Biografia dell’autore
Piero Jahier nacque a Genova nel 1884 e in questa città trascorse la sua fanciullezza. Compì i primi studi a Torino e a Susa. La madre, dopo il suicidio del marito, si trasferì a Firenze con i sei figli. Qui il giovane Piero si iscrisse alla facoltà valdese di teologia (ma interruppe presto gli studi religiosi) e nel frattempo incominciò a lavorare presso le ferrovie per poter sostenere la famiglia. Presto entrò in contatto con l’ambiente intellettuale fiorentino, nel 1909 conobbe Giuseppe Prezzolini, iniziò a collaborare alla rivista “La Voce” della quale divenne responsabile (aveva intanto conseguito la laurea in giurisprudenza presso l’Università di Urbino). Nel 1910 si sposò ed ebbe quattro figlNel 1916 si arruolò come volontario negli Alpini con il grado di sottotenente. Dopo Caporetto, venne incaricato di dirigere “L’Astico, Giornale delle trincee” con il quale, facendo appello ai valori dell’attaccamento alla terra e alla famiglia, si cercava di risvegliare il patriottismo della massa di soldati contadini che costituivano l’esercito italiano.Nel 1919 uscì a cura di Barba Piero, pseudonimo già usato quando scriveva su “L’Astico” la raccolta Canti di soldati che si ispirava al periodo vissuto in trincea. Nello stesso anno pubblicò Ragazzo, un prosimetro di carattere autobiografico e nel 1920 la sua opera in prosa più famosa, Con me e con gli alpini. Negli anni successivi fu apertamente antifascista e per questo suo atteggiamento fupicchiato, imprigionato e perseguitato. Durante tutto il Ventennio si limitò a pubblicare alcune traduzioni e dopo la liberazione divenne presidente della bolognese “Libera Associazione di Studi” e conseguì una seconda laurea in francese. Nel secondo dopoguerra raccolse i suoi scritti per la pubblicazione di una edizione delle sue Opere, pubblicate nel 1964. Morì a Firenze nel 1966.
Con me e con gli alpini
Con me e con gli alpini è un diario di guerra in cui Jahier narra la propria esperienza al fronte durante la prima Guerra Mondiale. L’opera, composta tra il 1916 e il 1917 e pubblicata nel 1920, rientra nell’ambito della memorialistica di guerra e testimonia i limiti dell’interventismo democratico. L’autore esprime i suoi sentimenti di ammirazione e di fratellanza nei confronti degli uomini del popolo chiamati a combattere e a morire per ragioni che neppure conoscono. Egli nutre profonda stima e rispetto per i soldati e non li ritiene subalterni e inferiori, ma cerca di imparare la loro lezione di vita. Per migliorare se stesso condivide il più possibile la vita dei soldati, partecipando ai loro canti, ai loro discorsi. Molte sono, secondo lo scrittore, le gioie e le consolazioni del soldato: innanzitutto le privazioni, che sanno far apprezzare anche il minimo bene, e poi la salute, il contatto con la natura, la solidarietà la disciplina e infine la coscienza di compiere il proprio dovere battendosi per una causa giusta. Nelle ultime pagine compare il rombo del cannone e il pensiero della morte sublimata come atto di eroismo e di abnegazione, come dimostrazione della grandezza e della forza morale del soldato, dell’alpino. Dal punto di vista stilistico, l’opera si caratterizza per una forma di scrittura decisamente sperimentale, dove si fondono realismo e ispirazione lirica, linguaggio quotidiano e lingua delle tradizione, toni biblici e gergo burocratico.
Dichiarazione
Altri morirà per la Storia d’Italia volentieri
e forse qualcuno per risolvere in qualche modo la vita.
Ma io per far compagnia a questo popolo digiuno
che non sa perché va a morire
popolo che muore in guerra perché «mi vuol bene»
«per me» nei suoi sessanta uomini comandati
siccome è il giorno che tocca morire.
Altri morirà per le medaglie e per le ovazioni
ma io per questo popolo illetterato
che non prepara guerre perché di miseria ha campato
la miseria che non fa guerre, ma semmai rivoluzioni.
Altri morirà per la sua vita
ma io per questo popolo che fa i suoi figlioli
perché sotto coperte non si conosce miseria
popolo che accende il suo fuoco solo la mattina
popolo che di osteria fa scuola
popolo non guidato, sublime materia.
Altri morirà solo, ma io sempre accompagnato:
eccomi, come davo alla ruota la mia spalla facchina.
Sotto, ragazzi,
se non si muore
si riposerà, allo spedale.
Ma se si dovesse morire
basterà un giorno di sole
e tutta Italia ricomincia a cantare.
Reclute
che sono andato a vestire al Deposito degli alpini. Non erano reclute comuni.
Niente fiori al cappello, niente allegrezze, niente canzoni. Avevo visto i giovani colare a picco in fiume le vecchie mutande e camice tra scherzi e grida di evviva.
Ma questi son padri tristi e quieti che non si aspettavano la chiamata.
32 anni: saltare non è più un piacere; cambiare non è più distrazione.
Stavano silenziosi e tranquilli come una squadra operaia che aspetti il suo turno di paga. Un solo signore tra loro, strano nel suo soprabito a campana.
Tutti contadini in giacchetta; più usati di me come corpo, quantunque della mia leva; parecchi bevuti, come sempre il montanaro nelle emozioni. Si provavano le uniformi, si mettevano i fregi con imbarazzo, come roba non da loro: con un senso di ridicolo penoso.
I giovani li han da mostrare alle morose, ma questi bisognerà che rimettano l’abito vecchio per non spaventare i bambini. Si son lasciati incolonnare senza chiedere nemmeno dove andavamo.
Solo un nanerello mattacchione venuto d’America è riuscito a far rider la compagnia, quando ha alzato la coda a una vacca e le ha baciato la fessa chiamandola: me’ nona.
Pioveva lugubremente; qualcuno aveva sottobraccio l’ombrello che, ormai, non si può più aprire.
Andavano già al passo, da soli, naturalmente disciplinati.
E si scusavano di non sapere.
Volevo dir loro qualcosa: ma anch’io, soldato novizio, ero imbrogliato. Quantunque capissi i loro pensieri.
Sono al mio stesso punto di vita, e, come me, sono padri.
Ogni età ha i suoi pensieri comuni.
Questo mi potrà aiutare.
Li ho accompagnati ai paglioni. Ogni tre uomini, due.
Nessuna osservazione.
Poi in silenzio, sono ripassato.
Camminavo in mezzo ai corpi abbandonati sul grigio. Tutto uniforme, tutto uguale; eppure ciascuno i suoi ricordi e i suoi affetti; ciascuno una sua storia di uomo.
Ho sentito bisogno di dar loro un segno di cura.
Ho detto: buonanotte figlioli. E tutti han risposto: buonanotte.
Nessuno era addormentato.
Irene Zombolo – 3A
Commenti recenti