Il crimine nel Biellese tardo-medievale
«Anzitutto, la violenza è dappertutto»[i], e pertanto il sentimento dell’insicurezza, materiale e morale, domina la mentalità degli uomini del tardo Medioevo e determina buona parte dei loro atteggiamenti[ii]. Il rotolo dei conti della castellania di Biella dà notizia di 477 casi di reato accertati fra il 1379 ed il 1386, per la sola area compresa fra i comuni di Andorno, Bioglio, Chiavazza, Zumaglia, Mosso e Mortigliengo. Si tratta di borghi di dimensioni non disprezzabili (al di là di Andorno, la cui popolazione è addirittura notevole e probabilmente all’epoca superiore a quella della stessa Biella), per un totale di poco più di 4.000 abitanti (anche se, com’è ovvio, si tratta di calcoli indicativi, la popolazione stabile essendo registrata per fuochi). La violenza è prima di tutto verbale: gli insulti prendono di mira l’onore e la sessualità. Le maledizioni, che si ama ritenere assai efficaci, sono accompagnate da azioni di sfida: sputi, spernacchi, gesti osceni. Così, per esempio, Benedetto Zopo, di Andorno, viene multato perché «dixit verba iniuriosa contra honorem domini», come dire che se l’è presa col governo, e lo stesso succede a Giovanni de Vera. Ancora Benedetto Zopo, che evidentemente non sa tenere la lingua a freno, viene richiamato insieme a Guglielmo Bequerio perché si sono detti «verba iniuriosa ad invicem», si sono cioè insultati a vicenda. La bona fama, il buon nome, sono condizioni essenziali per ogni uomo, anche se l’onore dei potentes vale molto di più rispetto a quello dei pauperes: Iohannino de Perreto, per esempio, è condannato a pagare 66 lire d’ammenda per aver deriso il clavario di Andorno; invece Ogino Mostorio se la cava con una multa di appena 10 lire per aver dato del proditor, cioè del traditore, un insulto comunque grave, a tale Vercelloto di Campo Luario. Del resto, Giovanni de Vera, menzionato sopra, di lire ne ha dovute sborsare 100, una cifra all’epoca considerevole. Pietro de Serra, Giovanni de Rica e Martino Vanio sono invece accusati di aver strillato «foras, foras» in presenza di autorità, azione ritenuta biasimevole. Più grave dell’insolenza è tuttavia l’ingiuria. I teologi sono severi al riguardo: la diffamazione è vista come la via breve verso la caduta morale perché il diffamato, perso il bene suo più prezioso, l’onore appunto, non ha più nulla da salvaguardare e così può accostarsi con maggiore facilità al delitto[iii]. Per questo la calunnia richiede una smentita, una riparazione solerte, pena lo scatenamento dell’odium. Le faide che si accendono in questi casi, come quella fra Giovanni Lancea e due esponenti della famiglia Gatario, durano tanti anni e coinvolgono tutti, nobili e paesani, ciascuno nel proprio ambito e livello, trascinando nello scontro famiglie intere.
Spesso la violenza verbale sfocia in quella fisica. Ci sono i casi gravi, come gli omicidi, anche se rari («uccidere un uomo resta una faccenda gravissima, soprattutto per la gente di bassa condizione non protetta dalle belle e costose relazioni che hanno le famiglie nobili o ricche»[iv]), ma c’è soprattutto la piccola violenza quotidiana: percosse, schiaffi, bastonature, ferimenti lievi. In effetti due terzi delle sanzioni enumerate nel rendiconto di castellania riguardano delle risse. In questi casi i banni, le multe, variano da pochi soldi fino a 25 lire, a seconda della gravità dell’episodio e della allocazione sociale delle parti. Così, ad esempio, Antonio Strambo è multato col massimo previsto per aver aggredito Martino Caneparo, invece Umbertino de Grosso, che picchia sua moglie («uxorem suam»), deve rifondere soltanto 11 lire. Le aggressioni sono all’ordine del giorno, e coinvolgono uomini e donne, giovani e vecchi, liberi e servi: Vercelloto de Maiis aggredisce Martino Tempia, Viano Tempia è multato «pro rixa facta cum Manfredo Toma», la giovane Giacomina, figlia di tal Guglielmo Romanetto se la prende col suo uomo («cum viro suo»), e Annesia Arrondino «cum frate Iacobo ordinis Sancte Thome»; un famulo di Bernardo di Pietragrossa è multato per aver avuto a che ridire con la serva di un altro, mentre Vercellino de Remasto deve risarcire i danni del figlio, per la rissa scoppiata tra quest’ultimo e il rampollo di Giacomo de Viono. La legge distingue in effetti anche tra percosse lievi e gravi, sine effusione sanguinis oppure cum effusione sanguinis. Ecco allora che Bartholomeo de Benedicta, che ha malmenato tale Pietro Foglia, dimostra esser stato l’episodio poco più che un forte alterco; invece Giovanni Fregerio, per aver maltrattato sua nuora, Annexina, è condannato ad una multa salatissima, 240 lire, cifra talmente alta da indicare, con tutta probabilità, che la donna ha riportato lesioni permanenti, ai genitali o in testa, che l’hanno resa sterile oppure invalida mentalmente. Del resto, non si deve dimenticare che se le fonti non fanno quasi mai menzione di armi, pure gli uomini sono quasi tutti e quasi sempre armati.
In queste comunità tutto sommato non soverchiamente ricche, se non decisamente povere, i furti sono poco frequenti. Nei rendiconti della castellania rappresentano circa il 6 per cento dei reati. La dura condanna che la mentalità e la cultura correnti riservano a tali pratiche fa sì che una sola trasgressione possa portare a gravi conseguenze, con una caduta verticale della fama dell’interessato e anche della sua famiglia, e conseguente declassamento sociale. La giustizia, poi, ha la mano pesante: se si viene giudicati colpevoli di furto si viene normalmente sottoposti a punizioni corporali che lasciano segni indelebili (comune il taglio del naso, o di un orecchio, oppure l’estirpazione di un occhio), e la recidiva comporta spesso la condanna a morte tramite impiccagione. Per chi è colto in flagrante, poi, l’uccisione è immediata e di fatto impunita. Rubare è comunque un atto sporadico, si ruba per necessità, quando non si ha più denaro per mangiare, o per l’osteria. Il furto è un po’ più comune negli ambienti della servitù: serve e famuli rubano piccoli oggetti, biancheria, lenzuola, a volte preziosi. Per il resto i luoghi tipici dove si rischia d’esser derubati sono, tra un bicchiere di vino e l’altro, la locanda e la taverna (laddove si dà ostello ai viandanti, le camere, condivise da estranei, appaiono propizie alle ruberie, se non di peggio), e poi le fiere e i mercati. I ricchi si preoccupano dei loro averi e tentano in tutti i modi di proteggerli, ma il furto non tocca solo i facoltosi: anche nella miseria ci sono gradazioni e differenze; la scarsella di un vicino indigente può sempre contenere ciò che manca nella propria, e inoltre derubare un povero è assai meno rischioso[v]. Si tratta comunque di azioni che esulano dalle normali attività quotidiane. Beniamino Ferrario, di Mosso, è punito con 37 soldi d’ammenda perché ha rubato delle noci a Martino Zopo, ma di mestiere fa il mugnaio, come dimostra il censo che paga nel 1380. Del resto sono piuttosto rari i criminali di professione, i soggetti che hanno una consuetudo delinquendi, a maggior ragione nei centri più piccoli, dove si ha a che fare con un modello di face to face society. Ovunque, nei centri abitati, il borseggio è comunque più comune dell’effrazione, quest’ultima essendo assai scoraggiata anche da una sorveglianza notturna che non va tanto per il sottile. Fuori dal sobborgo, dal villaggio e dalla città, Biella o Andorno, nei pascoli, nei prati, nei frutteti, predomina invece il furto campestre, spesso foriero di scontri, di strascichi giudiziari e liti fra comunità finitime per questioni di confini, di diritti e di sfruttamenti. Si rubano legname, fascine, fieno, strame, noci, ghiande, mele, e poi si caccia e si pesca di frodo. I pecorai senza fondi propri fanno pascolare pecore e capre sui fondi altrui, lasciando divorare erbe, piante e coltivazioni; un tale occupa abusivamente un’intera cascina a Graglia, durante un inverno particolarmente rigido; i cercatori di pietre focaie spostano con la zappa persino i termini di confine fra i campi coltivati. Agostino Burle deve pagare un’ammenda per una rissa con un camparo (cioè una guardia campestre) di Chiavazza, e così pure Antonio Viola e altre 22 persone con lui (fra cui tre donne e un famulo).
Andrea de Utino prende a sassate un bue di Antonio Auricolo. Gelosie, interessi, rivalità, fellonia, regolamenti di conti fanno da sfondo a sabotaggi, taglio di alberi, frodi di varia natura, abigeati. Tuttavia, gli Statuta maleficiorum Comunis Bugelle[vi], databili intorno alla prima metà del XIV secolo, si occupano anche delle praticæ criminales più gravi, crimina enormia, come l’eresia, il parricidio, la bestemmia, oppure i reati sessuali, specie se “contro natura”. Così, per esempio, l’aborto volontario è punito con la mutilazione della mano, o col pagamento di una multa che arriva a 300 lire, se compiuto prima dei due mesi di gravidanza; altrimenti la pena è il rogo, riservato anche ai sodomiti. Gli stupratori rischiano a loro volta la pena capitale, ma soltanto se hanno diretto la loro violenza contro donne honestæ (del resto ancora nel tardo XIX secolo la cultura dominante farà fatica a reputare violenza sessuale lo stupro di una prostituta). I parricidi, legati con delle funi alla coda di un cavallo, vengono trascinati rovinosamente per le vie di Biella fino al luogo deputato alle esecuzioni. La pena, signum imperii, è insieme esempio e mezzo di persuasione, o anche, eventualmente, occasione di misericordia.
Vita dura anche per i bigami e gli adulteri: Guglielmo di Mortigliano è condannato ad una multa di ben quattro fiorini e mezzo perché ha «duas uxores»; Valerio di Mortigliano paga ammenda perché adultero e così pure Antonio Pinero, la cui concubina, oltretutto, è a sua volta legata ad un altro uomo. Persino il gioco d’azzardo è proibito: vengono comminate delle multe tra i 20 ed i 40 soldi per chi viene colto a praticare il ludus taxillorum (il gioco coi dadi); tuttavia è consentito divertirsi, in giorni e orari prestabiliti, nelle bische autorizzate dalle autorità comunali e gestite da barattieri professionisti. Gli osti sorpresi a tollerare il gioco clandestino, invece, subiscono la revoca della licenza per la vendita di pane e vino (straordinario simbolismo eucaristico, segno di un mondo in cui lo svago è legato indissolubilmente al giorno di festa, al dies dominicus, il giorno consacrato al Signore). Più in generale si guarda con molto sospetto ad attori e girovaghi. Così San Tommaso è ben sicuro siano da condannare tanto gli acrobati quanto i giullari e i cantastorie, e con loro tutti quelli che suonano uno strumento musicale e gli istriones (tuttavia San Francesco si definisce proprio come ioculatore Dei, giullare di Dio)[vii].
La cultura medievale ha diversi epiteti per definire tutte queste persone che, a vario titolo, compiono dei reati: ribaldi, infami, indegni. Il delitto, la devianza, il comportamento trasgressivo, devono nondimeno essere evidenti e notori, ovvero conosciuti ai più. Già nel XIII secolo il giurista Guillame Durand si esprime molto chiaramente al riguardo: il reato è dimostrato da una notorietà (notorium) fondata sul fatto che tutti ne sono a conoscenza (in conscientia populi)[viii]. Esiste nondimeno una differenza che intercorre fra l’infamia, la mala fama del singolo individuo disonorato in seguito ad una sentenza, perché un giudice ha emesso una condanna di esclusione dagli honores (ciò che vale per i ladri, i violatori di tombe, gli spergiuri, i disertori, i sobillatori, i crassatores, gli incendiari, i calunniatori e via dicendo), e tutte quelle categorie di persone che sono considerate infami naturaliter: storpi, vagabondi, sans aveu, deformi e mentecapti[ix]; a questi si possono poi aggiungere gli estranei alla comunità, i forestieri, i banditi ed i giudei, tutti intractabiles, gente da poco, mali homines, ignobiles personæ, come quel «Giacomino ebreo» che fa il tabernarius, ovvero l’oste, a Biella, nel 1377, e i suoi correligionari che vivono per lo più raggruppati nel quartiere del Bellone[x].
Nel comune di Biella la giustizia civile è amministrata dai consoli in piazza Cisterna, i processi penali, invece, sono di competenza del podestà e del suo vicario. Proprio nel corso del ‘300 i giudici cominciano ad agire ex officio (per dovere) nella persecuzione di tutti i reati con una qualche rilevanza: fanno inquisizioni, indagano a largo raggio per scoprire i delitti, incoraggiano accuse e delazioni, condannano i colpevoli anche quando la vittima si è riappacificata negozialmente[xi]. Non esistono all’epoca dei corpi di polizia pienamente definiti e istituzionalizzati. Consoli, magistrati e giudici, in ogni caso, sono coadiuvati da una sparuta folla di vigiles, di sbirri, milites e custodes, con poteri incerti ma con prepotenze tipiche della bassa polizia di ogni epoca. Anche la giustizia, insomma, è violenta (non a caso la si rappresenta armata non solo di bilancia ma anche d’una spada, portatrice dello ius gladii), e quando si viene arrestati è pratica comune finire oppressi da ceppi, compedes, manicæ e catene. Il compito di svolgere le indagini e di arrestare i criminali di fatto ricade comunque sulle spalle di chi governa. Negli anni ’20 del XV secolo, ormai vecchio, Pietro Bertodano, in una supplica al duca Amedeo di Savoia ricorda come, verso il 1393, mentre le schiere di Facino Cane scorrazzano fra l’Eporediese e il Biellese, in qualità di castellano fa arrestare un proditor, un traditore che vorrebbe aprire le porte di Ivrea al nemico. Una volta arrestato, però, l’uomo, che ha degli amici, riesce a evadere e allora il Bertodano è costretto ad inseguirlo. Il fuggitivo sconfina nelle terre del marchese del Monferrato e lui lo fa spiare, scopre che se la passa male (si è ridotto a tagliar legna di straforo, la notte, e venderla al mercato), gli tende diverse imboscate e poi, finalmente, riesce a riprenderlo. Per aver cercato di compiere un arresto fuori dalla propria iurisdictio, tuttavia, deve subire un processo, e se riesce a farla franca è soltanto grazie ad una tangente passata prontamente di mano. Nella lettera al duca di Savoia, Pietro Bertodano si lamenta appunto del gran pericolo, delle molte ingiurie e dei mali patiti indebitamente ed ingiustamente nel compimento del suo dovere, e così chiede che gli si venga risarcita la spesa incorsa per comprare il favore dei giudici[xii]. Pratica piuttosto diffusa, parrebbe, tanto Franco Sacchetti la immortala, alla fine del ‘300, in una novella della sua raccolta, la LXXVII, dove si racconta di due mercatanti di bestiame in lite fra loro per una cifra piuttosto ragguardevole – 300 lire – i quali finiscono in tribunale e pensano bene di corrompere entrambi l’ufficiale di giustizia, uno regalandogli un bue, l’altro facendogli dono d’una vacca. E «avvenne poi, come s’andasse, che quello della vacca vinse il piato; forse ne fu cagione che la vacca, quando fu donata, era pregna, e in quel tempo che si diede la sentenzia, fece un vitello»[xiii].
(articolo pubblicato: in «Rivista Biellese», XVII, 3, 2013)
Prof. Massimiliano Franco
[i] R. Fossier Gente del Medioevo, Donzelli, Roma 2007, p. 231.
[ii] J. Le Goff, La civiltà dell’occidente medievale, Mondadori, Milano 2010 (1981), p. 349.
[iii] Il documento è conservato presso l’Archivio di Stato di Torino (sez. III, m. 1, n. 1). Per le presenti note si è tuttavia fatto ricorso alla trascrizione del testo fatta da C. Zanella in Il rendiconto della Castellania di Biella dal 1379 al 1386. Le entrate dei paesi posti al di qua del Cervo, Tesi di Laurea, Facoltà di Magistero, Università degli Studi di Torino, a.a. 1973-74, Appendice, pp. CXXXVII-CXLVI.
[iv] E. Le Roy Ladurie, Storia di un paese: Montaillou. Un villaggio occitanico durante l’inquisizione (1294-1324), Rizzoli, Milano 1998 (1977), p. 393.
[v] B. Geremek, I bassifondi di Parigi nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1990 (1972), p. 97.
[vi] Cfr. P. Sella, a c. di, Statuta comunis Bugellæ et documenta adiecta, Tip. G. Testa, Biella 1904-05.
[vii] Cit. in B. Geremek, L’emarginato, in L’uomo medievale, a c. di J. Le Goff, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 412.
[viii] Sull’argomento cfr. F. Migliorino, Fama e infamia. Problemi della società medievale nel pensiero giuridico nei secoli XII e XIII, Giannotta, Catania 1985.
[ix] G. Todeschini, Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette e gente qualunque dal Medioevo all’età moderna, il Mulino, Bologna 2007, pp. 56 sgg.
[x] Cit. in C. Caselli, E. Pozzato, Bugella civitas, Fondazione Cassa di risparmio di Biella, Biella 1990, p. 32.
[xi] Cfr. M. Sbriccoli, Storia del delitto penale e della giustizia. Scritti editi e inediti (1972-2007), Giuffrè, Milano 2009, p. 7 sg.
[xii] Cfr. P. Torrione, I Quaglino, in «Biella», II, 7, 1964. Lo spunto per al vicenda poliziesca mi viene però da un intervento del prof. Alessandro Barbero (sul web all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=kMnCIcIE7jE).
[xiii] F. Sacchetti, Il Trecentonovelle, a c. di E. Faccioli, Einaudi, Torino 1970, p. 197.
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