: «Non so perché, ma, dopo le operazioni di Sicilia, poco si disse della divisione Medici, e sì che è una di quelle che ebbe parte prima anche in tutti i fatti principali che si combatterono nel continente napoletano». Anche il garibaldino Giovanni Bandi, ad esempio, da Biella scrisse una serie di lettere che rispecchiavano «lo stato d’animo di ognuno»: l’amarezza dei volontari, la delusione per la piega presa dagli eventi, la vergogna per le prove di selezione e la vita lontana dall’azione («non è molto dignitoso […] l’andar ad apprendere l’abbici in mezzo ad una folla di collegiali cretini. Equivale a comprarsi un brevetto di incapacità»).

E poi c’era la questione del rapporto dei militari (ufficiali e bassa forza) con il resto della popolazione. Certo, lo stato maggiore della divisione si prodigò in opere di beneficenza, tra il plauso dei biellesi; tuttavia, se si evita di ricadere in un pregiudizio realistico e si cerca di scandagliare il contesto un po’ più in profondità rispetto alla superficiale patina della retorica dell’epoca, tutto sommato i motivi di attrito, o di fastidio, per la presenza dei garibaldini in città potrebbero apparire più evidenti, specie in certi ambienti conservatori. I militari, del resto, qualche problema lo crearono, nel pur breve periodo di permanenza a Biella. Dai registri di reparto della “Medici” emerge un certo numero di situazioni poco nitide, quando non illegali: un capitano imprigionato al Piazzo con la pesante accusa di omicidio, altri due additati per condotte non irreprensibili, un luogotenente già segnalato dalla Questura di Genova come sovversivo ed un altro ricercato dalla gendarmeria francese (poi estradato), un sottotenente sottoposto alla sorveglianza di polizia in quanto affetto da patologie mentali e perciò pericoloso (avrebbe tentato di assassinare niente meno che Garibaldi), almeno due tenenti allontanati per contegno indecoroso, per non parlare, infine, del comportamento della truppa.

La questione più delicata riguardava, una volta di più, l’abuso delle sostanze alcoliche. Alla metà degli anni ’70, Raseri avrebbe stimato il consumo medio di vino in Piemonte di 161 litri procapite. Nella sola città di Biella, nel 1853, si potevano contare 94 rivendite di vino: secondo le tabelle del dazio di consumo (come a dire le vendite ufficiali fatturate, restando ignote le quote – notevoli – di autoproduzione e il mercato nero) una popolazione di 8.784 persone consumava, allora, circa 260.000 litri di vino, poco più di 5.000 litri di liquore e poco meno di 400 litri di birra l’anno. Anche i volontari garibaldini divennero assidui avventori di bettole e osterie locali, è facile immaginarlo. Nella pletora di geremiadi e di lagnanze da parte delle autorità, ad un certo punto lo stesso comando militare decise di intervenire, se non per risolvere il problema quanto meno per delinearlo nelle sue effettive dimensioni.  

Nel giugno del 1861, dunque, il comandante della divisione, il colonnello ungherese Kàroly Eberhardt(che l’anno dopo, sull’Aspromonte, nei ranghi dell’esercito italiano, si sarebbe paradossalmente scontrato con Garibaldi), ordinò al capitano Luigi Fanfani di investigare sul contegno della truppa al di fuori degli alloggi del deposito militare, in particolar modo in riferimento all’assidua frequentazione delle bettole cittadine, dal Vernato fino al quartiere di Riva. È lo stesso colonnello a confermarlo, in un’informativa indirizzata al giudice istruttore: «Il Signor Capitano Luigi Fanfani, quale comandante la compagnia di Bassa Forza de’ Volontari aggregati al Deposito del 51° Fanteria, ebbe incarico da questo Comando di sorvegliare la sera del 22 giugno passato scorso, e successive, i Bassi Ufficiali di questo Deposito e ciò allo scopo di reprimere alcuni disordini cui si abbandonavano i medesimi nei caffè ed osterie». Un compito ingrato, che il capitano accettò, pare, di buona lena (milanese di nascita, Fanfani era stato da giovanissimo fra i combattenti delle Cinque giornate; arruolatosi volontario nel 7° fanteria, in Piemonte, nel 59, e ferito a San Martino, ebbe la medaglia dargento al valore; nel 1860, durante la spedizione dei Mille, aveva ottenuto la menzione d’onore per le battaglie di Milazzo e del Volturno, già nelle fila della “Medici”).

Ligio alle consegne ricevute, insomma, il capitano Fanfani venne «informato che alcuni individui di bassa forza appartenenti a questo Deposito, non so in qual modo sortendo dal Quartiere dopo la visita serale, hanno l’abitudine d’intrattenersi, anche in ora molto avanzata, giuocando a carte o al bigliardo nel Caffè DeGioannini, vicino al pubblico passeggio che costeggia la piazza d’armi in questa Città». La sera del 22 giugno, perciò, «nell’intento di togliere un simile abuso», si presentò nel locale indicato, verso le 23, senza portare la fascia di servizio. È a questo punto della vicenda che si colloca l’increscioso incidente che dette origine al fascicolo penale dal quale si desumono le presenti annotazioni. Secondo i carabinieri, «il Signor Capitano Fanfani, essendo in servizio di ispezione, ebbe a passare davanti il Caffè della Porta, esercito da tale Nicola Degioannini, e mentre attendeva alle sue attribuzioni, facendo osservazioni in quel luogo ove ben soventi commentonsi disordini e la gioventù s’abitua alla dissipatezza, tale Besso [Vittorio], pittore di questa Città, non essendo punto alterato né da bibite o da antecedenti rancorosi, ebbe ad oltraggiarlo». Come si vede il verbale rimane piuttosto sul vago, e chiude con una nota assai peculiare: «Si fa dovere d’aggiungere […] che l’esercizio del Degioannini essendo malfamato, è stato più volte dichiarato in contravvenzione dalle guardie di PS». Più ricca di particolari la versione dello stesso Fanfani, nel rapporto da lui steso il giorno seguente e indirizzato al Comando del deposito. Secondo l’ufficiale garibaldino, subito dopo essere uscito dal locale, «un individuo borghese che stava seduto sul limitare dello stesso colla padrona del Caffè, accortosi certamente dello scopo per cui io era entrato, (cosa che io so loro disturba, per non poter più mantenere la società di giuocatori), il detto individuo fecemi replicatamente alle spalle un tal fischio che corrisponderebbe al motto molto volgare = va via ve’. Alle prime io non gli badai, ma sentendomelo più volte a replicare non potei fare a meno di ritornare da quell’individuo e domandargli per qual motivo un tal atto di sprezzo, al che egli mi rispose che non sapeva nemmeno chi mi fossi, che se io era ubbriaco avessi continuato per la mia via, e simili altre villanerie». Per il senso dell’onore dell’epoca, e per un militare, si era passata la misura: «Mi era venuta la voglia in quel momento di farmi giustizia da me solo, ma visto in quell’uomo un individuo di bassa condizione, e non uso io d’altronde a far scandalo di pubblica contesa, e sì pel decoro della divisa che porto, rintuzzai in me stesso quel primo naturale sentimento d’amor proprio offeso, limitandomi a fargli una seria ammonizione». Proprio mentre era alle prese colla reprimenda passarono di lì due carabinieri, per la ronda serale, e così il capitano Fanfani li invitò ad intervenire, e poi si fece scortare alla Stazione cittadina, per la denuncia. Sicuro, in cuor suo, che quell’«individuo borghese» dovesse essere «noto al locale Comando» e fiducioso, anche, di ricevere «dall’autorità competente una degna soddisfazione».

Vittorio Besso, 33 anni, venne pertanto querelato per oltraggio. Nella scheda dell’interrogatorio non se ne fa menzione, ma Besso proprio l’anno precedente aveva aperto quello che quasi certamente fu il primo laboratorio fotografico di Biella. Salvo una clamorosa omonimia, di fronte ai carabinieri l’imputato, in ogni caso, si dichiarò più sbrigativamente pittore. Sulle spalle aveva già una condanna, scontata, comminatagli nel 1850 per resistenza e ingiurie contro la Guardia Nazionale. Come se ciò non bastasse, tuttavia, evidentemente non pago, Besso, il giorno seguente lo scontro verbale col capitano Fanfani, gli fece molto probabilmente pervenire un breve biglietto, scritto in forma anonima: «Signor Capitano, l’averto per sua norma di non fare tanto il blagat in Biella, perché sarà bene bastonato, anzi si faccia pur vedere ancor qui per la sera, pur anche accompagnato da qualche suo fedele compagno, che benché anche fossero 10 di suoi compagni, noi cittadini non abbiamo paura. Avverta pure i carabinieri che noi sapendolo un soldato tedesco sapremo dire che mestiere ci piace fare. Il grado che ha, l’ha fatto in questa campagna ed ora ci [illeggibile], e per questo farebbe anche il giuda. Se la lezione che ci ha fatto [il] mio compagno sabato sera non ci basta, quella che si prenderà ci sarà più cara». Il testo è singolare, non foss’altro che per l’accenno alla germanicità del capitano (milanese, come s’è detto, ma Milano era stata austriaca per quasi 150 anni; all’estero, quindi), che poteva così esser tacciato di tradimento nei confronti dello Stato sotto l’egida del quale era nato, e anche di cinico tornaconto personale (il grado di ufficiale ottenuto senza vero merito, nell’esercito garibaldino); poi venivano il richiamo ai carabinieri, servitori di un ordine percepito come estraneo e lontano, e, infine, anche l’accenno all’unità comunitaria (noi cittadini), che si stringeva per respingere ogni ingerenza percepita come esterna. All’accusa di oltraggio per Vittorio Besso venne a sommarsi quella di minacce e offese personali.

A questo punto l’istruttoria procedette, piuttosto lentamente, con le deposizioni dei testimoni. Ma il corso degli eventi non prese esattamente la strada immaginata in principio dal capitano Fanfani. Il primo ad essere ascoltato, ovviamente, fu lo stesso Fanfani, il quale fu molto attento a ribadire più volte il motivo della sua presenza in quel locale a quell’ora del 22 giugno: «Sebbene non avessi la fascia di servizio […] [entrai] nel Caffè per ragione di servizio, e non per altro motivo [perché] io mi sono sempre astenuto dall’entrare nel medesimo, appunto per non trovarmi colle persone che sogliono frequentarlo, le quali anzi ero in obbligo di sorvegliare, cioè i militari della Bassa Forza della Divisione Medici». Il capitano aveva dei sospetti anche su diversi soldati ai suoi comandi, i quali avrebbero potuto «dettare» il contenuto del biglietto ai «borghesi» che frequentavano il Caffè della Porta. Lo conferma, indirettamente, il furiere Carlo Agosti, di Pavia, al quale sfuggì che Fanfani gli aveva ordinato «di procurargli uno schizzo della scrittura» di alcuni sergenti. Uno di questi, il veneziano Antonio Sanfermo, avrebbe poi confidato al furiere che se il capitano «voleva conoscere i biellesi, [questi] si sarebbero fatti conoscere». Nessuno dei militari interrogati fornì argomenti a difesa del loro ufficiale, che, anzi, a tratti doveva apparire nella veste di prepotente e attaccabrighe. Poco significative anche le versioni fornite dai due carabinieri: il primo, un brigadiere di Condove, confermò punto per punto il rapporto redatto, l’altro, napoletano, fu ancora più conciso, affermando di non avere nulla da aggiungererispetto a quanto già messo a verbale. Poi fu finalmente il turno dell’imputato. Biondo, barbuto, con gli occhi «bigi», Vittorio Besso raccontò agli inquirenti che la sera dell’incidente stava conversando con la padrona del Caffè ed un suo conoscente, Carlo Colombo Donato, un «israelita», quando il capitano Fanfani, che nessuno aveva mai visto prima, era entrato nel locale e si era messo a perlustrare tutte le sale: poi, «nell’uscire, ci passò vicino e, senza neppure salutarci, con mal garbo si allontanò: non fatti pochi passi, ritornò indietro e venne a posarsi a due passi di distanza da noi, e quivi, le braccia conserte al petto, prese a fissarmi in modo affatto provocante. Io finsi di non badarvi ed il medesimo dopo pochi istanti se ne andò via, ma fatti alcuni passi tornò di nuovo indietro a guardarmi fissamente. Non so se la padrona od il Colombo gli domandarono se desiderava qualche cosa ed egli rispose che non con loro l’aveva ma con me. Allora io gli domandai quale ne fosse il motivo ed egli mi disse tosto che ero un polisson ed altre consimili parole offensive, per cui io, adirato, gli dissi che se ne andasse per i fatti suoi, e che se era ubbriaco si ritirasse». Il pittore aggiunse poi che nessuno di loro aveva fischiato, tanto meno all’indirizzo del garibaldino, ma che vari fischi provenivano dal locale, dove si stava giocando. Leggermente divergente, in seguito, la versione della padrona del locale, Domenica Dematteis, 40 anni, di Varallo. Mentre era fuori dal Caffè «a godere il fresco», anche la donna aveva visto entrare Fanfani nel locale: «Sentendo un calpestio nella vicina sala, io ci entrai subito e visto il Capitano del Corpo dei Volontari ci domandai se comandasse qualche cosa, ma esso non si curò di rispondermi e se ne uscì. Tenutogli io dietro ed appena posto il piede fuori dal Caffè sentii un fischio che non potei capire d’onde venisse, ne seppero dirmelo né il Besso né il Colombo, per il ché io argomentai che il fischio provenisse da qualche sergente garibaldino, per il motivo che soleva venire ispezionare il Caffè. Poco dopo il Capitano essendo tornato si fermò immobile davanti a noi brontolando tra sé, e si fu allora che il Besso rivoltosi lui gli chiese se l’aveva con noi, al che il Capitano gli rispose che l’aveva proprio con lui perché lui l’aveva fischiato. Ciò sentendo il Besso gli disse che se ciò diceva od era pazzo, od ubbriaco, ed il Capitano gli replicò: ebbene vedremo chi è pazzo od ubbriaco. In quel punto essendosi passati i Carabinieri, esso Capitano li seguitò». La testimonianza di Donato Colombo, rimasto per tutto il tempo comodamente seduto sotto il porticato del locale, corroborò quella degli altri due. Dai fatti di giugno erano passati oramai quasi tre mesi, e non si era venuti a capo di molto.

Al contrario, da lampante com’era parsa all’inizio, la situazione si era venuta connotando di una certa ambiguità, che rischiava di ribaltare le ragioni e i torti. Salvo alcune difformità, per altro interessanti, i testi chiamati a deporre convenivano tutti su alcuni punti essenziali (d’altronde, volendo pensar male, l’imputato aveva avuto molto tempo per concordare la propria versione): il capitano Fanfani, che nessuno conosceva,non aveva mancato di mostrarsi scostante e altezzoso, rischiando addirittura lo scontro con un civile («mi era venuta la voglia in quel momento di farmi giustizia da me solo», aveva ammesso lui stesso nel rapporto); sul fischio ed il suo autore c’erano soltanto vaghi indizi, oltre alla parola di Fanfani; soprattutto, nonostante la precedente condanna, contro Besso non vi era alcuna prova concreta di colpevolezza (non era neppure stato trovato in stato di ubriachezza, circostanza che avrebbe sicuramente aggravato la sua posizione). L’inchiesta, diventata presumibilmente troppo delicata, o palesemente destinata all’insuccesso, venne pertanto messa a tacere, con buona pace per la condotta dei volontari della bassa forza garibaldina fuori dal deposito.

Ad un mese dall’esame dell’ultimo teste, il 14 novembre del 1861 il p.m. del Tribunale stabilì che, in merito alla lettera anonima pervenuta all’ufficiale, non si erano potuti trovare «riscontri di sorta» sugli autori materiali; più interessante ancora, di seguito, il parere sull’altro capo di imputazione: l’accusa di oltraggio, affermò il giudice, andava derubricata a semplice ingiuria dal momento che il «Capitano Fanfani non poteva considerarsi nell’esercizio di una pubblica funzione quando nella sera del 22 giugno introducevasi nel Caffè Gioannini per riconoscere se vi fossero individui di Bassa Forza, giuocando o gozzovigliando, tanto più che non ricevette a tal uopo ordini appositi e speciali dai suoi superiori». E l’informativa firmata dal colonnello Eberhardt in persona? Secretata nei fascicoli dell’istruttoria (solo la sentenza, lo ricordiamo, era pubblica), si era apparentemente deciso di non prenderla in considerazione, forse su richiesta dell’autorità militare stessa che, timorosa della cattiva immagine che un eventuale processo avrebbe originato in seno alla popolazione della città, aveva con tutta evidenza fatto marcia indietro, imponendo a Fanfani di fare lo stesso. E così fu. Il giorno seguente, il 15 di novembre, il capitano garibaldino si presentò presso l’ufficio di istruzione penale per recedere dalla querela precedentemente sporta. Con ciò facendo, fra l’altro, avrebbe dovuto pagare in proprio tutte le spese della pratica. In dicembre la questione degli alloggi per gli ufficiali fu sbloccata. Alcuni ufficiali trovarono sistemazione a Ponderano, presso Casa De Giannini (il cognome dà da pensare). Il rapporto sulle osterie venne chiuso in un cassetto. Nell’ottobre del 1864, del resto, al deposito ci sarebbe stato un ricambio e gli ex garibaldini da Biella sarebbero finiti in quel di Lucca. Vittorio Besso avrebbe conosciuto una luminosa carriera come fotografo (nel 1880, a Caprera, avrebbe fra l’altro ritratto un Garibaldi oramai prossimo alla morte). Luigi Fanfani, aggregato fin dall’aprile del 1862 al 27° fanteria, se ne andò molto presto dal Biellese, dimenticandosi dei volontari e, forse, ma è ben poco verosimile, dell’intera vicenda. Altre battaglie e guerre sarebbero venute, e a quella del 1866 avrebbe fatto in tempo a partecipare, lontano dai dissapori che poteva comportare il frammischiarsi con certi «individui borghesi».

[Articolo pubblicato (titolo: Dal Volturno alle bettole) in «Rivista Biellese», XV, 4, ottobre 2011, pp. 46-55]