A dieci anni l’età si scrive per la prima volta con due cifre. È un salto in alto, in lungo e in largo, ma il corpo resta scarso di statura mentre la testa si precipita avanti. D’estate si concentra una fretta di crescere. Un uomo, cinquant’anni dopo, torna coi pensieri su una spiaggia dove gli accadde il necessario e pure l’abbondante. Le sue mani di allora, capaci di nuoto e non di difesa, imparano lo stupore del verbo mantenere, che è tenere per mano.
“C’è un’estate brusca nell’età giovane in cui si impara il mondo di corsa. In un’isola del Tirreno, alla metà degli anni Cinquanta, un pescatore che ha conosciuto la guerra e una giovane donna dal nome difficile, senza intenzione trasmettono a un ragazzo la febbre del rispondere. Qui si racconta una risposta, un eccomi, decisivo come un luogo di nascita. ‘Tu, mio’ è un racconto di superamento della cosiddetta ‘linea d’ombra’, centrato sul passaggio dai privilegi dell’adolescenza alla ruvidezza della maturità. Oltre le illusioni della giovinezza si apre il campo dell’avventura nell’esistenza; e questa avventura, ogni adolescente lo scopre con dolore, con sofferenza, non potrà essere mai cifrata negli schemi delle consolazioni giovanili.” (Enzo Siciliano)
Domenico ha dodici anni ed è sempre vissuto nel villaggio dove è nato, ai piedi delle Dolomiti. La montagna è il suo mondo e questo mondo non ha segreti per lui. Gli piace guardare le cime mentre va a scuola, dove la professoressa gli racconta di Tom Sawyer, o attraversare i boschi mentre va al torrente a pescare, sognando avventure straordinarie. Continua a farlo anche se da un po’ di tempo tutti lo mettono in guardia, perché il rischio di imbattersi nell’orso di cui tanto si parla in giro è grande. Un orso ormai diventato una leggenda nella valle: terribile, gigantesco, feroce come da quelle parti non se ne vedevano più. E non riesce a credere che suo padre, sempre così distante, ubriaco, perso, sia lo stesso uomo che adesso vuole dare la caccia all’orso e vuole partire per quella spedizione sulle montagne insieme a lui, solo loro due, via per giorni e giorni a contatto con una natura aspra, selvaggia. Ma è proprio questo che accadrà. Domenico sarà coinvolto in un’esperienza unica, spaventosa ed eccitante, dalla quale apprenderà che la natura, per quanto pericolosa, non sarà mai crudele come gli uomini. Un romanzo d’avventura che è insieme il racconto folgorante di una formazione, di ciò che succede per la prima volta, e che sarà per sempre.
Conquistò un impero enorme, toccando i confini del mondo allora conosciuto. Ma chi era davvero Alessandro, il giovane re macedone considerato un dio dai suoi contemporanei? Questa trilogia ci porta nel cuore della sua avventura: dall’infanzia, segnata dall’assassinio del padre Filippo, al patto di sangue con i più fedeli compagni; dai presagi sul suo grande destino fino alla conquista dell’Asia, un’impresa impensabile per un greco del IV secolo a.C. Lo vediamo marciare, combattere, amare. Lo accompagniamo nello svolgersi di una vita irripetibile e favolosa. E siamo con lui quando il suo sogno sembra infrangersi di fronte al termine del viaggio, al confine estremo della terra. Attenzione: Il libro è di tipo “rough cut” o “edge deckle”, il che significa che le pagine non sono tagliati in modo uniforme, per un design originale.
Anno Domini 476. Nella pianura fra Pavia e Piacenza, una coltre di nebbia ricopre il paesaggio. Ad un tratto un’orda di cavalieri barbari emerge dalla foschia e si abbatte sul campo della Legio Nova Invicta, leggendario baluardo della romanità a difesa di Romolo Augustolo, un ragazzo di tredici anni, l’ultimo imperatore romano d’Occidente. Ma non tutti muoiono nel massacro. Dal campo risorge un gruppo di legionari che paiono immortali. A loro si aggiunge Livia Prisca, formidabile guerriera. La loro disperata missione è liberare Romolo Augustolo insieme a Meridius Ambrosinus, il suo enigmatico precettore, anche a costo della vita.
La bizzarra storia del visconte Medardo di Terralba che, colpito al petto da una cannonata turca, torna a casa diviso in due metà (una cattiva, malvagia, prepotente, ma dotata di inaspettate doti di umorismo e realismo, l’altra gentile, altruista, buona, o meglio “buonista”). “Tutti ci sentiamo in qualche modo incompleti” disse Calvino in un’intervista “tutti realizziamo una parte di noi stessi e non l’altra.”
La storia del Barone Cosimo Piovasco di Rondò, indomabile ribelle che a dodici anni sale su un albero per non ridiscenderne mai più, è considerata uno dei capolavori di Calvino. Questa splendida versione, dedicata ai ragazzi, fu realizzata dall’autore nel 1959 mantenendo intatte la qualità della scrittura e la suggestione del racconto. Una storia piena di avventure, leggerezza e libertà.
Agilulfo, paladino di Carlomagno, è un cavaliere valoroso e nobile d’animo. Ha un unico difetto: non esiste. O meglio, il suo esistere è limitato all’armatura che indossa: lucida, bianca e… vuota. Non può mangiare, né dormire perché, se si deconcentra anche solo per un attimo, cessa di essere. Una storia ambientata nell’inverosimile medioevo dei romanzi cavallereschi, ma vicina più che mai alla realtà del nostro tempo.
“Questo romanzo è il primo che ho scritto; quasi posso dire la prima cosa che ho scritto, se si eccettuano pochi racconti. Che impressione mi fa, a riprenderlo in mano adesso? Più che come un’opera mia lo leggo come un libro nato anonimamente dal clima generale d’un’epoca, da una tensione morale, da un gusto letterario che era quello in cui la nostra generazione si riconosceva, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Al tempo in cui l’ho scritto, creare una ‘letteratura della Resistenza’ era ancora un problema aperto, scrivere ‘il romanzo della Resistenza’ si poneva come un imperativo; …ogni volta che si è stati testimoni o attori d’un’epoca storica ci si sente presi da una responsabilità speciale …A me, questa responsabilità finiva per farmi sentire il tema come troppo impegnativo e solenne per le mie forze. E allora, proprio per non lasciarmi mettere in soggezione dal tema, decisi che l’avrei affrontato non di petto ma di scorcio. Tutto doveva essere visto dagli occhi d’un bambino, in un ambiente di monelli e vagabondi. Inventai una storia che restasse in margine alla guerra partigiana, ai suoi eroismi e sacrifici, ma nello stesso tempo ne rendesse il colore, l’aspro sapore, il ritmo…” (Dalla presentazione di Italo Calvino). Postfazione di Cesare Pavese.
Tutti noi abbiamo la sensazione di ricordare da sempre le gesta di Odysseo, ma in questo romanzo, attingendo all’immensa messe di miti che lo vedono protagonista, Valerio Massimo Manfredi porta alla luce episodi e personaggi che non conoscevamo, ci regala la viva emozione di scoprire un intero universo brulicante di uomini, donne, imprese gloriose o sventurate. Ci mostra come accanto a quel personaggio fluisca gran parte dell’epos greco: Alcesti, le fatiche di Herakles, i sette contro Tebe, gli Argonauti, oltre ai due poemi di Omero. Odysseo non si erge solitario tra le ombre di dei e guerrieri, ma il suo intero percorso di formazione, le sue radici familiari, gli epici racconti di cui è nutrito dal nonno-lupo Autolykos e dal padre argonauta, i dialoghi con Herakles e Aias, gli incontri con la misteriosa Athena dagli occhi verdi, ogni dettaglio dà corpo a un racconto profondamente sorprendente. Con assoluto rigore ma anche con una vibrante adesione a questa materia “in continuo movimento”, Manfredi compie la scelta forte di affidare la narrazione proprio a colui che disse di chiamarsi Nessuno: una voce diretta, potente, scolpita nella sua semplicità. Una voce dal fascino assoluto, una storia incalzante come i tamburi di guerra, tempestosa come il mare scatenato da Poseidone, piena di poesia come il canto delle Sirene.
Questo volume nasce da un progetto di rilettura del poema omerico destinato alla scena teatrale. Baricco smonta e rimonta l’Iliade creando ventun monologhi, corrispondenti ad altrettanti personaggi del poema e al personaggio di un aedo che racconta, in chiusura, l’assedio e la caduta di Troia. L’autore “rinuncia” agli dei e punta sulle figure che si muovono sulla terra, sui campi di battaglia, nei palazzi achei, dietro le mura della città assediata. Tema nodale di questa sequenza di monologhi è la guerra, la guerra come desiderio, destino,fascinazione, condanna. Un’operazione teatrale e letteraria insieme, dalla quale emerge un intenso sapore di attualizzazione, riviviscenza, urgenza, anche morale e civile.
Gaspare Torrente, figlio di un pescatore e aspirante latinista, approda a Torino da una piccola isola del Sud Italia. Un ragazzo come lui, che a tredici anni traduce Orazio e legge Verlaine, deve volare alto, fare il liceo e scordarsi il piccolo mondo senza tempo della propria infanzia. Ma la scuola superiore tradisce le sue aspettative: si trova alle prese con programmi flessibili, insegnanti incapaci e compagni “alla moda”. Si sente sempre fuori tempo, fuori posto, come una barca nel bosco. E anche l’università, qualche anno dopo, non è da meno. Ma proprio quando tutto sembrerebbe perduto, la vita gli regala una svolta sbalorditiva, un riscatto etico ed estetico nei confronti di una società che riconosce solo i gregari e di un sistema scolastico che si rivela inadeguato a coltivare un talento.
Barricato in cantina per trascorrere di nascosto da tutti la sua settimana bianca, Lorenzo, un quattordicenne introverso e un po’ nevrotico, si prepara a vivere il suo sogno solipsistico di felicità: niente conflitti, niente fastidiosi compagni di scuola, niente commedie e finzioni. Il mondo con le sue regole incomprensibili fuori della porta e lui stravaccato su un divano, circondato di Coca-Cola, scatolette di tonno e romanzi horror. Sarà Olivia, che piomba all’improvviso nel bunker con la sua ruvida e cagionevole vitalità, a far varcare a Lorenzo la linea d’ombra, a fargli gettare la maschera di adolescente difficile e accettare il gioco caotico della vita là fuori. Con questo racconto di formazione Ammaniti aggiunge un nuovo, lancinante scorcio a quel paesaggio dell’adolescenza di cui è impareggiabile ritrattista. E ci dà con Olivia una figura femminile di fugace e struggente bellezza.
E’ La storia di un amore senza confini come l’isola che lo ha visto nascere e rinnovarsi. Giulia e Salvatore, i giovani protagonisti, potrebbero arrendersi alla lontananza e al cinismo di chi sottolinea la loro diversità e alza dei muri , demolendo sogni e desideri. E invece scelgono di non dimenticare, di preservare un legame e di ritornare come fanno le tartarughe. Si appartengono e appartengono all’isola, approdo di esseri umani affamati di vita e di libertà. E sono proprio i migranti con le loro storie di morte e speranza a tenere uniti questi ragazzi, sottraendoli all’indifferenza e all’immobilità. Gli isolani, che hanno scelto, non senza coraggio, di rimanere, compiono un gesto tanto semplice quanto eroico, quello dell’accoglienza. Mettono in salvo perché sanno di avere delle responsabilità che un passato di migrazione rinfaccia e ricorda con forza. Salvatore e Giulia rappresentano la voglia di cambiare il mondo, di abbattere i pregiudizi e i muri alzati da un odio inaccettabile e vigliacco. Sono dunque tanti gli spunti di riflessione offerti da questo romanzo che si regge proprio sulla capacità di suscitare empatia e partecipazione. Il messaggio finale è importante e non scontato: scegliamo di non scordare chi siamo e da dove viviamo, proviamo a non spezzare quel filo che ci tiene uniti e a tendere la mano a chi è in difficoltà.
Agosto 1938. Un momento tragico della storia d’Europa, sullo sfondo del salazarismo portoghese, del fascismo italiano e della guerra civile spagnola, nel racconto di Pereira, un testimone preciso che rievoca il mese cruciale della sua vita. Chi raccoglie la testimonianza di Pereira, redatta con la logica stringente dei capitoli del romanzo, impeccabilmente aperti e chiusi dalla formula da verbale che ne costituisce il titolo: Sostiene Pereira? Questo non è detto, ma Pereira, un vecchio giornalista responsabile della pagina culturale del “Lisboa” (mediocre giornale del pomeriggio) affascina il lettore per le sue contraddizioni e per il suo modo di “non” essere un eroe.
Di Giulia e di Marco esiste una storia ufficiale, che il tribunale dell’Inquisizione le ha cucito addosso nel Seicento: un’eretica, colpevole di aver sedotto e traviato l’intera Napoli. Poi esiste la storia vera, quella di una religiosa che ha dedicato la vita a soccorrere gli altri, prendendo il nome di “suor Partenope”, come la Sirena che protegge la città e che rivive in tutte le sue donne. A loro indica una via nuova verso Dio: l’estasi, una comunione diretta dell’anima ma anche del corpo, senza la mediazione dei sacerdoti. Venerata come una santa, Giulia apre una voragine nell’ordine delle cose, sovvertendo regole e gerarchie. Occhi pericolosi si spalancano su di lei, occhi che non si chiudono neanche di notte: quelli del nemico più temibile, il Papa. Portata a Roma con la forza, Giulia conosce il dolore e l’umiliazione, ma rinasce giorno dopo giorno al fianco di un amico speciale, Gian Lorenzo Bernini, la cui ingenuità in amore si rivelerà grande soltanto come il suo genio.
Fin dalle sue prime pagine il romanzo immerge il lettore nel clima cupo e pieno di contraddizioni della Sicilia del Settecento. Mentre in Europa trionfa il Secolo dei Lumi a Palermo, in un tempo scandito da impiccagioni, autodafé, matrimoni d’interesse e monacazioni senza vocazione, si consuma la vicenda di Marianna, della nobile famiglia degli Ucrìa, legata ai valori del denaro e dell’onore. “Sposare, figliare, fare sposare le figlie, farle figliare, e fare in modo che le figlie sposate facciano figliare le loro figlie che a loro volta si sposino e figlino…”, è questo il motto della discendenza Ucrìa, che in questo modo è riuscita ad imparentarsi per via femminile con le più grandi famiglie palermitane. Marianna, costretta ad andare in sposa a soli tredici anni a suo zio, investita “con rimproveri e proverbi” quando osa sottrarsi al suo ruolo di “mugghieri” (moglie), sembra all’inizio destinata alla medesima sorte. Lei è però diversa, sordomuta, ma proprio da questa menomazione trarrà la forza per elevarsi al di sopra della chiusura e della meschinità che la circonda.
Siamo in Sicilia, all’epoca del tramonto borbonico: è di scena una famiglia della più alta aristocrazia isolana, colta nel momento rivelatore del trapasso di regime, mentre già incalzano i tempi nuovi (dall’anno dell’impresa dei Mille di Garibaldi la storia si prolunga fino ai primordi del Novecento). Accentrato quasi interamente intorno a un solo personaggio, il principe Fabrizio Salina, il romanzo, lirico e critico insieme, ben poco concede all’intreccio e al romanzesco tanto cari alla narrativa dell’Ottocento. L’immagine della Sicilia che invece ci offre è un’immagine viva, animata da uno spirito alacre e modernissimo, ampiamente consapevole della problematica storica e politica contemporanea.
Lessico famigliare è il libro di Natalia Ginzburg che ha avuto maggiori e piú duraturi riflessi nella critica e nei lettori. La chiave di questo straordinario romanzo è delineata già nel titolo. Famigliare, perché racconta la la storia di una famiglia ebraica e antifascista, i Levi, a Torino tra gli anni Trenta e i Cinquanta del Novecento. E Lessico perché le strade della memoria passano attraverso il ricordo di frasi, modi di dire, espressioni gergali. Scrive la Ginzburg: «Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso. Quando c’incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti, o distratti. Ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase, una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia. Ci basta dire “Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna” o “De cosa spussa l’acido cloridrico”, per ritrovare a un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole».
È la mattina del 17 maggio 1972, e la pistola puntata alle spalle del commissario Luigi Calabresi cambierà per sempre la storia italiana. Di lì a poco il nostro paese scivolerà in uno dei suoi periodi più bui, i cosiddetti “anni di piombo”, “la notte della Repubblica”. Quei due colpi di pistola però non cambiarono solo il corso degli eventi pubblici, ma sconvolsero radicalmente la vita di molti innocenti. La storia dell’omicidio Calabresi è anche la storia di chi è rimasto dopo la morte di un commissario che era anche un marito e un padre. E di tutti quelli che hanno continuato a vivere dopo aver perso la persona amata durante la violenta stagione del terrorismo. Mario Calabresi, oggi giornalista di “Repubblica”, racconta la storia e le storie di quanti sono rimasti fuori dalla memoria degli anni di piombo, l’esistenza delle “altre” vittime del terrorismo, dei figli e delle mogli di chi è morto: c’è chi non ha avuto più la forza di ripartire, di sopportare la disattenzione pubblica, l’oblio collettivo; e c’è chi non ha mai smesso di lottare perché fosse rispettata la memoria e per non farsi inghiottire dai rimorsi. La storia della sua famiglia si intreccia così con quella di tanti altri (la figlia di Antonio Custra, di Luigi Marangoni o il figlio di Emilio Alessandrini) costretti all’improvviso ad affrontare, soli, una catastrofe privata, che deve appartenere a tutti noi.
Ultima settimana del novembre 1327. Il novizio Adso da Melk accompagna in un’abbazia dell’alta Italia frate Guglielmo da Baskerville, incaricato di una sottile e imprecisa missione diplomatica. Ex inquisitore, amico di Guglielmo di Occam e di Marsilio da Padova, frate Guglielmo si trova a dover dipanare una serie di misteriosi delitti (sette in sette giorni, perpetrati nel chiuso della cinta abbaziale) che insanguinano una biblioteca labirintica e inaccessibile. Per risolvere il caso, Guglielmo dovrà decifrare indizi di ogni genere, dal comportamento dei santi a quello degli eretici, dalle scritture negromantiche al linguaggio delle erbe, da manoscritti in lingue ignote alle mosse diplomatiche degli uomini di potere. La soluzione arriverà, forse troppo tardi, in termini di giorni, forse troppo presto, in termini di secoli.
Il romanzo è un’esplorazione attenta della prima realtà verso le sorgenti non inquinate della vita. L’isola nativa rappresenta una felice reclusione originaria e, insieme, la tentazione delle terre ignote. L’isola, dunque, è il punto di una scelta e a tale scelta finale, attraverso le varie prove necessarie, si prepara qui, nella sua isola, l’eroe ragazzo-Arturo. È una scelta rischiosa perché non si dà uscita dall’isola senza la traversata del mare materno; come dire il passaggio dalla preistoria infantile verso la storia e la coscienza.
La Storia è un romanzo storico de 1974 scritto da Elsa Morante. Considerata come una delle sue opere più conosciute, ma allo stesso tempo anche criticate e discusse, l’autrice impiegò almeno tre anni per comporla. Ambientato nella Roma della seconda guerra mondiale e dell’immediato dopoguerra, come romanzo corale è pretesto per un affresco sugli eventi bellici visti con gli occhi dei protagonisti e della popolazione ferita. I quartieri romani martoriati dai bombardamenti e le borgate di periferia affollate da nuovi e vecchi poveri (San Lorenzo, Testaccio, Pietralata, il ghetto ebraico di Roma) e le alture dei vicini Castellli Romani – in cui si muovono le formazioni partigiane di opposizione al nazifascismo e alcuni dei protagonisti della vicenda che scandisce la narrazione come un naturale fil rouge – vengono descritti con realismo, ma anche con una marcata visionarietà poetica. Dal romanzo è stato tratto nel 1986 il film omonimo diretto da Lugi Comencini.
Il Riccetto, il Caciotta, il Lenzetta, il Begalone, Alduccio e altri sono giovanissimi sottoproletari romani. Sciamano dalle borgate della Roma anni Cinquanta verso il centro, in un itinerario picaresco fatto di eventi comici, tragici, grotteschi. Alternano una violenza gratuita a una generosità patetica: Riccetto salva una rondine che stava per annegare ma non potrà far nulla dinanzi al piccolo Genesio trascinato via dalla corrente dell’Aniene; Agnolo e Oberdan assistono Marcello agonizzante, rimasto travolto dal crollo della sua scuola. La Roma monumentale e quella della speculazione edilizia sono lo spazio contraddittorio in cui avviene questa sorta di rito iniziatico di una giornata dei “ragazzi di vita”. Prefazione di Vincenzo Cerami.
Giovanni Drogo, un sottotenente, viene mandato in una lontana fortezza. A nord della fortezza c’è il deserto da cui si attende un’invasione dei tartari. Ma l’invasione, sempre annunciata, non avviene e l’addestramento, i turni di guardia, l’organizzazione militare, appaiono cerimoniali senza senso. Quando Drogo torna in città per una promozione, si accorge di aver perso ogni contatto con il mondo e che ormai la sua unica ragione di vita è l’inutile attesa del nemico. Tornato alla fortezza, si ammala e proprio allora accade l’evento tanto aspettato: i tartari avanzano dal deserto. Nell’emozione e nella confusione del momento, senza che lui possa prendere parte ai preparativi di difesa, Drogo muore, dimenticato da tutti
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