Solo tenendo presente la precedente classificazione dei desideri è possibile decidere quali azioni compiere, al fine di sopprimere i turbamenti e perseguire una vita beata.

Epicuro parte dalla determinazione della natura dell’uomo, riconoscendo che suo fine e principio è il piacere: il bene consiste nel realizzare questa natura e quindi nel perseguire il piacere. Il piacere, a sua volta, è privazione di dolore: ciò significa che non è possibile aumentarne l’intensità all’infinito, e soprattutto che piacere e dolore sono nettamente opposti.] Non tutti i piaceri però devono essere ricercati, ma valutati in base a vantaggi e svantaggi che possono procurare. Il filosofo distingue due tipi:

  • Piaceri mobili (cinetici), ovvero quei piaceri che sorgono nel momento in cui si risponde a un bisogno (bere quando si ha sete),
  • Piaceri stabili (catastematici), ovvero quei piaceri che nascono dall’assenza del dolore (il piacere che segue la bevuta)

Bene sommo è l’autosufficienza (autarcheia), ovvero il sapersi accontentare di poco, così da essere liberi dal bisogno, e quindi dal dolore. Il piacere, in ultima analisi, è infatti «assenza di dolore nel corpo, assenza di perturbazione nell’anima». A fondamento della virtù e della felicità è allora la saggezza (phronesis), la quale si orienta di norma verso i piaceri catastematici. La condizione del saggio epicureo, scevro da ogni dolore e turbamento, è pertanto paragonabile a quella di un dio:

« […] vivrai come un dio fra gli uomini. Poiché in niente è simile a un mortale l’uomo che vive fra beni immortali. »