Nel giugno del 1852 l’intendente di Biella scriveva all’ufficio dell’intendenza generale di Vercelli per avere delucidazioni e, possibilmente, risolvere un problema sul quale si stava arrovellando[i]. Il successivo 11 luglio si sarebbe tenuta in città una manifestazione pacifica, una festa proclamata dai lavoratori in occasione della inaugurazione della bandiera della neonata Società Generale di Mutuo Soccorso e Istruzione, la prima ad operare in ambito biellese[ii]. Non che si temesse un eccessivo concorso di persone (i soci iscritti erano 183), il dubbio riguardava l’opportunità di presenziare o meno alla cerimonia. Da Vercelli giunse una risposta un po’ destreggiante e interlocutoria, indice di un atteggiamento che non avrebbe poi mancato di ripresentarsi negli anni a venire. Sottolineò dunque l’intendente generale che a Torino e a Vigevano le autorità erano senz’altro intervenute alle feste operaie, mentre a Novara se ne erano ben guardate: stanti così le cose, «dal complesso di tali nozioni risultando che il sistema in occasione di simili feste non fu uniforme nelle varie città nelle quali già furono celebrate, il sottoscritto crede […] miglior consiglio d’esplorare le intenzioni del Signor Ministro in proposito». A margine, però, in via più confidenziale, l’ufficiale annotava che, «potendo facilmente esserne sviata», non sarebbe stato conveniente per «l’Autorità governativa» impegnarsi a «parteciparvi, [così da] non perdere la sua libertà d’azione»; tuttavia, nel far questo, meglio sarebbe stato mantenere «qualche rapporto di buona relazione» con la popolazione artigiana. Insomma, il consiglio che arrivava da Vercelli pareva essere d’accettare sì l’invito, ma poi di non partecipare alla manifestazione operaia, per evitare di fornire il destro a strumentalizzazioni politiche, mantenendo, allo stesso tempo, una sorveglianza discreta e stando pronti ad intervenire in ogni momento qualora la situazione fosse degenerata in tafferugli o disordini. L’intendente di Biella, Viani, seguì evidentemente il suggerimento del collega e l’11 luglio trascorse senza che accadesse nulla di particolare: gli operai sfilarono lungo le vie della città e le forze di polizia rimasero vigili ma inattive, con sollievo delle autorità che, per il mantenimento dell’ordine, potevano contare su organici assai scarsi.
Quello stesso giorno, incidentalmente, il parlamento di Torino promulgava proprio una nuova legge che rinnovava il settore della PS e potenziava tutti gli apparati di controllo del regno. Lo spirito della norma si inseriva nell’ottica del passaggio da un’amministrazione di polizia tutta militare ad una civile, in linea con i pieni poteri conferiti al governo dallo Statuto quattro anni prima. Seguendo l’esempio di ciò che avveniva nei maggiori paesi europei, dopo un dibattito piuttosto acceso, venne allora deciso di istituire un corpo di polizia autonomo, da affiancare ai carabinieri e posto alle dirette dipendenze del Ministro Segretario di Stato per gli Affari dell’Interno. La nuova forza fu chiamata Corpo delle guardie di Pubblica Sicurezza e venne assegnata ai centri urbani più grandi, in un’ottica di ridimensionamento delle funzioni di polizia in precedenza assegnate tanto dell’Arma (i cui quadri e stazioni, in realtà, restarono al loro posto, generando fin da subito un piano di forte concorrenza) quanto della guardia nazionale, che per la sua fisionomia democratica era sempre apparsa sospetta e non meritevole di affidamento[iii]. Il nome di PS, fu spiegato, venne adottato «a giusta soddisfazione dell’opinione pubblica, cui suonava ingrato l’antico nome di polizia, e con l’intendimento di rendere meglio palesi i nuovi più vasti e più nobili compiti di questo Istituto»[iv]. La genericità e l’estensione delle competenze del nuovo organo risultarono fin da subito molto accentuate: mantenere l’ordine, la tranquillità e la sicurezza pubblica; vigilare su oziosi, vagabondi, mendicanti, donne di malaffare, giocatori d’azzardo, pregiudicati, su stranieri e recidivi; ricercare i malfattori di ogni tipo e perseguire i reati; intervenire nei casi di incendi e altri simili avvenimenti, provvedendo alle necessità nel miglior modo possibile. Il potere coercitivo era ampio: la polizia poteva «arrestare un uomo, esiliarlo, sorvegliarlo, rifiutargli il passaporto, confinarlo in un distretto, privarlo dei diritti civili, toglierli l’impiego, proibirgli di portare armi o di uscire dalla propria casa di notte»[v]. Sulla base della nuova legge la responsabilità dell’applicazione delle norme di pubblica sicurezza e di forza pubblica fu suddivisa tra l’intendente (successivamente il prefetto), il sindaco di ciascun comune e una nuova figura di collegamento, il questore. Le investigazioni e, più in generale, l’attività di polizia giudiziaria (la ricerca e la scoperta degli autori dei reati, etc.) furono demandate alla responsabilità del procuratore del re. Il nuovo corpo venne prontamente sottoposto a disciplina militare. Sulle prime, però, esso conservò dimensioni numericamente ridotte: 300 uomini in tutto il regno sabaudo, a fronte di ben 5.000 carabinieri. Il servizio veniva espletato in uniforme o in abiti civili e il regolamento disciplinare, assai rigido, prevedeva l’obbligo del celibato e la dimora in caserma. Fin da subito fu evidente il discrimine (per cultura, per provenienza sociale, reputazione, remunerazione e pensione) fra agenti operativi e funzionari amministrativi, situazione che non avrebbe poi mancato di creare problemi e dissapori all’interno del corpo.
Bisogna dire che, almeno inizialmente, Biella fu toccata da questo rinnovamento soltanto in parte. Da quanto si può desumere dallo spoglio delle fonti giudiziarie, ad un anno dall’entrata in vigore del nuovo testo di legge in città non era ancora stato creato alcun distaccamento operativo di polizia. Vi era certamente un delegato (il funzionario di grado più basso nei quadri della PS, gerarchicamente inferiore al vice-ispettore[vi]), il quale faceva riferimento all’intendente locale, ma non era presente un contingente di guardie. Troviamo, ad esempio, che il 23 maggio del 1853 un tale Bartolomeo Cantone, già segnalato per eccessi in un’osteria di via Vescovado, venne arrestato per aver causato disordini nei locali del Caffè del Teatro; in tale occasione l’uomo fu «consegnato al corpo di Guardia di questa Guardia Nazionale e, quindi, rimesso all’Arma dei Carabinieri». Quello stesso mese un cocchiere al servizio dell’albergo della Corona Grossa, passando davanti alla farmacia Gambarova, in Riva, investì con la sua «vettura a due cavalli» un diciottenne serragliere di Valle San Nicolao che stava in quel mentre uscendo dall’esercizio, spezzandogli la schiena e dandosi poi alla fuga. Velocemente confluito sul luogo un grande concorso di passanti e di autorità (anche i giudici del vicino tribunale, in piazza Nuova, l’attuale piazza Fiume), il delegato, «ritenuta la circostanza d’essere il caso di flagrante reato e d’avere questo accidente prodotto nel pubblico una generale indegnazione, aspettandosi le masse del popolo che stavano nella via che dall’Autorità si procedesse, richiese immediatamente l’Arma dei Carabinieri reali»[vii]. Di poliziotti alle sue dipendenze, pare di capire, ancora non ne aveva. In compenso, l’intendente quell’anno già annotava la presenza di una nutrita barabberia (che pure solo più tardi sarebbe divenuta motivo ricorrente delle lamentele cittadine). A febbraio, infatti, un branco di «perturbatori della pubblica quiete e dell’ordine pubblico» aveva preso «quasi tutte le notti delle feste e alcune volte anche delle sere dei giorni non feriati [a] girovagare ad ora tarda della notte per le vie di questa città, schiamazzando ad alta voce, cantando oscene canzoni, associandosi con altri giovinastri loro pari, portandosi sotto le finestre ora degli uni ora degli altri appositamente per insultarli, profferendo ogni sorta di sconce parole, percorrendo caffè e osterie […], ed insultando tanto nei suddetti pubblici esercizi come nella via pubblica chi a loro non [garbava]»[viii].
In questo contesto l’attività della PS biellese era diretta soprattutto a mantenere e, magari, ampliare la separazione fra la popolazione «permanente», da un lato, e gli elementi marginali e fluttuanti, dall’altro. Vagabondi, oziosi, mendicanti, nomadi e forestieri erano il bersaglio preferito di accertamenti e di controlli. Si era abbastanza convinti che i peggiori mestatori e sobillatori di animi provenissero da altre regioni, ma si approfittava di questo convincimento per monitorare e contingentare ogni tipo di movimento delle persone, specialmente di braccianti, avventizi e giornalieri, frutto ineliminabile della pauperizzazione delle campagne e particolarmente numerosi nei periodi morti dell’anno agricolo. Da un certo punto di vista, a ben guardare, non sarebbe sbagliato dire che il vagabondo in «ampio senso» era considerato la «personificazione [stessa] del malfattore»; nei confronti di girovaghi e mendicanti, si ripeteva perciò, non si doveva indulgere in «un malinteso senso di commiserazione»[ix]; tanto l’ozioso quanto il senza tetto dovevano considerarsi in stato di «permanente reato»[x].
L’identificazione dei girovaghi, però, in un’età in cui mancavano strumenti di riconoscimento certi, era un compito tutt’altro che agevole. Il metodo allora utilizzato per accertare anche le recidive (consistente nell’annotazione, presso ogni tribunale, su registri alfabetici, delle sentenze ivi pronunciate, senza che queste fossero di norma comunicate a nessun’altra autorità giudiziaria) non funzionava; o meglio, funzionava solo nel caso in cui il medesimo individuo fosse comparso, come imputato, davanti allo stesso tribunale che aveva emesso un precedente giudizio nei suoi confronti[xi]. Poiché quest’ultima eventualità non si verificava troppo spesso, il giudice istruttore veniva di frequente a trovarsi nell’impossibilità di ottenere notizie sui precedenti penali di un accusato, con la conseguenza che le disposizioni sulla recidiva restavano di sovente senza effetto e che per ogni banale caso di accertamento si doveva perdere molto tempo in ricerche farraginose. Nel Natale del 1852, per esempio, sappiamo di un giovane vagabondo fermato ad Occhieppo Inferiore per «oziosità», e perciò tradotto a Biella. Qui, essendosi il giovane dichiarato cittadino svizzero, si decise di scortarlo fino alla frontiera. A Bellinzona, tuttavia, le autorità cantonali elvetiche lo riconobbero come suddito piemontese e il fermato fu ricondotto a Torino, dove venne alla fine identificato. Si scoprì soltanto in quel momento che era renitente alla leva e contumace. Dall’arresto al riconoscimento erano trascorsi ben quattro mesi[xii].
Nel 1852, nel 1854 (con l’aggiornamento delle norme di PS), e poi di nuovo nel 1859 e nel 1865, la categoria dei sospetti fu estesa fino a includere disoccupati, grassatori, truffatori, ricattatori, contrabbandieri, ubriachi, pazzi, mafiosi e camorristi, e la natura della sorveglianza divenne ancora più rigorosa[xiii]. Gli elevati costi della carcerazione e le lungaggini della giustizia nei tribunali, frattanto, giustificavano l’estensione di nuovi poteri discrezionali alle forze di polizia: il domicilio coatto, la carcerazione preventiva, il foglio di via e l’ammonizione (comminata dai questori senza l’obbligo di consultare il sindaco e le autorità civili) vennero di fatto a configurare un sistema di misure punitive extragiudiziarie che limitarono a lungo e in modo sensibile le garanzie statutarie, la mobilità delle persone e il mercato occupazionale (dopo l’introduzione di un libretto di lavoro obbligatoriamente sottoposto al visto di polizia). In tal senso, i rapporti fra magistratura e polizia erano del tutto sbilanciati a favore della seconda, che invero era solita trattenere in cella persino gli accusati assolti dai giudici. I casi di questo genere erano così frequenti che spesso gli imputati preferivano attendere la scarcerazione dopo una condanna in tribunale piuttosto che essere trattenuti dalla polizia o «ingoiati dalla Sardegna»[xiv]. Gli stessi interrogatori nelle caserme, del resto, erano spesso condotti con metodi brutali e con l’intenzione più o meno manifesta di aggravare la posizione degli arrestati.
Sempre nel 1854 venne emanato anche il primo effettivo regolamento del corpo delle guardie di PS. Composto da 68 articoli, il testo disciplinava reclutamento, promozioni, servizi di istituto, pensioni (concesse dopo venticinque anni di ferma, salvo le ipotesi di infermità contratte per cause di servizio), retribuzioni e gradi. Contestualmente, la polizia estese la propria sfera di controllo ben al di là delle precedenti, già ampie attribuzioni. Attività ed occupazioni commerciali varie, come quelle di venditori ambulanti, osti, albergatori, saltimbanchi, cantanti, facchini, servitori di piazza, guide e ciceroni, così come quelle dei proprietari di torchi a stampa, degli affittuari e dei locatari, furono vincolate a licenze che andavano rinnovate periodicamente e che venivano concesse dalle questure solo in caso di «buona condotta». I permessi per gli spettacoli teatrali presero a essere accordati dietro assicurazione che le rappresentazioni non offendessero «la pubblica morale, la religione, lo stato o la famiglia». Le festività, laiche ma anche religiose, le riunioni pubbliche, i comizi, le manifestazioni di piazza, furono sottoposti a stretta vigilanza, ma in modo discreto, «coordinato e spedito», per lo meno nelle intenzioni[xv]. Taverne, bettole, associazioni vinarie, locande e luoghi di ritrovo in generale divennero una fonte perenne di preoccupazione. «È nelle bettole e nei casini vinarii che le assomigliano, dove il più sovente s’incomincia a smettere l’abitudine al lavoro, a dimenticare le oneste affezioni della famiglia, ad obbedire allo stimolo brutale di falsi bisogni, a concepire […] disegni di sinistri attentati alle persone ed alle proprietà»[xvi]. Si beveva troppo e si beveva ovunque. Nel 1854 a Biella erano registrate 94 mescite di vino, ma a ogni momento ne spuntavano di non autorizzate, nascoste nelle cantine o nei pianterreni delle abitazioni[xvii].
L’organico della polizia venne aumentato, ma nel Biellese si continuava a fare affidamento sulle forze tradizionali. Lo apprendiamo, fra l’altro, da una nota del delegato di PS del gennaio 1854 in cui leggiamo che, scoppiati dei «disordini» presso il Caffè del Teatro – tal Giuseppe Catti si era messo a sbraitare «ad alta voce viva la repubblica» – fu ritenuto opportuno ricorrere una volta di più ai carabinieri. Il documento, per altro, è illuminante anche sotto diversi punti di vista. Quella sera il delegato, che si trovava a teatro, venne avvertito da un suo informatore («una persona di mia confidenza», ebbe a definirlo) di quel che avveniva fuori. «A tale notizia, [mandò a chiamare] il sottoprefetto [il quale] corse direttamente alla Guardia di Milizia nazionale a chiedere un picchetto di Milizia». Tuttavia, giunto ai quartieri della milizia, «non rinvenne che un sol milite e colla meschina scorta di detto milite portatosi [al] Caffè del Teatro colà vi trovò già i Carabinieri reali col loro ufficiale che aveva già fatto operare l’arresto». Il delegato di PS evitava di dilungarsi sull’operazione, essendo depositato agli atti il verbale dei carabinieri, all’apparenza più efficienti. È curioso notare, nondimeno, un particolare assente in entrambi i documenti (quello del delegato e quello del maresciallo dei carabinieri) e, al contrario, presente nei verbali di testimonianza. Leggiamo in questi ultimi che, pur essendo stato condotto l’arresto «senza usar arma qualunque», l’arrestato riportò delle ferite, tanto che «grondava sangue dal viso». Si era «graffiato» da solo, come poi si disse, oppure aveva subito un “trattamento speciale”? A corroborare la seconda ipotesi c’è il fatto che Catti e i suoi compagni, al momento del fermo tutti in stato di ebbrezza, oltre che ubriachi erano probabilmente anche socialisti, benché il termine non compaia nelle fonti. In una serie di deposizioni successive, infatti, uno dei testimoni assicurò che «il Catti […] in quell’occasione teneva in testa una berretta rossa»[xviii]; lo stesso particolare veniva ricordato anche altrove e con insistenza. Del resto, proprio a giugno di quell’anno, ci furono le prime agitazioni operaie del circondario, al lanificio Galoppo di Biella e allo stabilimento Piacenza di Pollone; la classe lavoratrice, perciò, diventava in fretta sinonimo di minaccia sociale, pericolo effettivo che fosse o proiezione dei timori delle classi medie e dei funzionari governativi.
Nel 1859, su impulso di Urbano Rattazzi, le province piemontesi passarono da 17 a 4, e Biella, com’è noto, si ritrovò accorpata a Novara. La ridefinizione della geografia amministrativa del regno comportò per il Biellese il declassamento a semplice circondario, e un sottoprefetto prese il posto dell’intendente. Ma ormai le guardie di PS erano di stanza anche qui: nel giugno 1858 troviamo due agenti, il vicebrigadiere Leverone e la guardia Masca, impegnati in un controllo per «le piazze del pubblico mercato del Piazzo», «debitamente vestiti del […] loro militare uniforme», alle prese con un mercante sorpreso a rivendere del filo con un peso illegale, ovvero sprovvisto del «marchio di verificazione»; colto in fallo, l’ambulante si mise in quell’occasione «a fare grande resistenza gridando e dicendo mi prendono il denaro»[xix].
Con l’unificazione nazionale, almeno nelle intenzioni, «l’antico poliziotto che poteva impunemente minacciare manette e carcere, che formava il terrore dei pacifici cittadini […], che blandiva il Potere […] onde poter più liberamente trascorrere a sfogare basse passioni, spariva per sempre»[xx].
Ancora nei primi anni ’60 la sotto-brigata di PS di Biella restò con tutta probabilità sotto il comando d’un semplice sottoufficiale[xxi], e anche sul versante amministrativo si seguitò a reputare bastante la presenza di un solo delegato sottoposto all’autorità del sottoprefetto[xxii]. È assai arduo quantificare la consistenza degli organici biellesi ma, tenendo conto che alla data del 6 maggio del 1861, nella vicina Novara, sede prefettizia, il personale dislocato, funzionari esclusi, era di soli 9 uomini, si può ragionevolmente immaginare la presenza di 4 o 5 guardie al massimo[xxiii] (sarebbero salite a 8 nel 1890). La densità del controllo poliziesco, del resto, era garantita anche dalla proliferazione degli apparati vigilanti: in quegli anni, infatti, e fino al volgere del secolo, continuarono a essere considerati agenti di pubblica sicurezza in servizio permanente con funzioni di polizia giudiziaria non solo gli ufficiali dei carabinieri e le guardie di PS, ma anche le guardie forestali e boschive, le guardie di finanza, i commessi del dazio, le guardie filosseriche, i guardiafili, le guardie urbane, i secondini e le guardie campestri. In questa pletora di corpi e di funzioni spesso sovrapposte, non bastando gli organici, rientrava anche l’esercito, impiegato con funzioni di polizia e di mantenimento dell’ordine. Così, ad esempio, nell’agosto del 1858 tre giovani, accesasi dopo la mezzanotte una rissa con sassi e bastoni presso la piazzetta del Gallo, furono intercettati da una pattuglia composta da sei militi della IIIa compagnia del comando di piazza, che provvide a disperderli: «Sopraggiunta nel mentre la pattuglia, due degli aggressori si diedero alla fuga lanciando nel tempo stesso delle pietre contro la stessa»[xxiv]. Il comando militare locale era di secondaria importanza ma non del tutto trascurato, tant’è vero cha anche a Biella nel ‘61 si trovò distaccata una divisione garibaldina e persino un contingente di soldati napoletani, ex prigionieri di guerra borbonici, che per altro furono gli unici a dar segni di turbolenza fra tutti quelli inviati al Nord[xxv].
L’occhiuta vigilanza della polizia assunse sempre più spesso connotati di stampo politico, piuttosto che dedicarsi alla prevenzione o alla lotta contro la criminalità. Tuttavia, è bene ricordarlo, all’epoca i concetti di sicurezza pubblica e di tutela dell’ordine erano assai più larghi ed articolati di quanto non si tenda oggi a comprendere. Da qui l’estensione della sfera di competenza della polizia a settori apparentemente insoliti quali la pubblica igiene, che procurò agli apparati di controllo il pretesto per interventi abbastanza invasivi nei confronti di categorie di persone ritenute, a torto o ragione, fonte di disordine, come prostitute e levatrici. Se queste ultime furono fatte oggetto di durissime recriminazioni da parte del clero perché, si diceva, fautrici di pratiche abortive, essendo per motivi diversi osteggiate anche dall’emergente ceto medico specializzato, buona parte dell’attenzione delle autorità, è facile capirlo, si concentrò sul problema prostituzionale. Nel 1855 furono introdotti in tutto il Piemonte regolamenti sul pubblico meretricio, sul modello di quelli allora vigenti in Belgio, poi rivisti l’anno dopo e ancora nel 1858, dietro impulso del conte di Cavour, in seguito all’allarme per la diffusione della sifilide nell’esercito piemontese. I precedenti regolamenti sabaudi avevano imposto la registrazione delle prostitute che avessero compiuto i sedici anni, introducendo l’uso di licenze e rendendo obbligatori accertamenti medici periodici. Le donne malate furono rinchiuse in speciali ricoveri per sifilitici e l’intero circuito della prostituzione fu posto sotto il controllo della polizia, con ampi poteri in fatto di licenze e registrazioni[xxvi]. Qualsiasi donna fermata dalle guardie dopo il coprifuoco, se trattenuta come sospetta, poteva essere costretta a subire una visita sanitaria degradante, e, in assenza di testimonianze di «buona condotta», accertata la perdita della verginità, poteva esser registrata quale pubblica meretrice e mandata in una «casa tollerata». La registrazione aveva lo scopo di limitare la diffusione delle malattie veneree, ma, nella pratica, i regolamenti e gli abusi delle autorità intrappolavano molte donne in un circolo dal quale non riuscivano più a sfuggire. Una volta registrata, infatti, la prostituta perdeva il diritto a portare documenti e, qualora avesse desiderato cambiare mestiere, veniva obbligata a versare un deposito in denaro alla polizia per dimostrare di essere in grado di mantenersi. Se questi versamenti non erano regolari, o non venivano considerati tali in un contesto fatto di corruzione e malversazioni, l’ex prostituta rischiava l’ammonizione o la carcerazione come vagabonda, oppure era costretta a tornare al postribolo[xxvii]. La sorveglianza di questi era rimessa agli ufficiali e agli agenti di PS che potevano, «di giorno e di notte» e «in qualunque ora», entrare per «procedervi a visita in tutte le stanze». Le baruffe erano ricorrenti. Nel settembre 1864, ad esempio, il vicebrigadiere Furno e la guardia Colombo, nel corso di un giro di pattuglia, mentre passavano «davanti alla casa di tolleranza tenuta da certa Arecchi Domenica», probabilmente in vicolo Galeazzo, udirono strepiti e grida tali da far nascere «il sospetto che colà dentro vi accadesse qualche disordine tra avventori e meretrici». Si mossero a quella volta ma ad entrare nell’edificio fu il solo Colombo, «essendo il vicebrigadiere Furno rimasto alquanto indietro per spandere acqua». «Arrivato che fu al secondo piano», il poliziotto «vide tutte le meretrici in scompiglio ed un individuo a lui sconosciuto» che lanciava bicchieri. Fu accolto a male parole («Ci sei anche tu, ruffiano delle puttane») e riportò una ferita alla testa. Arrestato, il giovane scalmanato si giustificò asserendo che, preso dal troppo vino ed avendo già pagato, non era riuscito a «soddisfarsi»[xxviii]. Più difficile capire se l’insulto lanciato al poliziotto fosse gratuito e casuale oppure rimandasse a situazioni di malversazione.
Nonostante tutto i rapporti fra polizia e popolazione si mantenevano tesi. «Sbirro! Chi non è al caso di comprendere il cumulo di disprezzo che il popolo riassume in questa parola?»[xxix]. La guardia di PS veniva considerata una figura professionale senza alcuna specializzazione tecnica, culturalmente rozza, scelta a caso, priva di una consapevolezza sia pur elementare dei problemi sociali emergenti, svincolata di fatto dall’obbligo di rispettare la legge, insensibile al rispetto dei più elementari diritti delle persone. Il filosofo Silvio Spaventa, nominato segretario generale agli Affari Interni nel 1860, si disse più volte convinto che i poliziotti fossero la più infima categoria di servitori dello Stato. Il sentimento più diffuso nei confronti della polizia rimaneva la sfiducia, se non l’odio. L’ostilità tra masse operaie e guardie cresceva: nel corso del 1864, quando circa 3.500 lavoratori bloccarono per tre mesi la produzione industriale negli opifici della valle Strona, venne mobilitato un battaglione di bersaglieri rinforzato da fantaccini, poliziotti e delegati[xxx]. Agli agenti si gridava «servi». Nel marzo di quell’anno un poliziotto imbattutosi in una zuffa tra alcuni giovani davanti alla osteria dell’Allegria, in via Maggiore, «messosi a separarli onde fare cessare la rissa», fu strattonato e minacciato col coltello. Gli dissero che l’avrebbero fatto «a tocchi e che il più grosso sarebbe [stato] l’orecchio». Corso a cercar rinforzi e tornato in compagnia di altre guardie, l’agente aveva trovato «una centinaja di persone, che non erano stati presenti al fatto, e parte opponevansi all’arresto minacciandoci e […] dandoci dei pugni sulla faccia»; tutti strillavano loro «guardie di merda» e «tirapiedi»[xxxi]. Qualche giorno appresso, un operaio ubriaco sottoposto a fermo vibrò «un pugno sul capo del delegato, gridando con alta voce morte ai tedeschi, morte ai croati», per via delle origini lombarde di quello[xxxii]. Rincorso a lungo per le vie, l’uomo continuò a dire che né il delegato né i carabinieri avevano «i coglioni» per prenderlo. Infine, legato con i «polsini» e condotto in caserma, incitò la «popolazione biellese a dare addosso a questi briganti»[xxxiii]. Ancora anni dopo, un altro pubblico ministero del tribunale di Biella, l’avvocato Giovanni Forni, rilevava come fosse «frequente […] il caso che, arrestato un mariuolo, dalla forza pubblica, i popolani si [impegnassero] a sottrarlo alle mani della giustizia»[xxxiv]. Nel 1868 il procuratore del re Montani lamentò il circolo di connivenze che avvolgeva i ceti popolari biellesi e faceva sì che sui colpevoli non «piombasse il castigo» nonostante le «più accurate perlustrazioni»[xxxv].
Il crimine montava, e «tutti questi ferimenti, salvo poche eccezioni, [erano] causati col coltello tra la classe operaia»[xxxvi]. In molti comuni del circondario «gli agenti della pubblica forza non [incontravano] sempre quel rispetto che […] è loro dovuto» e alle volte contro di essi «fu persino esplosa un’arma da fuoco»[xxxvii]. Nel frattempo, la tendenza a identificare come sovversivi e criminali gli oppositori politici si sarebbe accentuata con il terrore del contagio comunista, specie dopo i fatti della Comune parigina, nel marzo-maggio del 1871. Una legge del 6 luglio di quell’anno rese più semplice per le autorità mandare al domicilio coatto gli indiziati. Si diffuse un uso sempre più largo «di poteri straordinari attribuiti a prefetti o a generali, di stati di assedio, di provvedimenti eccezionali di polizia»[xxxviii]. L’emergenza legittimava «la prevenzione e la prevenzione si valeva soprattutto del sospetto; la libertà dei sospettati, dei ‘pericolosi’, dei disturbers, poteva essere costretta o diminuita con l’uso di istituti di polizia preventiva, con pratiche arbitrarie e con abusi tollerati»[xxxix]. Anche a Biella tra il 1874 ed il 1878 si sarebbero contati trenta casi di presunta ribellione alle autorità e, nel solo 1876, sarebbero state inflitte delle pene di polizia a 269 arrestati su 369. Poi, ad aggravare la situazione, sarebbe piombata la crisi economica, che si sarebbe portata appresso «oziosità, miseria, vizio ed una maggior spinta a delinquere in ogni genere di reati»[xl].
(articolo pubblicato: “Rivista Biellese”, XIX, 2, 2015)
Prof. Massimiliano Franco
[i] Archivio di Stato di Vercelli (ASV), Fondo Sottoprefettura di Vercelli, m. 182, Lettera del 16 giugno 1852.
[ii] Cfr. P.C. Mamino, Uno spazio di libertà. Associazionismo e politica nel Biellese tra ‘800 e ‘900, Centro di Doc. sindacale della Camera del Lavoro di Biella, Biella 2006, pp. 19 sgg.
[iii] G. Corso, L’ordine pubblico, il Mulino, Bologna 1979, pp. 35 sgg.
[iv] C. Astengo, G. Sandri, La nuova legge sulla PS, Cecchini, Roma 1889, p. 34. La creazione di un nuovo corpo di polizia appariva giustificata anche dalle cresciute esigenze di mantenimento dell’ordine pubblico seguite alle disastrose risultanze della guerra austro-piemontese del 1848-49.
[v] B. King, Storia dell’unità d’Italia 1814-1871, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1960 (1899), p. 105.
[vi] Nella città capoluogo di provincia con una popolazione superiore a centomila abitanti a capo della polizia vi era un questore. Negli altri capoluoghi, presso l’ufficio provinciale di PS era invece demandato un ispettore. Tra gli ufficiali di polizia giudiziaria erano annoverati il procuratore del tribunale, i giudici istruttori e i pretori.
[vii] Archivio di Stato di Biella (ASB), Tribunale di Prefettura, m. 53, p.p. contro Cantone Bartolomeo e p.p. contro Pezza Giovanni, Note dell’Intendenza.
[viii] Ivi, p.p. contro Giacomone Lorenzo, Nota dell’Intendenza, 22 febbraio 1853. Sulla barabberia biellese a fine ‘800 cfr. M. Franco, Barabberia nostrana, in «Rivista Biellese», XV, 1, 2011.
[ix] G. Bolis, La polizia e le classi pericolose della società, Zanichelli, Bologna 1879, pp. 476 e 557.
[x] Parlamento Subalpino, Documenti parlamentari, Sessione del 1851, p. 496.
[xi] R. Canosa, Storia della criminalità in Italia (1845-1945), Einaudi, Torino 1991, p. 147.
[xii] ASB, Tribunale di Prefettura, m. 53, p.p. contro Daguetti Michele, Nota dell’Intendenza di PS, aprile 1853.
[xiii] G. Amato, La libertà personale, Neri Pozza, Vicenza 1967, pp. 115 sgg. Dal 1862 le autorità locali furono tenute per legge a dotarsi di ricoveri di mendicità.
[xiv] R. Canosa, La polizia in Italia dal 1945 ad oggi, il Mulino, Bologna 1978, p. 13.
[xv] Bolis, La polizia… cit., p. 81.
[xvi] Rendimento di conto dell’amministrazione della giustizia per l’anno giuridico 1868-69 letto all’Assemblea generale del Tribunale Civile e Correzionale del Circondario di Biella il 5 gennaio 1870 dall’avvocato Gaudenzio Santini Procuratore del Re, Tip. Amosso, Biella 1870, p. 14.
[xvii] Nell’aprile del 1863 due poliziotti registravano: «Ci venne fatto di sorprendere in una casa al pianterreno […] [degli individui] che stavano bevendo ad una tavola con davanti una bottiglia di un litro, ormai quasi vuota. Interrogatigli se pagavano il vino che bevevano, essi esitarono a rispondere, [fino a] quando [uno dei presenti finalmente] si levò in piedi qualificandosi come padrone di casa e ci disse che lo vendeva a mezza brenta alla volta [e che] il vino che vendeva era di sua proprietà, fatto sul suo terreno» (ASB, Comune di Cossila, m. 153, Verbale di PS, 13 aprile 1863).
[xviii] ASB, Tribunale di Prefettura, m. 56, p.p. contro Catti Giuseppe, Nota dell’Intendenza di PS, 23 gennaio 1854; Verbale di testimonianza di Robiolio Sebastiano e Scipione Gerolamo, 27 gennaio 1854.
[xix] Ivi, m. 70, p.p. contro Benna Francesco, Verbale di PS, 24 giugno 1858.
[xx]Bolis, La polizia… cit., p. 11.
[xxi] Inizialmente in organico si distinguevano comandanti di 1a e di 2a classe, brigadieri e sotto-brigadieri, guardie e allievi; venne poi istituito, tra i sottufficiali, anche il grado di maresciallo d’alloggio, superiore a quello di brigadiere. La nomina dei comandanti, dei marescialli d’alloggio e dei brigadieri era riservata al Ministro dell’Interno mentre quella a sotto-brigadiere fu delegata ai prefetti.
[xxii] La legge piemontese del 13 novembre 1859, n. 3.720, affidava l’amministrazione della sicurezza pubblica al Ministro dell’Interno e, a questi gerarchicamente subordinati, ai Governatori e agli Intendenti. La legge di unificazione amministrativa del Regno d’Italia datata 20 marzo 1865, n. 2.248 – allegato B – statuiva all’art. 1: «L’amministrazione di pubblica sicurezza è diretta dal Ministro dell’Interno, e per esso dai Prefetti e Sottoprefetti».
[xxiii] Nel 1873 tre guardie, un appuntato, un vicebrigadiere (Archivio Storico della Città di Biella, sec. XIX, m. 14.7, Lettera della Sottoprefettura di Biella, 24 maggio 1873. In tutta la provincia di Novara non si contavano più di 25 guardie (dieci nel capoluogo, cinque a Vercelli, quattro a Biella, due nell’Ossola, a Pallanza e in Val Sesia). Le spese del vitto per metà erano versate dal Comune, cui spettava per intero l’onere del casermaggio.
[xxiv] ASB, Tribunale di Prefettura, m. 70, p.p. contro Reggia Giò Battista, Verbale d’arresto, 26 agosto 1858.
[xxv] Sulla divisione Medici a Biella cfr. D. Presa, Garibaldini e Napoletani, in «Rivista Biellese», IV, 3, 2000; e M. Franco, Dal Volturno alle bettole, in «Rivista Biellese», XV, 4, 2011. Sui prigionieri napoletani: A. Barbero, I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 101 sgg.
[xxvi] Sull’argomento si veda M. Franco, Prostitute, in «Rivista Biellese», XIV, 1, 2010, pp. 23-32. In quegli anni il Dispensario celtico di Biella si trovava in via Umberto (via Italia), poi fu trasferito all’Ospedale degli Infermi; le «forzate» vi erano tradotte dagli uffici di PS, in via Sella (dove resteranno fino al 1952), e dagli stessi agenti prese in consegna una volta guarite; tanto all’andata quanto al ritorno le donne erano trasportate all’interno di carrozzoni chiusi, per evitare gli sguardi dei curiosi.
[xxvii] J.A. Davis, Legge e ordine. Autorità e conflitti nell’Italia dell’Ottocento, Franco Angeli, Milano 1988, p. 256.
[xxviii] ASB, Tribunale penale, m. 20, p.p. contro Fadoni Giuseppe, Verbale di PS, 21 settembre 1864; Testimonianza di Colombo Giò Angelo di Bartolomeo, 25 settembre 1864.
[xxix] G. Alongi, Polizia e delinquenza in Italia, Cecchini, Roma 1887, p. 10. Gaetano Mosca, tra i maggiori politologi dell’Ottocento, usò toni ancor più duri: «Il valore medio di tutti gli agenti polizieschi, dal grado più basso al più alto, dalla guardia al questore, è sempre inferiore alla posizione che occupano. La causa principale di questa incapacità generale degli agenti di polizia sta principalmente nella ripugnanza che hanno i buoni elementi ad entrare in questa carriera. […] In Italia [opponiamo così] la canaglia organizzata e in divisa alla canaglia disorganizzata e in borghese» (G. Mosca, Sulla teorica dei governi e sul governo parlamentare, in Scritti politici di Gaetano Mosca, a cura di G. Sola, vol. I, Utet, Torino 1982, p. 417).
[xxx] Fra’ Dolcino (I. Frignocca), Gli scioperi biellesi, Candeletti Ed., Torino 1882, p. 16; P. Secchia, Capitalismo e classe operaia nel centro laniero d’Italia, Editori Riuniti, Roma 1960, p. 97.
[xxxi] ASB, Tribunale penale, m. 22, p.p. contro Marucchetti Giovanni, Esame di Furno Francesco, 22 marzo 1864.
[xxxii] Nel 1862-63 furono assegnati a provincie piemontesi, fra cui Novara, alcuni ufficiali di polizia lombardi che provenivano dall’ex-gendarmeria austriaca (C. Guarnieri, L’ordine pubblico e la giustizia penale, in Storia dello Stato italiano dall’Unità ad oggi, a cura di R. Romanelli, Donzelli, Roma 1995, p. 374).
[xxxiii] ASB, Tribunale penale, m. 22, Verbale RRCC, 28 marzo 1864; Nota della Sottoprefettura, 29 maggio 1864.
[xxxiv] Relazione statistica dei lavori compiuti nel circondario dal Tribunale civile e Correzionale di Biella nell’anno 1886 esposta all’Assemblea Generale del 5 gennaio 1887 dall’avvocato Giovanni Forni Vice Procuratore del Re, Tip. Amosso, Biella 1887, p. 43.
[xxxv] Rendimento di conto dell’amministrazione della giustizia per l’anno giuridico 1867 presentato all’Assemblea generale del Tribunale del Circondario Civile e Correzionale di Biella il 3 gennaio 1868 dall’avvocato Giuseppe Montani Sostituto Procuratore del Re, Tip. Amosso, Biella 1869, p. 22.
[xxxvi] Rendimento di conto dell’amministrazione della giustizia per l’anno giuridico 1864-65 letto all’Assemblea generale del Tribunale del Circondario di Biella il 6 novembre 1865 dal Procuratore del Re Avv. Gaudenzio Santini, Tip. G. Amosso, Biella 1865, p. 14.
[xxxvii] Rendimento di conto dell’amministrazione della giustizia per l’anno giuridico 1871-72 letto all’Assemblea generale del Tribunale del Circondario di Biella il 3 gennaio 1873 dal Procuratore del Re Cavaliere Avvocato Francesco Navello, Tip. G. Amosso, Biella 1873, p. 26.
[xxxviii] G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. VI, Feltrinelli, Milano 1974, p. 86.
[xxxix] M. Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, in Storia d’Italia, Annali 29, Legge, diritto e giustizia, Il Sole 24 Ore, Milano 2006, p. 489 sg.
[xl] Rendimento di conto dell’amministrazione della giustizia per l’anno giuridico 1878 presentato all’Assemblea del Tribunale Civile e Correzionale di Biella il 3 gennaio 1879 dall’Avvocato Davide Zaccone, Tip. Amosso, Biella 1879, p. 20.
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