Negli anni precedenti allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, il calcio era, come oggi, uno degli sport più amati e praticati. Dalla seconda metà dell’Ottocento nacquero in Inghilterra i primi club ufficiali, con lo scopo di organizzare delle competizioni tra le varie squadre. Successivamente il gioco del football giunse nel resto d’Europa, registrando fin da subito un gran numero di appassionati, i quali frequentemente si recavano agli impianti sportivi per assistere agli incontri. Nel 1890 le porte furono finalmente dotate di reti, due anni più tardi fece la sua comparsa il calcio di rigore
Nel 1878 per la prima volta un arbitro utilizzò un fischietto e in questi anni vennero apportate delle modifiche alla palla utilizzata nelle partite, come la camera d’aria, che si rivelò un grande innovazione, garantendo ai calciatori un controllo più semplice del pallone. A differenza di oggi, dove il calcio è soprattutto una questione di business, all’epoca dello scoppio della Prima Guerra Mondiale esso era principalmente visto come un piacevole passatempo, tanto che alcuni giocatori decisero di abbandonare l’attività calcistica per intraprendere carriere diverse, in quanto percepivano un salario per nulla paragonabile agli stipendi di cui i calciatori dispongono tutt’ora. Infatti accadeva spesso che ad un giocatore non fosse sufficiente lo stipendio da calciatore e quindi, per mantenere la sua famiglia, era costretto a cercarsi un altro lavoro, percependo così un doppio stipendio. Dunque era possibile che un tifoso si recasse allo stadio della sua città per ammirare le giocate e i gol del suo begnamino, e che il giorno dopo si trovasse al fianco di quest’ultimo a lavorare in fabbrica, piuttosto che in miniera. Questo fatto fa emergere nei calciatori del passato un carattere semplice ed umile, dal quale si evince la concezione antica di football in quanto gioco atto al divertimento e al piacere, come dovrebbe essere ogni attività sportiva. Per il gioco del calcio la guerra fu un duro colpo, tuttavia non sufficientemente forte da annullare definitivamente l’attività calcistica dell’epoca. Poco prima dello scoppio delle ostilità, i maggiori club europei usavano sfidarsi in giro per il continente, ma quando scoppiò la guerra molte cose cambiarono : non vi furono più competizioni europee ufficiali, salvo qualche incontro tra selezioni calcistiche di Paesi alleati tra loro. I campionati dei Paesi coinvolti in guerra vennero sospesi e, da quel momento, il calcio divenne per i soldati al fronte un piacevole motivo di distrazione dalle atrocità della guerra.
Football Battalion
Lord Herbert Kitchener, lungimirante ufficiale dell’esercito di sua maestà e una delle icone più famose al mondo grazie alla sua baffuta effige con indice puntato ed al motto “Your country wants you”, al fine di reclutare più uomini possibili per le campagne militari darà vita ai “Pals Battalions”: battaglioni composti da amici e conoscenti provenienti dalle stesse città, compagni di lavoro, di pub o, appunto, appassionati di calcio. Nonostante la forte opposizione della Football Association, fu Sir Arthur Conan Doyle, che con una straordinaria campagna a colpi di inchiostro su ogni giornale d’epoca, griderà: “ Se un atleta vuol dimostrare di aver fegato, deve marciare sul campo di battaglia cosi come su quello di calcio”, facendo di fatto decollare un’opera di reclutamento senza precedenti. Il primo arruolato, 12 dicembre 1914, sarà Frank Buckley, stella e capitano del Derby County, e da lì a pochi giorni seguiranno Vivian Woodward, centravanti del Chelsea , Evelyn Lintott, centrocampista del Leeds, e cosi altri 122 ragazzi provenienti da ogni parte del Regno Unito. In alcuni casi addirittura intere squadre si arruolarono volontariamente; tra questi, le intere rose di Clapton Orient (oggi Leyton Orient) e Hearts Of Midlothian, le quali verranno letteralmente abbattute sul sanguinoso fronte francese all’altezza di Le Havre.
Ai rappresentati di oltre 20 compagini della Football League, si aggiungeranno in seguito oltre 700 tifosi semplici che, per senso di appartenenza, non vorranno mancare il sostegno non solo alla propria nazione, ma soprattutto ai loro beniamini e in tante circostanze morendoci letteralmente al fianco. Dislocato sull’incandescente fronte della Piccardia francese, quei ragazzi, un tempo stelle indiscusse dell’epoca pionieristica del calcio mondiale, si trovarono coinvolti in alcune delle più atroci e sanguinose battaglie che il genere umano abbia mai conosciuto. Tra queste si ricordano la Battaglia del bosco di Delville, a cavallo tra il luglio e il settembre 1916; l’offensiva di Arras del maggio 1917 e soprattutto l’inferno della battaglia della Somme, una carneficina senza precedenti, che ha contato quasi un milione di vittime nei tre mesi di battaglia feroce. Di quel migliaio di ragazzi legati dall’amore del pallone ne moriranno oltre la metà. Molti di loro riposano nel memoriale di Longueval, gli altri giacciono ancora senza nome tra gli altri grandi cimiteri monumentali sparsi per la Francia, altri ancora sono svaniti nell’odio di quella tragedia in qualche campo di battaglia oramai dimenticato dal tempo. Quello che rimarrà del Football Battalion verrà congedato nel febbraio del 1918, lasciando cicatrici dentro e fuori non solo a quel gruppo di ragazzi, ma ad un intera nazione. Mentre sul fronte francese combattevano e morivano le leggende del calcio inglese, moriva e allo stesso nasceva la leggenda del Football Battalion.
Tregua di Natale
Nell’inverno del 1914, sul fronte occidentale, nelle Fiandre, nella zona di Ypres, soldati britannici e tedeschi si fronteggiarono in una battaglia di tricea. Durante la Prima Guerra, che non risulterà poi così lontana dagli orrori della Seconda, in trincea i soldati nemici potevano comunicare fra loro, da una parte all’altra delle barricate. Fronteggiarsi in quel modo, nelle stesse condizioni, consentiva ai militari di consolidare una qualche forma di rispetto, talvolta accompagnato dal dolore di dover sparare addosso a coetanei che non avevano più di 18 anni. In quei giorni vicini al Natale, dopo che le due fazioni pattuirono una tregua in occasione delle festività natalizie, i tedeschi iniziarono ad accendere candele decorative e a piazzare alcuni alberi natalizi. Gli inglesi non si lasciarono sfuggire l’occasione per accodarsi all’iniziativa del nemico e ben presto i soldati trovarono il coraggio e lo spirito di attraversare la “terra di nessuno” (quella che in gergo definiva la parte del campo di battaglia che divideva le due prime linee) per scambiarsi tabacco e tavolette di cioccolato. Il soldato tedesco Kurt Zehmisch, nel libro “Silent night: the story of the World war I Christmas truce”, ad opera dello storico americano Stanley Weintraub, testimoniò su quelle giornate di gelo e di guerra. “Quando addobbammo gli alberi e accendemmo le candele, dall’altra parte giunsero fischi di gioia e applausi. Poi cantammo tutti quanti assieme”. Gli inglesi e i tedeschi, quindi, nonostante le atrocità della guerra che stava distruggendo l’intera Europa, scelsero la via di una momentanea pace, tanto che decisero di sfidarsi in una partita di calcio. Nel Natale del 1914. Il 25 dicembre di quell’anno, un pallone, fatto di stracci riempiti di sabbia e legati con lo spago, entrò cinque volte dentro le porte delimitate coi cappotti. Finì 3-2 per la Germania, in quel piccolo avamposto di riappacificazione, dove i soldati si divertirono come bambini. Si narra che quella partita non piacque ai vertici dei due Paesi coinvolti. Dopo quel Natale, invece che ravvedersi, il generale inglese Horace Smith-Dorrien ordinò di attaccare le postazioni nemiche in maniera ancora più violenta. Una testimonianza raccolta dal soldato inglese George Eade rivelò che un soldato tedesco gli disse con voce bassa e tremante: “Oggi abbiamo avuto la pace, ma da domani tu combatterai per il tuo Paese e io per il mio. Buona fortuna”. Poi, sempre secondo Eade, quel soldato tornò dalla sua parte per riprendere a combattere. La tregua era finita e con essa tutto il suo miracolo. Purtroppo, come prevedibile, la guerra riprese ancora più cruenta di prima di quei giorni. Un comunicato dello stato maggiore britannico ordinò alle truppe di riprendere la battaglia. Quel comunicato conteneva uno dei testi più disumani della storia del Novecento. “Mai più tregue, partite di calcio incluse. In guerra non bisogna mai interrompere l’uccisione del nemico”.Ypres, in poco tempo, passò dal sapore della speranza a quello della distruzione. La località che per un momento aveva rappresentato una possibilità per la storia mondiale, divenne uno tra i teatri di guerra più violenti di tutto la “Grande guerra”. Nei combattimenti fu coinvolta anche la popolazione locale. Negli anni successivi Ypres fu anche bombardata con armi chimiche. L’iprite, un gas velenoso, prende il nome dalla località di Ypres, proprio a causa di quei bombardamenti. Si racconta che fra i soldati ve ne fu uno che, a differenza di molti, accolse con piacere l’ordine perentorio di riprendere a combattere. Era un giovane militare austriaco. Secondo alcuni pare che avesse definito “stupida” quella tregua. Si chiamava Adolf Hitler e passò la notte di Natale del 1914 in un’abazia nei pressi di Ypres. L’ultimo reduce di quella partita è stato invece il soldato Bertie Felstead, vissuto fino al 2001 e morto all’età di 106 anni. Il ricordo di quei giorni è stata l’ultima cosa a morire.
Celebri perdite del mondo del calcio italiano
La guerra decimò buona parte delle squadre italiane più blasonate. Il Milan perse 12 dei suoi uomini tra calciatori e dirigenti; l’Internazionale Milano, alla fine della guerra, commemorò la scomparsa di 26 tesserati. Le squadre Udinese ed Hellas Verona vennero totalmente dimezzate. La Juventus subì in guerra la perdita del suo primo presidente, Enrico Canfari. James R. Spensley, fondatore del Genoa Cricket and Football Club, morì nell’ospedale di Magonza il 10 Novembre del 1915, dopo essere stato ferito a La Bessèe. Ogni squadra ebbe dei caduti in guerra, ai quali vennero dedicati molti dei nomi degli stadi italiani, come ad esempio lo stadio milanese Giuseppe Meazza, ma anche quello che vede omaggiato Luigi Ferraris. Curiosamente anche qui viene più spesso citato il quartiere di Genova dove è costruito l’impianto sportivo, e cioè Marassi. Ferraris, nato a Saluzzo (in Piemonte) giocò nel Genoa dal 1907 al 1911: “alto, robusto e dalla barba bionda”, così lo ricordano i giornali dell’epoca. Quattro anni soltanto, dunque, culminati con la fascia di capitano. Benvoluto da tutti, in campo era, per usare la terminologia corrente, un mediano di rottura. Poi dovette andare a lavorare all’Oeg (Officine elettriche genovesi), e finì arruolato nella Prima Guerra Mondiale, dove fu ucciso da una granata austriaca. Aveva 28 anni.
Mazzone Sero – 4°A
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