Giuseppe Ungaretti nacque ad Alessandria d’Egitto l’8 febbraio del 1888 da genitori italiani. Il padre, operaio allo scavo del Canale di Suez, morì due anni dopo la nascita del poeta in un incidente sul lavoro. La madre riuscì a garantire gli studi al figlio, che si poté iscrivere in una delle più prestigiose scuole di Alessandria.
L’amore per la poesia nacque durante questo periodo scolastico e si intensificò grazie alle amicizie che egli strinse nella città egiziana, così ricca di antiche tradizioni come di nuovi stimoli, derivanti dalla presenza di persone provenienti da tanti paesi del mondo.
In questi anni, attraverso la rivista Mercure de France, il giovane si avvicinò poi alla letteratura francese e, grazie all’abbonamento a La Voce, alla letteratura italiana; ebbe anche uno scambio di lettere con Giuseppe Prezzolini. Nel 1906 conobbe Enrico Pea, da poco tempo emigrato in Egitto, con il quale condivise l’esperienza della “Baracca Rossa”, un deposito di marmi e legname dipinto di rosso che divenne sede di incontri per anarchici e socialisti.
Soggiorno in Francia
In Francia Ungaretti filtrò le precedenti esperienze, perfezionando le conoscenze letterarie e lo stile poetico. Dopo qualche pubblicazione suLacerba (16 componimenti), avvenuta grazie al sostegno di Papini, Soffici e Palazzeschi, decise di partire volontario per la Grande Guerra.
La Grande Guerra
Quando nel 1914 scoppiò la Prima guerra mondiale, Ungaretti partecipò alla campagna interventista, per poi arruolarsi volontario nel 19º Reggimento di fanteria della Brigata “Brescia”, quando il 24 maggio 1915 l’Italia entrò in guerra. In seguito alle battaglie sul Carso scrisse un taccuino di poesie che furono raccolte dall’amico Ettore Serra (un giovane ufficiale) e stampate in 80 copie presso una tipografia di Udine nel 1916, con il titolo Il porto sepolto. Collaborava a quel tempo anche al giornale di trincea Sempre Avanti. Trascorse un breve periodo a Napoli nel 1916 (testimoniato da alcune poesie, per esempio Natale: “Non ho voglia / di tuffarmi / in un gomitolo di strade…”). Il 26 gennaio 1917 a Santa Maria la Longa (UD) scrisse la nota poesia Mattina: “M’illumino d’immenso”.
Sono qui riportati alcuni passaggi tratti dalla rievocazione, a molti anni di distanza, del proprio esordio di poeta e dell’origine della raccolta Il porto sepolto come espressione della necessità di dare voce, attraverso la poesia, al bisogno di assoluto di umanità che animava Ungaretti costretto a vivere nelle trincee.
“Il Porto sepolto fu stampato a Udine nel 1916, in edizione di 80 esemplari a cura di Ettore Serra. La colpa fu tutta sua. A dire il vero, quei foglietti – cartoline in franchigia, margini di vecchi giornali, spazi bianchi di care lettere ricevute… – sui quali da due anni andavo facendo giorno per giorno il mio esame di coscienza, ficcandoli poi alla rinfusa nel tascapane, portandoli a vivere con me nel fango della trincea o facendomene capezzale nei rari riposi, non erano destinati a nessun pubblico. Non avevo idea di pubblico, e non avevo voluto la guerra e non partecipavo alla guerra per riscuotere applausi, avevo, ed ho oggi ancora, un rispetto tale di un cos¡ grande sacrificio com’è la guerra per un popolo, che ogni atto di vanità in simili circostanze mi sarebbe sembrato una profanazione-anche quello di chi, come noi, si fosse trovato in pieno nella mischia.[…] Questo era l’animo del soldato che se ne andava quella mattina per le strade di Versa, portando i suoi pensieri, quando fu accostato da un tenentino. Non ebbi il coraggio di non confidarmi a quel giovine ufficiale che mi domandò il nome e gli raccontai che non avevo altro ristoro se non di cercarmi e di trovarmi in qualche parola, e ch’era il mio modo di progredire umanamente. Ettore Serra portò con sè il tascapane, ordinò i rimasugli di carta, mi portò un giorno che finalmente scavalcavamo il San Michele, le bozze del mio Porto Sepolto”. (da G. Ungaretti, Vita di un uomo, Milano, Mondadori,1969)
Nella primavera del 1918 il reggimento al quale apparteneva Ungaretti andò a combattere in Francia nella zona di Champagne. Al suo rientro, e con animo completamente cambiato dal giovane Ungaretti interventista, nel 1919 stampò a Parigi la raccolta di poesie francesi La guerra, che sarà poi inserita nella seconda raccolta di poesie Allegria di naufragi, di cui il primo nucleo Il porto sepolto fu pubblicato a Firenze nello stesso anno. In quella raccolta si trovano poesie come Soldati (Si sta come d’autunno/ sugli alberi/ le foglie) e San Martino del Carso:
Di queste case
Non è rimasto
Che qualche
Brandello di muro
Di tanti
Che mi corrispondevano
Non è rimasto
Neppure tanto
Ma nel cuore
Nessuna croce manca
E’ il mio cuore
Il paese più straziato
L’immagine di un paese distrutto dalla guerra, San Martino del Carso, è per il poeta l’equivalente delle distruzioni che ha nel suo cuore, causate dalla guerra e dal dolore. Ancora una volta il poeta trova nelle immagini esterne una corrispondenza con quanto egli prova nei confronti dell’uomo, annullato dalla guerra. Si crea nel contempo una forte antitesi tra il paese, di cui rimangono solo i resti, e il suo cuore, in cui sono assenti persino questi ultimi. Così, Ungaretti riesce a rendere con il minimo di parole la sua pena e quella di tutto un paese.
La lirica è costituita da quattro strofe. Le prime due strofe sono legate dalle anafore: di queste case … di tanti; non è rimasto … non è rimasto;tanti … tanto. La metafora brandello di muro riconduce all’immagine dei corpi mutilati dei compagni che lui ancora ricorda. Le croci suggeriscono l’immagine di un cimitero, ma richiamano anche la morte del Cristo.
L’immagine finale del cuore straziato richiama quella iniziale del brandello di muro, chiudendo il componimento con una struttura circolare. É una poesia evocativa.
San Martino del Carso descrive una sorte di “morte della vita”: il luogo più vivo del corpo di un uomo, il cuore, sede delle emozioni, è paragonato ad un cimitero. Così confronta il proprio cuore con un paese distrutto; per antitesi, il cuore ospita le croci che invece mancano nel paese reale, distrutto dai bombardamenti.
I versi non hanno uno schema metrico o di rime, alcuni sono solamente composti da due parole. Questa è una tecnica pienamente futurista, usata per mettere in risalto le parole e il loro significato. C’è una forte allitterazione di suoni duri come la “t”; anche questo un sistema per rendere più efficace l’immagine cruda della guerra. Un altro elemento futurista è l’assenza della punteggiatura.
Ma una sostanziale differenza con i Futuristi o con altre sue poesie è che i verbi sono spesso declinati in vari modi, mentre, se si fosse attenuto al “Manifesto del futurismo”, avrebbe dovuto usare solo l’infinito per dare il senso di continuità della vita. Inoltre Marinetti e i suoi seguaci esaltavano il conflitto, come cosa necessaria e utile, invece, sebbene Ungaretti fosse un interventista, dopo il 1918 e la pace dopo tre anni al fronte, cambierà radicalmente opinione.
Veglia
La veglia del titolo è il lungo tempo passato da Ungaretti accanto al compagno massacrato, ma anche la fraterna partecipazione al suo strazio. Il poeta ha trascorso un’intera nottata a fianco di un compagno massacrato, con la bocca deformata rivolta verso la luna piena e con le mani gonfie e livide per la morte, dettagli che sembrano essersi impressi nel silenzio della sua anima. In questo momento egli ha sentito l’esigenza di dichiarare il suo affetto e il suo attaccamento alla vita. Grazie alla dolente veglia funebre il poeta coglie il significato profondo dell’esistere umano: l’amore. Per quanto la vita possa essere drammatica, vale certamente la pena di viverla pienamente.
Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore Non sono mai stato tanto attaccato alla vita
Cima Quattro, 23 dicembre 1915
Sono una creatura
Il poeta si sente una creatura, un essere vivente che il dramma della guerra ha trasformato in materia fredda e inanimata, tanto che la morte diviene un privilegio, quasi un premio che si conquista dopo avere pagato con la sofferenza durante la vita. Le prime due strofe costituiscono l’avvio alla massima conclusiva attraverso la lunga similitudine con la pietra che introduce una serie di aggettivi di crescente intensità fino all’espressione culminante (“totalmente / disanimata”). Dopo una pausa, si chiarisce l’altro termine di paragone: il pianto pietrificato del poeta.
Come questa pietra
del S. Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata
Come questa pietra
e il mio pianto
che non si vede
La morte
si sconta
vivendo
Valloncello di Cima Quattro, 5 agosto 1916
Fratelli
Di fronte alla guerra non ci sono amici ne nemici, vinti o vincitori, ma solo fratelli. La parola chiave domina il testo, a partire dal titolo. Il tema fondamentale della lirica è appunto la combinazione tra le idee di fragilità e di fratellanza: gli uomini sono fratelli soprattutto perché accomunati da un’identica condizione di precarietà e miseria. Tale significato è reso da un linguaggio nudo e spoglio. I verbi sono quasi del tutto eliminati, la punteggiatura ridotta a un solo punto interrogativo, le immagini accostate senza elementi di raccordo.
Di che reggimento siete fratelli?
Parola tremante nella notte
Foglia appena nata nell’aria spasimante
Involontaria rivolta dell’uomo presente
Alla sua fragilità.
Fratelli
Mariano, 15 luglio 1916
Davide Marampon – 4A – Giovanni Buscaglia e Elia Miglietti – 3A
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