Il pezzo riportato qui sotto proviene dal capitolo IV del libro Le Società segrete – ed i moti degli anni 1820-21 e 1830-31 scritto dal Prof. Piero Pieri ed edito Casa Editrice Dotto Francesco Vallardi. L’opera, scritta negli anni ’30 del secolo XX, tratta le società segrete che operarono in Italia (e non solo) nel XIX secolo, partendo dalla Massoneria, fino a parlare delle sette più sconosciute e ignote, senza tacerne colpe e difetti od ometterne meriti e grandi contributi per l’affrancamento da francesi e austriaci e per l’unità della penisola. Particolare attenzione è posta alla Carboneria, società nata dalla scissione di un ramo antifrancese della Massoneria oppure fondata da una parte dei Massoni inglesi, con il contributo della regina di Napoli Maria Carolina d’Asburgo – Lorena. Grande attenzione viene posta anche a società minori come i Raggi, i Centri, gli Adelfi e i Filadelfi, che operarono in Piemonte, Lombardia, Stato Pontificio e soprattutto nel Regno delle Due Sicilie, dove tra l’altro, per opera del governo, venne fondata la setta dei Calderari, in risposta alla Carboneria. Ed è qui, nell’ex Regno di Napoli e in Sicilia, che si concentra l’attenzione per i moti e le insurrezioni susseguitesi in seguito al congresso di Vienna, dove spesso le azioni di dissidenti e rivoluzionari mossi da nobili principi e ideali si mescolavano con quelle di briganti e delinquenti di infimo livello, mossi dalla crudeltà e dalla volontà di arricchirsi a spese degli altri. Il lavoro di Pieri è di notevole importanza per via delle minuziose informazioni su struttura, gerarchia, rituali, parole d’ordine, usanze, codici etici e di comportamento, idee politiche e religiose, origine e storia delle varie società segrete; il tutto è accompagnato da informazioni storiche su personaggi, eventi, insurrezioni compiute o tentate, in età napoleonica e durante la Restaurazione, con la presenza anche di illustrazioni e tavole, ad arricchire il tutto.

 

Lorenzo Pitaccolo – 4A 

 

CAPITOLO IV – LE SOCIETA’ SEGRETE

L’opposizione alla dominazione straniera e ai governi assolutistici prese l’aspetto delle cospirazioni attraverso l’opera delle società segrete. E non poteva esse altrimenti, dato che un’opposizione aperta, nelle forme legali, non era possibile. La società segreta altro non era dunque, che un partito politico al quale non era concesso di svolgere la propria opera nelle forme legali. È stato facile agli storici benpensanti dei tempi tranquilli condannare in blocco le sette come una piaga spiccatamente italiana, come uno strumento di perversione del carattere, come un indice di particolari tendenze della nostra indole; bisogna porsi la domanda che cosa si sarebbe potuto fare di meglio in condizioni così tristi e difficili! Innanzi tutto poi è da notare che le società segrete di questo periodo non sono per nulla una caratteristica italiana, né appaiono solo dopo il 1815; anzi la loro origine non è affatto italiana e rimonta alla prima metà del secolo XVIII.

Si può dire che madre di tutte le sette pullulate nel secolo XVIII sia stata la Massoneria. Essa fornì il modello, il rituale, la forma organizzatrice, la gerarchia, la base ideologica e pervase della sua mentalità gran parte della società colta del secolo. Molto si è scritto e discusso circa l’origine di questa grande società segreta; e i massoni, naturalmente, han cercato di risalire nei secoli, e di legarsi con quanti, attraverso la storia, lottarono contro la tirannide e per la libertà. Ma lasciando da parte quanto v’ha di leggendario e di fantastico, si può oggi asserire che la Massoneria è sorta in Inghilterra fra il 1720 e il 1730, come società filantropica, umanitaria, in cui si agitassero idee e si discutessero problemi, conforme allo spirito del tempo, il quale era portato verso una fede illimitata nel progresso indefinito dell’umanità, resa libera dagli errori e dalle superstizioni, guidata dai lumi della ragione e della scienza. Le sue adunanze in realtà erano circoli di aristocratici intellettuali, seguaci della moda, ostentanti un certo scetticismo religioso, una vaga aria di fronda politica. E con loro si trovano borghesi arricchiti, alti funzionari, portati a vedere di buon occhio la lotta contro i privilegi del passato. Non pare che in origine i massoni avessero un vero programma anticlericale e antireligioso; ma il loro atteggiamento scettico e spregiudicato, il loro entusiasmo per il progresso scientifico, che sembrava dissipare le tenebre delle superstizioni, la simpatia con cui seguivano la lotta dei governi contro i privilegi del clero, il loro stesso rituale e l’ideologia mescolante i principi religiosi con dogmi del nuovo illuminismo e razionalismo, tutto doveva portarli al conflitto con la Chiesa. E già nel 1736 il pontefice Clemente XII (Lorenzo Corsini di Firenze) lanciò la prima bolla contro la Massoneria, a cui seguì nel 1751 una seconda di Papa Benedetto XIV (il dotto e intelligente bolognese Lambertini). Ma non per questo si arrestò la fortuna della Massoneria, che al Muratori, storico acuto e sagace, oltre che erudito formidabile, era parsa già del tutto al tramonto allorché egli scriveva l’ultimo volume dei suoi Annali d’Italia, e parlava appunto della bolla di Clemente XII, a dieci anni di distanza della stessa. Ricordava dunque egli come anche in Francia la setta dei Liberi Muratori fosse stata perseguita dal governo, così che << queste nuvole, di lì a non molto tempo si ridussero in nulla, almeno in quelle parti e in Italia >>.  Eppure la setta non era affatto al tramonto; anzi essa si stava proprio ora diffondendo in tutta Europa, e se veniva a volte perseguita (Carlo di Borbone, ad esempio, sulle orma di Benedetto XIV, suo confinante e alto signore del regno di Napoli, la interdisse dai suoi Stati), trovava anche spesso incoraggiamento e protezione. E ben presto penetrò persino nelle Corti: il suo programma infatti appariva in pieno accordo col riformismo e anticurialismo praticato o accettato dai governi assoluti; il tempo avrebbe messo in evidenza, più tardi, i molti punti in disaccordo; per il momento si vedevano soprattutto i punti di contatto. Società per la diffusione dei lumi, societés de pensée filantropiche, cosmopolite, reclutarono più che mai aristocratici e principi spregiudicati e frondisti, dilettanti d’economia, di questioni sociali e umanitarie. A Napoli la stessa regina Maria Carolina, e a Parigi la di lei sorella Maria Antonietta, e a Vienna l’imperatore Giuseppe II, loro fratello, vi appartennero. E società a fondo massonico, con organizzazione e simbolismo analoghi, anche se con nomi diversi, si diffusero per tutta Europa. Fu anche, per l’Inghilterra, la Francia, l’Impero, un mezzo d’espansione all’Estero, uno sforzo per legare a sé le classi dirigenti, o almeno progressiste, dei diversi paesi. Certo la Massoneria contribuì non poco a intensificare i rapporti intellettuali fra paese e paese, a mostrare nuovi orizzonti ai ceti nuovi, a stimolare l’attività riformatrice dei governi; e indirettamente contribuì al ridestarsi del sentimento nazionale, al venir meno, almeno in certi strati sociali, di quel gretto particolarismo medievale, che è caratteristica di tutti i paesi dell’Europa, anche se assunse poi forme diverse o apparve più o meno intenso. Si è anzi assai discusso intorno alla parte che la Massoneria ebbe nella rivoluzione francese, sia nel provocarla, che nel dirigerla. I massoni da un lato hanno avuto la tendenza a esagerare questa importanza, i clericali e i reazionari, pur con scopo tutt’affatto opposto, han sostento la stessa tesi, per mostrare come la setta avesse tradito la monarchia e condotto ai supplizi del re e della regina e agli errori del terrore giacobino. In realtà non si può dire affatto che la rivoluzione francese sia il prodotto di un complotto massonico, e tanto meno che in esso la setta agisse dietro l’influsso straniero; ma pur tuttavia la sua influenza fu grandissima. Nazionale e riformista, essa era anzi tendenzialmente contraria alle forme violente e rivoluzionarie, e più disposta a esercitare il suo influsso sull’estero, che a subirlo. Ma era dotata di una capacità organizzatrice grandissima, unita a un forte spirito di proselitismo; perciò la Massoneria oltre che a elaborare le idee dei riformatori, diede a quanti simpatizzavano per queste idee una salda organizzazione: nobiltà intellettuale, parte del clero e della borghesia vennero irreggimentati, per così dire, inquadrati, disciplinati: la burocrazia e l’esercito finirono coll’essere nelle sue mani. Perciò la sua influenza fu grandissima negli anni che precedettero la rivoluzione, e durante la grande preparazione elettorale del 1788-89. Ad essa si dovettero gran parte dei famosi cahiers, esponenti i desiderata, i programmi riformistici della borghesia francese. Colla rivoluzione vera e propria però la sua influenza diminuì, o meglio, rimase solo indiretta. L’iniziativa passò sempre più ai clubs rivoluzionari, guidati da elementi ex-massoni, spesso moralmente e culturalmente assai scadenti. E i clubs rivoluzionari avevano ereditato la capacità organizzatrice massonica, ma ora volgevano il sistema, peggiorandolo, a mete sempre più lontane dal riformismo della vecchia massoneria francese. E fra i girondini, vittime del furore e dell’intolleranza miope e faziosa degli antichi fratelli di loggia, si annoveravano molti massoni autentici! In conclusione, la Massoneria preparò soprattutto l’ambiente spirituale riformistico, egualitario che portò alla rivoluzione francese; non la guidò però in seguito, e tanto meno fu partecipe e responsabile dei suoi eccessi. Del resto la Massoneria assunse aspetti diversi nei vari paesi d’Europa. Ebbe carattere filantropico e pratico in Inghilterra, tendenze veramente mistiche in Scozia, indirizzo più spiccatamente rivoluzionario e internazionalistico in Baviera.

In Italia sembra comparisse prima a Livorno, importata da ufficiali di marina inglesi, verso il 1730; e non molto dopo a Napoli, pure introdotta allo stesso modo. Ebbe anche da noi un carattere piuttosto pratico, riformistico umanitario, razionalistico, senza tendenze mistiche né rivoluzionarie. Solo quando i governi nostri, spaventati dagli eccessi della rivoluzione francese, arretrarono dalla via del riformismo, allora soltanto la Massoneria prese un carattere più rivoluzionario, o meglio, avvenne allora una scissione fra gli elementi più spinti, decisamente rivoluzionari, e gli elementi riformisti. Ma la reazione del 1799, più grave nel Mezzogiorno d’Italia, ma pur tuttavia forte anche nel resto della penisola, parve averla schiantata; di certo, nel Mezzogiorno non  diede, durante la prima restaurazione borbonica, più segno di vita. Ma la setta era risorta in Francia colla reazione termidoriana, e aveva trovato in Napoleone l’uomo capace e di addomesticarla e di servirsene ai propri fini. Durante l’impero essa divenne uno strumento di governo e andò perdendo quel poco che ancora le restava di segreto. E come tale, sotto l’egida delle bandiere francesi, tornò a diffondersi in ogni parte d’Italia, mentre non si può escludere che una Massoneria riformata sul modello inglese si riordinasse in Sicilia sotto la stessa protezione degl’Inglesi. Così che le due Massonerie servivano gl’interessi dei propri paesi, sotto la veste di un generico programma umanitario. In Italia dunque la Massoneria fu uno strumento di governo per i Francesi; entrare in essa voleva dire bensì assumere degli obblighi di devozione, fedeltà, condannarsi qualche volta a un entusiasmo forzato, a dir sempre bene di quanto si facesse o si disfacesse, a fa insomma la “claque” ai padroni; ma in compenso quanta maggiore possibilità di carriera, quanti aditi presso il governo, presso i pezzi grossi, le persone altolocate! Senza parlare della precedenza negli appalti, nelle agevolazioni commerciali, e via di seguito. Esser massone a tempo opportuno, significava insomma far un ottimo affare! Quando invece il regime francese crollò, l’esser massone non offerse più i vantaggi di un tempo, anzi, presentò dei gravi pericoli: nel Lombardo-Veneto specialmente, nello Stato Pontificio, nel ducato di Modena, i massoni non eran più tollerati sotto nessuna veste. E allora le logge si sciolsero, e i massoni, fedeli impiegati del regno italico, divennero allo stesso modo fedeli impiegati dell’Austria e degli altri governi, cercando solo di far dimenticare la precedente macchia con un contegno irreprensibile o addirittura entusiasta; sbracciandosi anzi a dir male dei precedenti padroni. Ma non tutti i massoni, a onor del vero, furon così abbietti.

Già sotto il regime francese cominciarono a manifestarsi dei dissensi; ancora nel 1798 era sorta nell’Italia settentrionale la società dei Raggi, con centro a Bologna, sede ritenuta abbastanza centrale e adatta quindi per la diffusione della propaganda i tutta Italia, e al tempo stesso appoggiata all’Appennino, nel caso che si fossi giunti all’insurrezione armata: questa società segreta, di stampo massonico quanto all’organizzazione e al formulario, aveva come scopo immediato la liberazione dell’Italia da tutti quanti gli stranieri, Francesi o Tedeschi che fossero. E più tardi nel regno italico sorsero gli Antieugeniani, gl’Italici, gl’Indipendenti; ma la società segreta di gran lunga più importante e che parve impersonare tutto il movimento cospiratore italiano, specialmente dopo il 1815, fu quella dei Carbonari.

 

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Anche le origini di questa setta non sono affatto chiare: ciò si spiega e per la sua segretezza, e soprattutto perché, sorta probabilmente come una delle tante piccole sette di carattere regionale, a stampo massonico, solo più tardi assurse a imprevista e insperata fortuna, allorché già era difficile rintracciarne la prima origine. E può darsi anche che varie correnti abbiano contribuito, quasi contemporaneamente, a formarla e ingrossarla, così che le origini possono sembrare assai diverse. Naturalmente anche i Carbonari, come già i massoni, vollero nobilitare le loro origini, e risalire nientemeno che a San Teobaldo, eremita francese, della nobile prosapia dei conti di Champagne, ritiratosi dal mondo per vivere fra le selve, e morto nel 1066. E naturalmente, le vittime dei tiranni e chi nel corso dei secoli aveva cercato nella fida selva protezione contro le iniquità del mondo, appartenne, almeno ad honorem, alla setta. Ma in realtà oggi si può solo far questione di due cose: se la Carboneria sia di origine italiana o straniera, e se esistesse in Italia anche prima del 1799. Questa seconda ipotesi sembra la meno probabile. Durante la prima restaurazione nel napoletano non se ne trova traccia, i primi indizi sicuri si riferiscono all’Italia meridionale e al regno di Giuseppe Bonaparte. Secondo alcuni, e riteniamo questa l’ipotesi più probabile, i Carbonari si sarebbero staccati dalla Massoneria perché troppo ligia alla Francia; una scissione dunque sul tipo di quella avutasi otto o dieci anni prima nell’Italia settentrionale a proposito dei Raggi. E Napoli del resto vantava una precedente scissione, allorché nel 1793 i massoni avevan costituito una nuova società, detta Sans Compromission, e questa alla sua volta s’era divisa nei due clubs Lomo (libertà o morte), e Romo (repubblica o morte), relativamente moderato il primo, schiettamente giacobino il secondo. Ora dunque i massoni dissidenti si staccarono, e formarono una società nuova: gli uni si chiamavano muratori, questi si dissero carbonari. I muratori asserivano di lavorare alla costituzione del tempio di Salomone, ossia al tempio della virtù, e i carbonari pretesero di purificare tutto al fuoco del loro carbone. Se non che sotto il rigido governo napoleonico ben poco poteron fare, e se riuscì loro di sostenersi, ciò fu specialmente nelle selvosa e non mai del tutto domata Calabria.

E qui vien fatto di ricordare un’altra diceria, circa l’origine della setta: essa sarebbe sorta in Sicilia, per opera della regina Maria Carolina e del famoso cardinal Ruffo, e di là diffusa nelle Calabrie, come arma contro i Francesi. Secondo altra fonti, la Carboneria sarebbe stata fatta sorgere proprio in Napoli, fra i partigiani dei Borboni, sempre dalla regina Maria Carolina; e per ciò sarebbe lecito credere che avrebbe avuto come alimento tutto il servigio di spionaggio e di intrighi, che da Capri e da Ponza era diretto contro il re Giuseppe Bonaparte. La più antica delle fonti finora conosciute, il rapporto di Pietro Dolce al conte Sauran, che è del novembre 1815, dice che la setta fondata probabilmente durante la campagna di Russia, mentre re Gioacchino era lontano, per opera degl’Illuminati di Napoli, diretti dagl’Illuminati di Londra, nonché da tutte le logge massoniche inglesi. Dunque in conclusione la Carboneria sarebbe una propaggine della Massoneria inglese, in urto allora con quella francese. Comunque queste varie ipotesi si possono abbastanza conciliare. Nella Carboneria sarebbero confluiti i massoni dissidenti, perché profondamente patrioti, contrari a qualunque dominio straniero, e perché desiderosi d’una maggiore libertà costituzionale, e gli elementi borbonici a anglofili. Due schiere diversissime, ma che sulle prime stettero o parvero unite dalla comune avversione ai Francesi, sebbene in realtà poco o nulla potessero fare; e anche il loro numero dovette sulle prime essere esiguo. Solo col 1812, e più col 1813, al declinare dell’astro napoleonico, la loro fortuna si rialzò, sì da far sembrare che allora soltanto la setta avesse avuto vita.

Secondo un’altra versione, invece, la Carboneria sarebbe nata per ispirazione dello stesso governo Murat attorno al 1809. Il ligure Maghella, già strumento della reazione, al servigio dei nobili, nella sua Genova, e chiamato a Napoli come coadiutore del ministro di polizia Saliceti, avrebbe continuato a servirsi della Massoneria come strumento di governo, poi, visto che essa non penetrava fra le masse, l’avrebbe in parte trasformata ad uso dei ceti inferiori, prendendo lo spunto delle corporazioni dei carbonai dell’Appennino sovrastante la Superba e dalla loro organizzazione. Così che sulle prime la Carboneria si sarebbe diffusa sotto la protezione e l’incoraggiamento del Governo, come una Massoneria ad uso dei ceti inferiori; ma ben presto molti dei vecchi giacobini e in genere gli elementi antifrancesi vi s’infiltrarono trasformandola in una società nettamente ostile al nuovo regime, e introducendovi elementi e dottrine della setta degli Illuminati. Comunque stiano le cose, è certo che la Carboneria deriva dalla Massoneria, inglese o francese non importa, e che essa si manifesta soprattutto al declinare della fortuna napoleonica, con carattere nettamente antifrancese. Nel settembre 1813, mentre re Gioacchino è alla guerra in Germania, si ha in Calabria il primo grave conflitto. Il 15 a Cosenza la polizia, che teme una cospirazione, fa delle retate di Carbonari, veri o presunti. Tre giorni dopo truppe francesi invadono il paesello di Altilia, fra i monti, sul versante tirreno della provincia, ritenuto covo di Carbonari, e lo mettono a sacco: il capitano delle truppe provinciali (specie di guardie nazionali) Vincenzo Federici detto Capobianco, giovane di condizione civile e carbonaro, fugge, e con alcuni compagni armati si presenta davanti a Cosenza, ma la città non si muove, ed egli coi suoi si dà alla campagna. Torna a scorazzare lungo il crinale appenninico a lui ben noto, ma è arrestato per tradimento non lungi da Nicastro, e condannato a morte da una Commissione militare per cospirazione, tradimento, ribellione: viene impiccato subito, il corpo arso, le ceneri disperse. Questo il 26 settembre.

Nel marzo del successivo anno 1814, nuova e più grave sommossa negli Abruzzi. È vero che adesso il re di Napoli è passato dalla parte degli alleati contro il tirannico cognato, ormai sul declinare della sua fortuna, ma rimane pur sempre anch’egli un principe straniero; e soprattutto non vuol saperne di concedere la costituzione. Perciò, mentre Gioacchino si trova a Bologna e l’esercito napoleonico è sul taro contro le truppe del regno italico e di Francia, il 19 marzo a Castellamare Adriatico in provincia di Teramo si riuniscono numerosi capi carbonari e stabiliscono d’iniziare di lì a sei giorni, in Pescara, il moto che si propagherà a tutti gli Abruzzi. Ma in questa città, per l’imprudenza del capo dei Carbonari, l’autorità è prevenuta, e inizia numerosi arresti: il moto allora scoppierà a Città S. Angelo. E qui realmente scoppia il 27  la rivoluzione: una decina di soldati son disarmati, sventola dall’alto della torre comunale il tricolore carbonaro rosso-nero-celeste; e si forma un governo provvisorio repubblicano. Segue messa solenne con Te Deum. Il giorno dopo il moto si estende ai paesi vicini, e il 29 sera una colonna armata d’insorti muove verso Pescara; ma nella notte, nel traversare un bosco, a un insorto scatta un colpo di fucile; da ciò gran confusione; si crede ad un attacco nemico, tutti sparano a casaccio e la colonna finisce collo scompigliarsi e disperdersi. Il 31 i Carbonari, riordinatisi, muovono contro Teramo; sono affrontati dal battaglione delle milizie provinciali, e ne segue un combattimento rumoroso, sebbene con un solo ferito, e alla fine, visto che la città non si muove, gl’insorti si ritirano. Mancata la sorpresa a Pescara e a Teramo, ossia nei due punti principali della provincia, la rivoluzione venne meno, come face al mancar dell’alimento; gl’impiegati allontanati ripresero le loro funzioni e i loro posti e tutto parve finire in una bolla di sapone. Ma il 4 aprile da Bologna il Murat emanava un decreto col quale la Carboneria era severamente proibita in tutto il regno; si concedeva perdono a quanti si fossero subito ravveduti, ma si escludevano però totalmente i sollevati del distretto di Penne, contro i quali si sarebbe anzi dovuto agire col consueto rigore. Seguivano infatti numerosi arresti, poi da Ancona moveva il gen. Floristano Pepe, fratello maggiore del famoso Guglielmo, con un intero reggimento di linea. Il prode generale non amava macchiarsi di sangue civile, e voleva procedere a un generale perdono; ostacolato e contrariato, abbandonò sdegnosamente l’incarico che passò al gen. francese Montigny, il quale istituì numerose commissioni militari, e in tal modo, per dirla col Colletta, << molte morti, molte pene, lacrime ed afflizioni, furono il fine di quel fanciullesco rivolgimento >>.

Ma se il moto era sedato, e così duramente, non per questo la Carboneria poteva dirsi sradicata dal regno; proprio allora anzi, era stata propagata nelle Marche e nelle Romagne da quello stesso esercito napoletano che aveva traversato tali regioni movendo contro l’esercito del viceré Eugenio! Nei mesi successivi re Gioacchino parve mutar politica e voler carezzare i Carbonari, ma restava insoluta la questione della costituzione, e i Carbonari si mantennero all’opposizione. Né pare che gli concedessero il loro schietto appoggio neppure durante la campagna per l’indipendenza d’Italia del marzo-aprile 1815, ché anzi, dopo la rotta di Tolentino, essi agirono come un elemento dissolvente, contribuendo allo sfasciamento dell’esercito e specialmente della terza divisione, composta di abruzzesi, al comando del generale Giuseppe Lecchi.

I Borboni si trovarono sulle prime, di fronte ai Carbonari, in una situazione delicata. La Carboneria, in quanto ostile ai Francesi e a Gioacchino, era stata, direttamente o indirettamente, loro alleata, pure che, almeno in parte, non fosse addirittura una loro creazione. Ma in essa, già l’abbiamo veduto, si riunivano, legati solo dalla comune avversione ai Francesi, elementi molto disparati; e il governo non avrebbe potuto trattarli ugualmente, né d’altra parte gli sarebbe stato facile distinguerli; senza dire che tutto un mondo semi-sotterraneo di sette e contro sette sembrava si stesse formando e dilatando, in cui accanto a elementi soprattutto della piccola borghesia, s’infiltravano o si organizzavano per proprio conto elementi davvero criminali, derivazioni o ramificazioni della vecchia camorra, d’origine spagnola o risalente, per lo meno, all’età del dominio spagnolo nel Napoletano. Di fronte a questo pericolo, fra oppositori e amici di pessima lega, il governo prese l’unico partito logico, coerente e dignitoso: proibì tutte le società segrete nel regno. Ma non ebbe la forza, l’energia, o la volontà di far osservare queste disposizioni, e poco dopo, nel gennaio del 1816 divenne ministro di polizia il noto e famigerato Antonio Capece Minutolo principe di Canosa, il quale credette necessario combattere la Carboneria, sempre più decisamente liberale, colle altre sette reazionarie, che egli in certo modo unificò nella setta tristemente famosa dei Calderari. Ma neppure questo sistema avrebbe arrestato la Carboneria nei suoi progressi; essa tendeva realmente a coinvolgere nelle proprie “vendite” tutti gli elementi liberali d’Italia. Essa infatti s’era andata sviluppando nello Stato Pontificio e mirava ad estendersi sempre più verso nord, dove i Raggi, che ora troviamo col nome di Centri, avevano preparato il terreno. Non si può asserire che siano opera di un vero e proprio centro settario le due cospirazioni dell’autunno 1814, contro l’Austria, ma certo i cospiratori erano quasi tutti affiliati a società segrete.

Già il moto milanese del 20 aprile 1814, in cui trovò misera morte il ministro delle finanze Prina, era stato opera degli Antieugeniani e degli Italici, nella terribilmente ingenua allusione che l’Austria si sarebbe contentata di vedere eliminato un fido alleato di Napoleone, e avrebbe alla fine dato il suo consenso a chi portava il Murat, passato alla coalizione a agl’Italici Puri, contrari a qualsiasi principe straniero. (Il che non esclude che nel moto si fossero intrusi degli austriacanti veri e propri). Il 20 aprile ci fu la sollevazione antifrancese, il 21 aprile si costituì una Reggenza di governo che adottò la coccarda tricolore bianca, rossa e verde; il 22 si radunarono i Collegi Elettorali dei dipartimenti dell’antico Sato di Milano, i quali confermarono e accrebbero di numero la Reggenza provvisoria di governo e nominarono una Commissione di nove membri che si recasse a Parigi a trattare presso le grandi Potenze. Ma già il giorno successivo, 23, il viceré rispondeva alla sollevazione scatenatasi contro di lui, stipulando la convenzione di Schiarino-Rizzino con gli Austriaci! In base ad essa l’Austria prendeva possesso di tutto il regno italico in nome delle Potenze alleate. Il 24, mentre la Commissione milanese partiva per Parigi, presso il generale Pino, comandante della guardia nazionale in Milano, convenivano i tre generali italici Teodoro Lechi, Palombini e Paolucci, provenienti da Mantova. Essi volevano impedire la cessione della fortezza agli Austriaci, e desideravano che egli corresse a porsi a capo delle truppe italiane in Mantova. Ma a quanto sembra, il gen. Pino rispose che ciò non occorreva, perché la deputazione era ormai in viaggio per Parigi, e agli Alleati, nell’interesse dell’equilibrio europeo, l’indipendenza d’Italia doveva stare a cuore quanto e più a loro stessi. Così che il proposito di resistenza militare fallì, e il giorno 28 aprile lord Bentick, gran promettitore, per l’addietro, di libertà e d’indipendenza agli Italiani, dichiarava all’avvocato milanese Lattuada, corso presso di lui a perorare la causa, che i Milanesi avevan fatto la rivoluzione non per l’indipendenza, ma per gli Austriaci! Ma se la rivoluzione di Milano del 20 aprile era stata arrestata e tradita nelle sue migliori aspettazioni dalla sopraggiunta occupazione austriaca, e il proposito di resistenza militare, capeggiato da Teodoro Lechi, era svanito per la mancata adesione del gen. Pino, pure il fuoco covava sotto le ceneri. E quasi anello di congiunzione fra i patrioti militari e quelli civili, nella congiura militare dell’autunno dello stesso anno, ci appare lo stesso avvocato Lattuada, che già aveva ottenuto i tre gradi massonici e aveva lavorato alla preparazione del moto del 20 aprile servendosi del segreto massonico. Un massone dissidente anch’egli, dunque, antifrancese e strenuo assertore del principio che gl’Italiani dovessero << unirsi per sempre e formare una sola nazione indipendente >>; ed egli stesso era affiliato << nella parte filosofica >> ai Centri, né gli erano ignoti i Carbonari, già diffusissimi, a suo dire nelle Romagne e nei ducati e forse con qualche affiliato pure in Milano. Alla fine di settembre dunque, vari ufficiali dell’esercito italico si accordarono per sommuovere i reggimenti prima che il governo austriaco li disciogliesse; anche le truppe di Bologna e dei ducati, col gen. Zucchi e il principe Ercolani di Bologna, dovevano concorrere all’impresa, aiutati da una sollevazione popolare che sarebbe scoppiata per opera di un forte gruppo di patrizi e commercianti milanesi e di molti malcontenti, fra cui specialmente numerosi gi ufficiali di recente giubilati. A capo del movimento dovevano esse i generali Fontanelli, Pino, Bonfanti, Palombini, Santandrea, Balabbio, Belotti, nonché Teodoro Lechi, già comandante della Guardia. Si doveva tentare un colpo di mano su Peschiera, poi muovere in tutta fretta sopra Milano, mentre la cavalleria di Crema avrebbe dovuto sorprendere il parco d’artiglieria a Cernusco (a 15 chilometri da Milano), e quivi essere ingrossata dalla cavalleria di Brescia e di Bergamo. Infine, si doveva marciare sulla capitale colle forze militari riunite; a all’appressarsi delle truppe italiane, i Milanesi sarebbero insorti. Si sperava poi nell’aiuto di Gioacchino Murat, sempre incerto e oscillante di fronte agli alleati. I piani e i conciliaboli fra i congiurati civili e militari si protrassero per tutto l’ottobre. Le difficoltà pratiche apparivano pur sempre grandissime! E allora i patrioti pensarono di trarre a sé anche il vicino Piemonte, ad aiutare l’impresa. Alla metà di novembre il generale piemontese Gifflenga, venuto a Milano a parlare coi congiurati, si trovò coi generali Lechi e Bellotti e coll’avvocato Lattuada. Al Gifflenga però il progetto parve poco meno che pazzesco, salvo il caso in cui si fosse potuto contare veramente sul soccorso del re di Sardegna. E la stessa conclusione il generale piemontese ripeté poi in altra adunanza col Lechi, col Bellotti e col gen. De Meester. E intanto passava in progetti e discussioni un tempo prezioso; i reggimenti italici venivano sciolti e trasformati in reparti austriaci. Il complotto era orma svanito … Ma qualche cosa, sia in modo molto vago, trapelava, ormai alla polizia. Il Commissario austriaco a Parigi, conte di Bombelles, d’accordo col Metternich, mandava a Milano un signor Esquiron de Saint Agnan, perché si mettesse a disposizione del Maresciallo Bellegarde. L’agente provocatore trovò subito una vecchia conoscenza, il compatriota signor Marchal, e questi lo presento al prof. Rasori. Già la polizia gli aveva indicato costui e il Lattuada come noti patrioti. Conoscere Rasori, cattivarsene la benevolenza e la confidenza, fu per lo spione francese un’impresa non difficile. Egli fece pertanto credere d’essere un segreto emissario del re Luigi XVIII di Francia, d’un re disposto nientemeno che a mandare un esercito in Lombardia al solo scopo di cacciare l’Austria dall’Italia e di eliminare la preponderanza austriaca dalla penisola! Ma il 26 novembre, quando ormai da due giorni i reparti italiani incorporati nell’esercito austriaco sono in marcia verso le province austriache, e il piano primitivo delle cospirazione è già sfumato, guardie e sbirri si avvicinano alla casa del medico Rasori, ove si son dati convegno il capo di battaglione Gasparinetti, e l’avvocato Lattuada, il Marchal e il S. Agnan. Il Marchal avverte i compagni del pericolo, la spia afferra le carte compromettenti, come per salvarle, e sparisce. Nella notte sul 4 dicembre la polizia arrestava nelle loro abitazioni i patrioti dell’adunanza del 26 novembre. Ma se il Rasori nei diversi interrogatori seppe tenersi nei limiti della seconda congiura montata dall’agente provocatore francese, il Gasparinetti invece si sentì venir meno la forza di resistere, e scivolò sulla via delle confessioni, riallacciandosi alla precedente congiura, assai più importante, anche se poi sfumata. E seguirono allora altri arresti, fra cui quello di Teodoro Lechi. E così anche in Lombardia aveva inizio il nuovo martirologio!

Non erano queste prime cospirazioni emananti dall’occulta direzione di una setta, ma quasi tutti i cospiratori appartenevano a sette, usavano il segreto settario; provenivano dai Raggi, dai Centri o dalla Massoneria, alcuni forse eran già Carbonari o si sarebbero presto fusi nella maggior setta o avrebbero cercato di prenderne la direzione. In Milano appariva esservi già la Carboneria; ne erano gli esponenti principali il senatore Bologna, il cavalier Custodi e il signor Smancini, questi due ultimi già consiglieri di Stato. Tre rappresentanti, insomma, del ceto dirigente da poco spodestato dalla Restaurazione. Non v’ha dubbio però che nel Lombardo-Veneto la diffusione della Carboneria fu assai limitata (nel Veneto più che mai, all’infuori del Polesine, zona di confine collo Stato Pontificio); maggior diffusione ebbe in Piemonte (e dal Piemonte specialmente ebbe tendenza a diffondersi nella vicina Lombardia); ma restò tuttavia una specie di aristocrazia poco numerosa. La terra ove invece essa vegetò, oltre che il regno delle due Sicilie, fu lo Stato Pontificio, e specialmente la parte già del Regno Italico, Marche e Legazioni. Anche qui però, come nel Napoletano, noi troviamo sette e controsette, e nomi diversi, che stanno a indicare sia i gradi superiori, sia la necessità di cambiare nomi, gergo, cifrario, per sfuggire alle indagini della polizia e ai nugoli di spie. Nel ’16 la Carboneria sembra riassumersi nella società dei Guelfi. È ancora oggi incerto se essi derivano dalla Carboneria vera e propria, dalla Massoneria (al solito, come elemento dissidente), dai Raggi, dai Centri, oppure dalla Massoneria inglese per il tramite di lord Bentick, o da tutti questi elementi presi insieme. Ciò parrebbe tanto più probabile, in quanto che la Guelfia sembra alla fine del 1818 voler riunire e disciplinare l’attività delle varie sette. Secondo altre notizie, che la nota spia toscana Giuseppe Valtancoli dava nel febbraio 1818 al proprio governo, dopo un viaggio d’esplorazione nelle Romagne, Marche e Umbria, i Carbonari formavano la maggiore società segreta dello Stato Pontificio, ed eran noti i primi tre gradi di Apprendente, Maestro, e Maestro Perfetto. Ma al di sopra v’era un quarto grado, rappresentato dai Guelfi o Visibili Guelfi, e dato dalla riunione di Carbonari del terzo grado e di Guelfi veri e propri; e poi si aveva pure un quinto grado, formato dagli Invisibili Adelfi. Ora anche gli Adelfi o Sublimi Maestri Perfetti, erano, a quanto oggi appare, una trasformazione della Massoneria. La Carboneria avrebbe reclutato a quell’epoca da tre a quattromila adepti, i Guelfi circa seicento, e gli Adelfi venticinque in tutto. Quindici mesi dopo, però, sempre secondo le notizie del Valtancoli, i Carbonari, nello Stato Pontificio, ad onta delle persecuzioni poliziesche, si erano più che triplicati. Altro tentativo dei Carbonari fu fatto nel febbraio 1818 per riunire tutte le società segrete in una Società Latina.

In Piemonte si vennero diffondendo soprattutto gli Adelfi. Ma qui gli Adelfi appaiono divisi in quattro gradi: la suddivisione che nello Stato Pontificio noi riscontriamo tra i Carbonari, divisi in cinque gradi, qui la troviamo fra gli Adelfi stessi.

In complesso, fuorché nell’Italia Meridionale, la diffusione delle sette, quanto a numero d’adepti, non fu grande, e non bisogna esagerarne l’importanza. Questo d’altra parte segna un maggior titolo di gloria per i pochi animosi che sfidando galere ed esili mantenevano vivo sotto le ceneri il sacro fuoco della Patria e della libertà. Le società segrete reclutavano soprattutto funzionari e impiegati messi in disparte o comunque maltrattati; e poi commercianti, medici, possidenti, qualche nobile e qualche sacerdote liberale (si ricordi che la Carboneria, al posto del grande architetto dell’universo, aveva posto il Gran Maestro dell’universo, Gesù Cristo); solo eccezionalmente, fuori del Mezzogiorno, esse assorbirono elementi dei ceti inferiori. Quanto al programma, malgrado gli accenni alfieriani di odio ai tiranni che di tanto in tanto troviamo presso i Carbonari, non pare che avessero nulla di estremista. In realtà dopo il 1815 ai patrioti italiani si presentavano queste possibilità e questi programmi:

•                    Monarchia federale

•                    Monarchia unitaria

•                    Repubblica federale

•                    Repubblica unitaria

 

Ma quello che soprattutto stava a cuore ai patriotti era il regime costituzionale rappresentativo, il controllo dell’opera governativa nel campo finanziario, amministrativo, politico, la giustizia nella distribuzione delle cariche e degli impieghi, la libertà di stampa, di discussione, di associazione, l’uguaglianza di pesi e misure, la soppressione dei vincoli commerciali, delle barriere doganali. V’era dunque un programma minimo comune, imperniato sulle libertà costituzionali, di cui s’era sentita la mancanza già sotto il regime napoleonico, ma che ora, almeno presso una minoranza intelligente e coraggiosa, diveniva bisogno ardente, quasi necessità di vita. Le menti colte, gli spiriti critici, gli animi generosi, ma si adattavano ad unire il loro osanna ai molti incensamenti che i governi instancabilmente tributavano a se stessi, e condannati a ostentare un entusiasmo che non sentivano e una letizia che non provavano, acuivano nel segreto convegno della setta l’odio per i governi tirannici, e la critica spietata finiva per naturale reazione coll’investire qualsiasi azione del governo, buona e cattiva. Ma, ciò nonostante, a quante transazioni non si sarebbero essi adattati pur di conseguire il programma minimo! All’infuori di pochi intransigenti, i più dei settari avrebbe concesso il loro appoggio a qualunque principe che si fosse messo sulla via delle loro aspirazioni! E i più non andavano oltre una federazione di principi, un federativismo monarchico costituzionale, anche con base ristretta, censitaria. A quanto pare, però, v’era un programma minimo per i gradi inferiori, e un programma massimo noto soltanto ai gradi superiori. Così nello Stato Pontificio, sempre secondo le informazioni del Valtancoli, il programma dei prime tra gradi carbonari sarebbe stato: governo costituzionale e federazione fra gli Stati della Penisola; ma quando questo programma fosse divenuto realtà, allora i capi si sarebber proposti d’attuare la seconda parte del programma, ossia il programma massimo: monarchia costituzionale unitaria. Ma esso restava segreto ai più. Il programma della Società Latina già ricordata era monarchico costituzionale federale, con lega doganale, unità di pesi e misure, e un Consiglio Supremo per le questioni d’interesse generale. E i progetti di confederazione italiana da parte delle società segrete sono tutt’latro che infrequenti. Del resto nelle Romagne l’espansione contro il governo dei preti era tale, che i settari di queste province non solo bramarono a più riprese d’essere annessi alla Toscana, ma si sarebbero pure adattati ad esse aggregati al Veneto sotto il regime austriaco! <<Meglio i Turchi che i preti!>> era una frase corrente, e che solo denota l’esasperazione di quella generosa popolazione. Che poi fra i programmi massimi ci fosse anche quello della repubblica democratica unitaria, precorritore della grande aspirazione mazziniana, non si può escludere, ma certo esso non era il programma solito dei Carbonari.

Il vincolo del giuramento legava gli affiliati alla setta; un cerimoniale cupo e pauroso faceva entrare in essa. All’iniziato si bendavano gli occhi; poi era condotto avanti e indietro per varie stanze; si fermava, e una voce si alzava: <<Questo è un cieco che ama la luce >>. Allora una voce faceva eco: <<La potrà vedere: che cosa brama da noi? >>. E il neofita doveva dire: <<L’indipendenza d’Italia>>. Una nuova voce gli domandava a questo punto se ben sapeva in quale istituto voleva entrare. Ed egli doveva rispondere di si. Seguivano domande sulla religione dell’iniziando e dichiarazioni di fede: la setta non è avversa né al trono né alla religione; vuol solo modificare i diritti del primo e rimuovere i pregiudizi e i fanatismo della seconda. E via un discorso sui diritti dell’uomo. Poi il nuovo adepto doveva ripetere solennemente la formula del giuramento, e infine s’innalzava una voce grave e solenne: <<Insomma, che cosa brama?>>. E una voce quasi di ventriloquo: <<La luce>>. Ed ecco il nuovo Apprendista sbendato, e sopra la sua testa quattro stiletti branditi da quattro uomini in cappa nera, con una specie di cappuccio… E ora la firma d’un foglio, contenete la formula del giuramento. E poi la spiegazione delle parole segrete <<forza, coraggio, salute, costanza>>, poscia il segno di riconoscimento fra Cugini, una particolare stretta di mano applicando l’indice al polso e formando un semicerchio, quindi battendo nel centro un colpo staccato e due colpi uniti.  E ancora spiegazione degli emblemi, notizie su S. Teobaldo, il protettore della setta: e infine il bacio d’amicizia. Mezz’ora di funzione in tutto. Ed ecco un saggio del terribile giuramento: << A gloria del Grande Maestro dell’Universo. Io sottoscritto giuro sugli Statuti dell’Ordine, e su questo ferro punitore degli spergiuri, di custodire e conservare i segreti della Venerabile Carboneria e di aiutare i miei Buoni Cugini Carbonari per quanto lo permettano le mie forze e di non attentare al loro onore né a quello delle loro famiglie. Se divento spergiuro, son contento che il mio corpo sia fatto a pezzi, indi abbruciato, e le ceneri sparse al vento, onde il mio nome sia in esacrazione a tutti i Buoni Cugini Carbonari sparsi sulla superficie della terra: così Iddio mi sia in aiuto>>. E ora un saggio degli emblemi: un fornello acceso con fuoco al centro, e fumo; sopra il fornello, S. Teobaldo che riceve questo fumo o incenso, ed accanto a S. Teobaldo la croce, che denota la pazienza, una corona di spine accanto alla croce, che denota la prudenza; più a basso una fascina legata insieme che significa l’unione; dall’altra parte del fornello una pala ed una vanga, indicanti l’obbligo che hanno i Carbonari di spargere sulla terra le loro massime, ossia di fare dei proseliti; una capanna che dimostra il luogo dove si riuniscono i Carbonari per esser sicuri da una sorpresa, essendo essa una capanna fuori di città. E poi ancora: un gomitolo di refe, che significa la catena, che deve unire insieme i Carbonari; una foresta, che circonda tutto il quadro; e nelle testate in alto, il sole e la luna: la foresta si addice ai Carbonari, e i due luminari sono gli astri, che illuminano i lavori dei Carbonari. Ed ecco ora un saggio del giuramento dei Guelfi: << Giuro al Dio degli eserciti, a te, Sommo Terribile, di conservare nel più profondo del mio cuore l’arcano che mi hai rivelato. Giuro di spargere tutto il mio sangue per la costituzione e indipendenza d’Italia. Giuro di sterminare i nemici, ed in caso di mia iniqua mancanza voglio che il mio corpo sia dato alle fiamme, e le mie ceneri al vento. Costituzione, indipendenza, morte >>. Questo simbolismo, il segreto, l’arcano, corrispondevano in parte al momento romantico che la società attraversava, in parte a una moda non nuova, ma che persisteva in modo incredibile; da molti, soprattutto nei gradi inferiori, era considerata una necessità per mantenere il prestigio della setta e tener legati i gregari. Non si può dire però che tutti ne fossero egualmente compresi, e che da taluni non si deplorasse quest’imitazione delle forme della vecchi massoneria. In talune baracche l’iniziazione avveniva in questo modo: il Reggente e due Assistenti assumevano il nome rispettivamente di Erode, Caifa e Pilato. L’iniziato veniva condotto dall’uno all’altro, coronato di spine, gli si dava a portare la croce, si fingeva morto, poi risuscitava. Realmente la cerimonia cadeva nell’empio e nel grottesco…

Uno dei sistemi di diffusione poi, e abituale sempre a tutte le società segrete, era quello di ingrandire il numero degli adepti e l’autorità delle persone che vi appartenevano. Le spie per loro conto, esageravano pure per crearsi dei meriti con scoperte a sensazione; spesso incitavano dei disgraziati ad entrare nella setta, per farsi subito dopo un merito a denunciarli!…  Ma in complesso le Polizie e i Governi erano ben informati dello stato delle cose; spesso si comunicavano a vicenda le notizie importanti. E molte volte esageravano essi stessi l’importanza delle trame, per poter ricordare a gran voce all’Europa benpensante e a tutte le persone amanti dell’ordine e della tranquillità, il pericolo continuo che tutti minacciava, e rivendicare la triste necessità di misure severe, di provvedimenti energici, l’obbligo di non allentare i freni. E anche si agitava lo spauracchio d’una specie d’Internazionale settaria e massonica. La Massoneria francese e inglese guardavano con simpatia la serie delle figliazioni massoniche, anche se si trattava in origine di massoni dissidenti. Tanto più che la comune lotta contro l’assolutismo sembrava affratellare nuovamente tutte le società segrete a fondo liberale. Associazioni d’origine straniera trovavano pure qualche aderente in Italia, come la Spilla Nera, sorta in Francia nel 1816, col programma d’istituire una reggenza che governasse in nome del giovanissimo figlio di Napoleone I; essa si fece forte sulle prime, da noi, della simpatia che per essa avrebbe dovuto nutrire la madre del Re di Roma, la duchessa di Parma e Piacenza. Ma fu breve illusione; che la principessa austriaca, come già s’è visto, s’acconciò di buon grado a rinunziare a ogni diritto del figlio non solo sulla corona di Francia, ma anche sul piccolo ducato di Parma e Piacenza. Così pure non mancavano, specialmente in Piemonte, i Patrioti Europei e gli Amici Filantropi , diramazione, quanto sembra, della Suprema Massoneria Francese, ricostituitasi nel 1817, non senza il consenso del Governo Borbonico. Era un altro modo con quale la Francia, simpatizzando palesemente o nascostamente coi liberali nostri, cercava di mantenere quell’influenza che la sconfitta le aveva tolto. E ora qualche accenno alle società sanfedistiche e reazionarie. Esse, al solito, erano diffuse specialmente nell’Italia Meridionale e nello Stato Pontificio. In quest’ultimo troviamo anzi una setta caratteristica, quella dei Concistoriali. Essa venne fondata, a quanto sembra, sulla fine del 1815, e pare che il cardinal Consalvi la proteggesse, sperando in seguito di attrarvi i Guelfi, rendendoli così addomesticati. L’idea di rabbonire le sette e farne uno strumento di governo, come già aveva fatto quel grande addomesticatore di vecchi rivoluzionari e di antichi mangiapreti che era stato Napoleone, sembra esser balenata più d’una volta agli uomini di governo!… I Concistoriali parevano proporsi di cacciare dall’Italia gli Austriaci e le loro propaggini; in tal modo però la Toscana, libera dai Lorenesi, avrebbe dovuto esser data al Papa. Era l’antico sogno dei Pontefici, dai tempi delle lotte per l’eredità dei beni matildini, all’intromissione di Bonifacio VIII nelle lotte di Toscana, alle mire dei Borgia sulla nella contrada!… E così anche il papa rispondeva alle pretese e alle minacce austriache sulle Romagne dando il suo tacito consenso a un movimento nettamente antiaustriaco. Anche il duca di Modena avrebbe dovuto, naturalmente, esser messo al bando, ma egli furbescamente mostrò d’aderire alla setta; e allorché il Metternich nel 1818 invitò il duca a Vienna, questi, vistosi scoperto, non esitò a dichiarare i motivi della sua adesione: entrare nella setta per sorvegliarla, scrutare in essa l’azione del Governo Pontificio, e poi svelare tutto, al momento opportuno, all’imperiale e regio Governo! La società era divisa in Parrocchie, Chiese, Cappelle, ossia provincie, città, centri minori. Il capo assumeva il titolo di Vescovo, i soci quello di Chierici, e i gradi eran presi dalla gerarchia ecclesiastica. Venuta meno la società del Concistoro, il Cardinal Rivarola, genovese, fiero reazionario, sia per placare l’Austria, sia per porre termine a quella finzione che era stato il programma nazionale e antiaustriaco dei Concistoriali, finzione per giunta molto pericolosa, diede impulso alla nuova setta dei Sanfedisti, sotto l’alto patronato dei gesuiti. Nel 1818, e ai suoi inzia, essa in Romagna e nelle Marche comprendeva un certo numero di vecchi prelati e di loro clienti, specialmente a Bologna e ad Ancona. Ma si diffuse assai a Perugia, e più ancora a Roma, ove si può dire non fosse fronteggiata e ostacolata da sette liberali. E il governo cercava di diffonderla nel resto d’Italia, appoggiandosi alle Corti di Modena e di Torino. Ma non vi riuscì, e i Sanfedisti valsero soprattutto a insanguinare le Romagne, dove, al dire di un rapporto del capo della polizia toscana, le fazioni si scatenavano << colle maniere dei tempi del Duca Valentino >>. Forti della sicurezza o quasi dell’impunità, i Sanfedisti agivano come dei veri “bravi”, compiendo prepotenze e violenze; e spesso la vendetta privata si coloriva dell’aspetto lotta di parte. Non erano poi infrequenti le reazioni dei colpiti, reazioni individuali, in gran parte di apprendisti Carbonari, spesso di bassa o di modesta condizione, svolte all’insaputa dei capi, ma che servivano ai Prelati di pretesto per diffamare sempre di più la setta nemica e mostrare la necessità delle forti repressioni. Ma in realtà il governo pontificio oscillò sempre fra gli intrighi, le ostentazioni di forza e le ostentazioni di mitezza o addirittura di debolezza.

Nel Napoletano una setta reazionari ben nota fu quella dei Calderari, sorta dietro impulso del famoso ministro di polizia Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa. Questa strana figura di reazionario è stata meglio studiata in questi ultimi tempi. Discendente d’una nobilissima famiglia, educato attraverso una cultura letteraria e scolastica quale usava nelle scuole frequentate dai rampolli dell’aristocrazia e tenute da ecclesiastici, regolari o secolari, fu e rimase il vero tipo del nobile vecchio stile, pieno di pregiudizi e del sussiego della sua casta, contrario perciò non solo a ogni idea liberale, ma anche allo stesso dispotismo illuminato del settecento, che tendeva a sopprimere i privilegi dei nobili e ad eguagliare tutti davanti allo Stato. Egli s’era troppo imbevuto di studi teologici e morali, di letterature classiche, viste soprattutto attraverso l’aspetto filologico, e con aggiunta di letteratura patristica; e le opere di politica, di economia, di storia del suo tempo o non le conobbe abbastanza o non le assimilò. Egli non voleva non voleva né il “dispotismo” monarchico, né “l’audacia popolare”: il suo ideale sarebbe stato un baronaggio disciplinato e che non abusasse delle sue autonomie, un clero ugualmente ricco e autorevole, ma anch’esso disciplinato, amico e sostegno del trono, e una monarchia che si reggesse coll’equilibrio dei due “corpi”. Non escludeva teoricamente la democrazia, ma la considerava inapplicabile, anzi rovinosa nella pratica, come quella che presupponeva negli uomini una virtù e un’abnegazione che non erano purtroppo di questo mondo. In un paese dove lo spionaggio era un abito sistematico, ed endemico il furto e il delitto, dove si spergiurava per cinque soldi, era possibile, diceva egli, un regime che presupponeva << l’amore metafisico di patria, e la negazione del proprio utile in confronto del bene pubblico, la solidità del giudice scevro di passione >> ? Con un popolo così arretrato e corrotto era prima necessario un regime assoluto che valesse a educarlo! Insomma per lui il sistema democratico fondava la libertà astratta e anarchica. Tutto quanto accadde dalla rivoluzione francese in poi sembrò al Canosa che confermasse la verità delle sue convinzioni. Era stato un po’ il Don Chisciotte del legittimismo contro i Francesi di Giuseppe Bonaparte e di Murat, ora pretese applicare le sue idee di restaurazione integrale, almeno per quanto glielo consentivano le sue mansioni di ministro di polizia. Sappiamo invece che il Medici era più propensi a continuare sulla via dell’assolutismo napoleonico; e che un completo ritorno all’antico gli pareva un’assurdità. Di qui il profondo dissenso del vecchio patrizio, rappresentante d’una concezione tramontata per sempre, non solo verso il Medici, ma pure verso quasi tutti i colleghi di gabinetto. E infatti non solo egli aveva un programma d’intrasigenza assoluta, ma pretendeva applicarlo e imporlo con mezzi che urtavano la coscienza dei più. Infatti, mentre l’alto clero reazionario e curialista sperava di ristabilire gli antichi privilegi e riplasmare la società secondo le vecchie idee soprattutto servendosi della persuasione ottenuta mediante una vasta propaganda culturale e per mezzo delle scuole e dei buoni libri, il Canosa voleva tornare indietro almeno di un secolo coll’aiuto della polizia e di qualunque altro sistema fosse servito a raggiungere l’intento. Egli avrebbe cominciato a escludere dagli uffici statali non solo gli avversari di ieri, ma anche i tiepidi e gl’indifferenti, fosser pure valentissimi e capacissimi! << Al mondo non sono necessari >> egli scriveva, << i dottori e i lettori, ma ci vogliono i calzolai, i sartori, i fabbri, gli agricoltori, gli artieri di tutte le sorta, e ci vuole una gran massa di gente buona e tranquilla, la quale si contenti di vivere sulla fede altrui, e lasci che il mondo sia guidato coi lumi propri >>. Già egli rivelava: << Una causa principale dello sconquassamento del monto è la troppa diffusione delle lettere e quel pizzicore di letteratura che è entrato anche nelle ossa de’ pescivendoli e degli stallieri >>. Col ministro Canosa si ebbe dunque per circa cinque mesi (egli fu ministro di polizia dal 20 gennaio al 24 giugno 1816) un parziale esperimento di governo prettamente reazionario; esperimento tanto più pericoloso, in quanto eseguito in un paese ancora molto arretrato, malgrado gl’innegabili progressi della seconda metà del secolo XVIII e del decennio francese, in cui l’educazione popolare era scarsa e non scomparse affatto certe tristi abitudini, frutto di miseria e di lunghi secoli di servaggio. Lo strumento principale del Canosa fu dunque la setta dei Calderari, o Calderari del contrappeso, perché la loro attività faceva appunto da contrappeso a quella dei Carbonari. Loro simbolo, la caldaia sotto cui brucia e si consuma il carbone, il che voleva dire che davanti ai Calderari, la setta dei Carbonari avrebbe finito collo sparire. La setta aveva anche il titoli di “Riforma della Carboneria” e comprendeva tre gradi: Amico Cavaliere, Principe e Gran Principe.

Al momento della recezione al neofita era praticato un piccolo salasso nella parte inferiore della mano sinistra, al principio del polso. Il giuramento poi veniva prestato davanti a un crocifisso, brandendo un pugnale. Nel diploma era una donna colla fiaccola accesa, rappresentante la perfetta amicizia, un’altra abbracciante un albero, la vita, e poscia un bello scheletro, la morte. V’era poi tutto un gergo tra gli affiliati, e una serie di segni particolari di riconoscimento. Per esempio, carezzarsi colla mano destra la barba, portando poi le dita tra il naso e la bocca. A ciò doveva corrispondere da parte della persona cui era stato rivolto il segno, il dito indice della destra portato dietro all’orecchio. Altro segno: mettere il dito pollice e il medio uniti sotto le narici e  il dito indice alzato sopra il naso. Oppure: nel dar la mano, battere quattro colpi col dito indice sopra il dorso della mano dell’amico, e propriamente tra il pollice e l’indice. Segno d’unione: mostrare i due diti medi l’un coll’altro uncinati. Segno di saluto: incrociare ambe le mani sul petto, poi rimetterle a basso il ventre. E pure un segno di riconoscimento era questo: l’uno dava due bussate col piede destro sulla punta del piede sinistro dell’altro, poi lo riportava indietro, elevando il tallone di due dita, oppure si sfregava la mano destra sulla mascella destra, strisciandola anche sull’occhio; oppure: si prendeva il bastone colla mano sinistra, lo si metteva sotto il braccio destro perpendicolarmente, e poi di nuovo a terra, battendo due colpi. E ancora altri segni di riconoscimento: portare la mano destra alla bocca e mettere l’indice a sinistra del naso; prender tabacco col pollice e medio e intanto tenere l’indice a sinistra del naso; nel bere, quando il bicchiere è alla bocca, mettere l’indice sopra il naso, e posare poi il bicchiere battendo due colpi con questo.

Il Calderai divennero una vera estesissima associazione a delinquere, protetta, si disse, anche dal Principe di Moliterno, già uomo di fiducia della regina Carolina, e dallo stesso duca di Calabria. Ma si levò un tale clamore contro questa setta, che gli ambasciatori di Russia e d’Austria intervennero ben presto, e ottennero che il Canosa fosse tosto esonerato dalla carica. E non molto dopo apparve il decreto dell’8 agosto 1816, che richiamava in vigore il decreto murattiano del 4 aprile 1814 contro le sette. Esso cominciava: << le associazioni segrete che costituiscono qualsivoglia specie di setta, qualunque sia loro dominazione, l’oggetto e il numero dei loro componenti, sono vietate nei nostri reali dominj e dichiarate manifesti attentati alle leggi i trasgressori al divieto contenuto nell’articolo precedente saranno puniti colla pena del bando dai nostri reali dominj, da cinque a venti anni. Contro i capi direttori ed amministratori della setta sarà applicato il maxinum di questa pena >>. Seguivano le pene per i favoreggiatori: multa da dieci a cinquecento ducati e bando da tre a dieci anni a chi avesse ospitato nella propria casa riunione settarie; cinque anni di prigione ai distributori di emblemi, carte, libri, distintivi della setta, e un anno della stessa pena a chi li conservasse in casa. E tutte le punizioni sopra esposte prescindevano dall’azione delittuosa contro la sicurezza delle persone e soprattutto dello Stato; esse riguardavo il semplice delitto d’appartenere alla società segreta. In questo modo tanto l’Austria che la Russia speravano di estirpare dal suolo napoletano la mala pianta delle sette. Ma il mezzogiorno è stato sempre il paese delle “gride” governative e della resistenza passiva. Alla metà di settembre, ad esempio, a Foggia risultavano tutt’ora iscritti e attivi sessantaquattro Calderari, fra cui due ufficiali, un farmacista, e il Direttore fiscale. Nel dicembre si vociferava in Capitanata di un imminente rivoluzione dei Calderari in tutto il regno. E in quell’epoca a Bovino si riunivano in casa di un brigante amnistiato, segretamente, il capo della setta, Francesco Nicola Guidarelli, già favoreggiatore di briganti, e i gregari: un macellaio, brigante amnistiato e ladro, due braccianti, idem come sopra, due altri, ladri notturni e spioni, un fabbricatore, ladro e spia di briganti, un calzolaio ladro e brigante amnistiato, un brigante amnistiato, due altri abili ladri, e altri ancora della stessa risma. Ce n’era davvero per popolare vari gironi dell’inferno! Degli ecclesiastici li favorivano desiderosi forse di rinnovare le gesta del 1799. Si fecero dalla polizia diverse retate di congiurati, molti si diedero a correre la campagna, riprendendo la vecchia nostalgica occupazione. Ma sebbene la setta apparisse pressoché stroncata, essa non disparve del tutto; ancora nel maggio del 1820, la polizia sequestrava la Capitanata un manifesto diretto da Napoli alla società dei Calderari o distruttori delle vecchie società in Capitanata, in cui si diceva fra l’altro: << è tempo ormai, che le ostilità comincino con i nostri nemici. Le circostanze le esigono, e noi non dobbiamo perderci di coraggio, quantunque le nostre braccia siano al di sotto del nostro numero. La protezione di cui godiamo ci deve empire di entusiasmo e coraggio. Lo scopo cui tendiamo è il più sacro dei doveri cristiani. Nulla importa l’esterminio dei rivoltosi repubblicano, quando essi tendono a spogliarci dei nostri beni, macchiar l’onor nostro, e privarci la vita fatto ciò che noi operiamo a pro’ della Croce e del trono, sarà tutto perdonato. Il togliere la vita dell’umanità, del trono e della Religione non è punto delitto >>. Questo proclama portava la data, Napoli, 9 maggio 1816; ed era firmato: Il Marchese N.N.  certo, tra la fine del 1816 e il principio del 1817 la setta, come organizzazione, scomparve;  ma restarono i Calderari, ben noti fra loro, specialmente nei piccoli centri, e ancora nel 1820 costituivano un elemento pericoloso, irrequieto, cupido di vendetta e di saccheggio. Il Canosa aveva ben seminato …

E qualche cosa ora sui Decisi. La società si disse fondata nel 1817 dall’abate Ciro Annichiarico di Grottaglie (Taranto); aveva nel programma il solito odio ai tiranni e l’amore e la protezione degli oppressi, un vago indistinto umanitarismo che lo poteva sulle prime far sembrare affine alla setta dei Carbonari o dei Filadelfi. Ma in pratica era una vera associazione a delinquere, con un organamento quasi militare, ostile a qualsiasi potere costituito. Il diploma di Deciso si ornava di due teschi agli angoli superiori del foglio e di due ossa di morto incrociate nei due angoli inferiori. Sopra i teschi e sotto le ossa incrociate eran le parole: Tristezza, Morte, Terrore, Lutto. E poi, presso l’angolo superiore destro, un medaglione con due scuri e i fasci, con la verga centrale sormontata dal berretto frigio. All’angolo destro inferiore, invece, uno scudo, al quale ne corrispondeva un altro, con un cumulo di nubi, da cui piovevan saette a fulminare una corona reale, una imperiale, e il triregno papale, coll’iscrizione “Segno del tuonante Giove”. Un foglio della Società appare poi intestati colle seguenti iniziali: “LDDTGIAFGCITDUG. TED,”che significavano: “La Decisione del tuonante Giove inspira a fare guerra contro i tiranni dell’umano gener. Terrore e decisione”. E tali iniziali e altre lettere eran scritte col sangue. Ed ecco il giuramento: << Io, N. N., giuro su gl’impenetrabili segreti della Società filantropiche di non rivelare a persona che a me non appartiene i miei segreti, come non confessare anche ai nostri chi mia ha data la luce, sottomettendomi, in casi si spergiuro ed acconsentimento, che il mio corpo, se tal il ciel non voglia, sia fatto in pezzi e la carne sia il cibo agli avvoltoi. Giuro inoltre su questo ferro, vindice di morti di D., di essere inesorabile nemico di tutti i F. D. che non sapranno mantenere i sagri segreti, e di fare aspra vendetta con il consenso di tutti i F. D. ed il loro capo >>.

Le sette andavano tralignando, accogliendo elementi sempre più scadenti; il governo si mostrava debole; la burocrazia spesso favoriva questi o quei settari. E si giungeva così a un vero e proprio malandrinaggio organizzato, sempre più audace per la continua impunità. Tipico esempio di debolezza fu quello mostrato verso la banda di Gaetano Vardarelli. Costui, di bassa condizione, aveva militato nelle bande del Cardinal Ruffo durante l’insurrezione del 1799; più tardi, soldato nell’esercito del Murat, si era fatto disertore ed era fuggito in Sicilia. Macchiatosi di delitti nella terra ospitale, fuggì di nuovo del Napoletano quivi si diede a fare il brigante. Inseguito e stretto da vicino, riparò in Sicilia di nuovo, e camuffando i suoi atti criminosi come onesta guerra ai Francesi, ottenne perdono; fu anzi ammesso nell’esercito siciliano, e raggiunse i grado di sergente. E così rientrò a Napoli nel 1815. Ma ora sentì ridestarsi impetuosa la nostalgia per la vita del brigante: lasciò ‘esercito, e si diede a percorrere la Capitanata e il Molise, imponendo taglie e recando gravi e continui danni ai proprietari e ai commercianti. Erano con lui due suoi fratelli e altri parenti, e la banda si ingrossò fino a raggiungere e sorpassare le quaranta persone e tutte a cavallo. Esercitava un ascendente formidabile sui suoi seguaci, e puniva la codardia colla morte! Feroce e inesorabile coi ricchi si mostrava generoso coi poveri, atteggiandosi a loro protettore contro le prepotenze dei signori e dei civili. E siccome batté più volte distaccamenti austriaci mandati contro di lui, entrò nelle simpatie dei Carbonari e da una vendita fu persino accolto nella Carboneria, sebbene la cosa fosse subito biasimata dalle superiori gerarchie, e il suo nome annerito, cioè cancellato dai ruoli. Comunque, la banda imperversava, rendendo sempre più pericoloso il varco di Bovino, sulla via da Foggia ad Ariano e Benevento. E il governo napoletano, desiderando che l’occupazione austriaca cessasse al più presto (vi erano ancora dodicimila soldati nel regno, e gravavano penosamente sul bilancio napoletano, mentre non spendevano quasi nulla nel paese che li ospitava e non contribuivano perciò in nessun modo alla sua prosperità), e volendo perciò mostrare che il paese era tranquillo, decise di venire a patti col terribile bandito. E il 6 luglio 1817 si giunse a un solenne accordo, in base al quale il Vardarelli e complici erano amministrati, non solo, ma tutta la banda di grassatori passava al servizio dello stato e diventava una squadra d’armigeri di polizia: il Vardarelli avrebbe avuto lo stipendio di Colonnello! I banditi giurarono fedeltà al Re nelle mani di un regio commissario, e mantenendo i patti, si diedero a ripulire dai malfattori le pianure della Capitanata. Ma peggio che se si fosse stati al tempo della più orrenda anarchia baronale, il Governo, biasimato per un simile accordo da pari a pari, con dei briganti, già pensava di non mantenere i patti. E il Generale Amato, che aveva l’incarico di purificare la Capitanata, fece un giorno preparare un agguato. Mentre i nuovi armigeri si riposavano nella piazza del villaggio di Ururi, dalle finestre circostanti partirono scariche d’armi da fuoco: i tre fratelli Vardarelli e sei dei più noti compagni caddero fulminati. Gli altri riuscirono a fuggire. Ma ora il governo finse di scandalizzarsi dell’accaduto; e mandò ad avvertire i 39 superstiti, che non temessero, ché sarebbe resa giustizia. Si finse infatti di imbastire un processo contro quanti avevan fatto fuoco dalle finestre. E allora 31 dei superstiti si decisero a venire a Foggia, dove d’innanzi al Generale Amato avrebbero dovuto procedere all’elezione dei loro nuovi capi. Il 27 aprile 1818 la banda entrava in Foggia al grido di Viva il Re e si schierava in una piazza. A un dato segnale le truppe regolari irrompevano intimando la resa; i briganti cercavano di fuggire sui loro cavalli, ma nove restavano sul terreno fulminai, due fuggivano, venti cercavano rifugio in una specie di cantina di un vecchio edificio poco lontano. Acceso un gran fuoco all’imboccatura, due banditi si uccisero l’un l’altro per non cadere prigionieri, un altro restò carbonizzato, i rimanenti diciassette si arresero. Pochi giorni dopo questi sciagurati erano messi a morte sotto l’accusa di aver violata la convenzione del 6 luglio e gli ultimi dieci fuggiaschi furono poi a poco a poco distrutti. Così era eliminata finalmente la terribile banda; ma il modo con cui il governo era giunto a ciò, valse solo a diminuire il suo prestigio; dice il Colletta che << ne venne al governo pubblico vitupero, che non si onesta il tradimento perché cada sui traditori >>. E Guglielmo Pepe, nelle sue Memorie, così si esprime: << Il generale Amato, che aveva fama di uomo onesto e che in quell’occasione fu reo di finzione e di viltà, di debolezza, ottenne grandi lodi dall governo; ed a me sovviene che al racconto fattomi di quelle indegnità, la prima idea che mi s’affacciò nell’animo fu di lacerare il mio uniforme e di gettarlo dalle finestre >>. Intanto, però, un mese dopo l’accordo famoso del 6 luglio, l’esercito austriaco aveva finalmente abbandonato il regno, occupato dopo l’infelice spedizione del Murat nell’Italia Settentrione. Il governo borbonico poteva illudersi di essere stato furbo, perché gli austriaci se n’erano andati e i Vardarelli distrutti; ma esso al solito continuava a non contare per nulla il valore dell’opinione pubblica e dei sentimenti morali della parte migliore dei sudditi; e le conseguenze di questo errato procedere si sarebbero fra non molto fatte palesi.

Come la provincia di Foggia così venne pure ripulita dai settari di infimo conio anche la provincia di Lecce. In quest’opera si distinse un irlandese al servizio borbonico, il generale Riccardo Church. Costui aveva combattuto in Egitto nell’esercito inglese, aveva partecipato brillantemente alla difesa di Capri nell’ottobre 1808 contro i frano-napoletani di Gioacchino Murat, e poi era passato nelle isole Ionje, sempre con l’esercito inglese. Divenuto amico personale di re Ferdinando, ne difese i diritti al congresso di Vienna, e fu poi nominato maresciallo di campo nell’esercito napoletano. Si adoperò per l’epurazione delle province, e lottò, sebbene con poca fortuna, contro la banda dei Vardarelli. Incaricato di ristabilire l’ordine, in provincia di Lecce, ottenne i pieni poteri l’11 febbraio 1818. Poco più di un mese prima egli aveva mandato al generale austriaco Nugent (messo dal Re a capo dell’esercito napoletano con evidente spregio degli ufficiali murattiani) un’interessante relazione sullo stato della provincia. In essa faceva velatamente intendere il male fatto dal Canosa coll’istituzione dei Calderari, sia per gli eccessi della setta in sé, sia soprattutto per il pessimo principio stabilito, che il governo parteggiasse e favorisse una società segreta contro un’altra, e desse esso stesso le armi alla chetichella a dei cittadini perché le adoperassero nascostamente contro gli altri cittadini. Da ciò l’esasperarsi delle lotta, alimentati in molti dalla convinzione della sicurezza dell’impunità. Le autorità si mostravano deboli, sia che parteggiassero per i settari reazionari, sia che comunque non fossero capaci di far rispettare le legge. La Carboneria e le sette che ne derivavano, quali quella dei Filadelfi, dei Patriotti, dei Liberi Europei (ricordiamo che le sette nella penisola salentina eran particolarmente numerose, e si allargavano a tutta la Puglia: Liberi Messapi, Liberi Dauni, Spartani della Peucezia, Pitagorici, Cavalieri di Tebe, Nuovi Cassi, Seguaci di Coclite, Proseliti di Catoni, Virginii rinati, Figli Focione, Figli di Bruto, Figli di Valerio, Figli di Scevola, Figli di Regolo, Figlia della Patria e via di seguito) quanto più si allargavano, tanto più finivano col reclutare elementi scadenti, e spesso gente che si affigliava per paura, per timore di peggio, ma senza convinzione e con ancor minore entusiasmo. E difornte a costoro un numero forse anche maggiore di persone di tutti i ceti, che si sbracciava a mostrarsi attaccatissima al governo, e minacciava continuamente gli avversari. Costoro mantenevano un stato d’orgasmo pericolosissimo. Egli dunque proponeva di agire colla massima energia contro tutte quante le sette e contro tutti quanti i perturbatori della pubblica quiete, di qualunque partito fossero, qualunque bandiera ostentassero. Occorreva badare alle azioni dei settari e non ai loro programmi! E senza dubbio la situazione era grave, e resa ancor più grave dalla crisi economica, dalla carestia terribile, durata più o meno opprimente per ben tre anni, e accompagnata anche da un serpeggiare di peste; si aggiunga il Tavoliere, che i francesi avevano frazionato e messo cultura granaria, in gran parte ridato alla pastorizia per scopi fiscali; la delusione in molti contadini che avevano sperato che il ritorno dei Borboni significasse ritorno alla prosperità, abbattimento dell’odiata borghesia agraria, rafforzatasi coi francesi; contadini che tra le imposte, le prepotenze dei padroni, i cattivi raccolti, la fame preferivano darsi alla vita del brigante, meno faticosa, più libera, anteponibile all’infame vita di ogni giorno. E perciò una delle più terribili recrudescenze di brigantaggio che la storia ricordasse, impersonata nei due famigerati nomi dell’Annichiarico e del Vardarelli.

Del secondo già si è visto; il primo, ex abate e accolto persino nella Carboneria, aveva continuato a considerarsi carbonaro dopo la sua espulsione, e si era alleato pure col degno collega. Il Church iniziò una guerra energica e senza quartiere: il gen. Amato provvedeva al Tavoliere e al Molise, il Church alla Terra di Bari e al Leccese. In pochi mesi la regione fu liberata dall’incubo di vari tristissimi capibanda, tutti più o meno celanti e coonestanti i loro continui misfatti dietro il vago umanitarismo della setta dei Decisi e dietro la lustra della protezione dei deboli e degli oppressi contro le prepotenze dei signorotti, nobili o borghesi che fossero, quali Occhio di lupo, il Capocelli, il Perrone, lo stesso Ciro Annichiarico. Il quale prima di finire giustiziato, confessò di aver commesso la bellezza di ben settanta omicidi; a centinaia salivano quelli commessi dalla terribile associazione! In pochi mesi, cessato sul serio l’appoggio governativo o anche solo l’illusione di una tacita acquiescenza dell’autorità, Puglia e Molise si trovarono purgati, almeno in gran parte, dalla terribile piaga, e il Church, chirurgo abile e pronto, poté nel settembre largire un’amnistia a quanti avevano fatto parte di associazioni criminali, ma senza commettere delitti, e solo per timore o dietro intimidazione. Secondo una barbara usanza antica, le teste dei delinquenti giustiziati restavano esposti sulle porte e torri dei paesi e delle città, a terrificante esempio. Nell’aprile 1819, allorché parve che il male fosse sostanzialmente estirpato, le teste furono levate. Il morbo era stato realmente ben combattuto, ma pure lo spirito settario e criminoso restava, come presso i Camorristi, presso i Calderari, piaga morale che solo lentamente sarebbe guarita. Del resto nella primavera del 1817, coll’istituzione delle milizie provinciali, si credette d’avere un solido strumento per combattere l’antico male, in realtà queste servirono bensì a fronteggiare i briganti e le sette reazionarie, in genere, ma esse furono pervase da spirito di parte e divennero centro di organizzazione e di diffusione della Carboneria, come vedremo in seguito.

Poco c’è da dire sulla Sicilia; nell’isola la Carboneria si diffuse tardivamente, dal 1818 in poi, importatavi da elementi stranieri, e specialmente durante la rivoluzione liberale e carbonara di Napoli del 1820-21. I più dei siciliani volevano il ripristino della loro autonomia colla costituzione del 1812 che abbiamo visto; solo pochi elementi più spinti avrebbero desiderato una costituzione più democratica, che lasciasse mino autorità alla monarchia, e si attennero in seguito dottrinariamente al modello spagnolo della costituzione di Cadice, brutta copia, notevolmente peggiorata, della costituzione francese del 1791. Propagatori della Carboneria in Sicilia furono Bartolomeo Sestini, pistoiese, il dolce autore della Pia de’ Tolomei, e il sacerdote Oddo. Il Sestini, arrestato a Palermo nell’aprile 1819, e tradotto a Napoli, fu poi liberato dietro interessamento del governo toscano e soprattutto in seguito allo scoppio della rivoluzione del 1820.

E resterebbe la Toscana, altra terra dove le sette non allignarono. Quivi si diffuse un po’ la Carboneria, a Livorno, nel settembre 1818, importatavi da un capitano di navi mercantili napoletano. Come la Massoneria, quasi ottanta anni prima, così la Carboneria giungeva in Toscana per via di mare, attraverso il porto di Livorno. Dopo un anno però a Livorno non pare che i Carbonari superassero la quarantina né si mostravano punto attivi. Sembravano in corrispondenza con Napoli, e il loro capo, Giuseppe Izzo, nato in questa città da famiglia elbana, già impiegato sotto i Francesi, poi carbonaro a Torre del Greco nel 1813, iscritto alla Massoneria francese nel 1817, commerciava con Napoli, sebbene con scarsa fortuna. La setta gli serviva soprattutto per estorcere danaro agli affiliati; e ai primi del 1820 o alla fine dell’anno precedente si diede a un’attività più sicura e lucrosa, e divenne un agente della polizia toscana! . . Già nel gennaio 1817 si era ripristinata a Livorno l’antica Massoneria, e raccolse poco più di trenta adepti; ma nell’aprile la polizia l’aveva sciolta, giudicando in via economica gli iscritti. Il fondatore, tal Pietro Pensa di Livorno, reduce da Malta dove si era appunto iscritto alla Massoneria, si buscò tre mesi di carcere; gli altri lo sfratto per poche settimane. L’interdizione dai pubblici uffici inflitta a un Procuratore di tribunale, venne tolta un mese dopo. Nel 1819 risorse però la Massoneria, con due logge; una di circa quaranta persone, tutti giovani di negozio, che si occupavano soprattutto di organizzare segretamente delle grandi agapi, e un’altra, un po’ più seria, di vecchi massoni dell’antica loggia napoleonica livornese, e di vari ricchi negozianti, alle dipendenze della massoneria francese; si radunavano presso il console inglese; ma poi tale loggia finì col comprendere quasi esclusivamente dei forestieri. Elementi massonici sparsi erano pure a Porto Ferraio (dove pare fosse anche qualche carbonaro), a Lucca, a Massa, a Carrara, ma se ne stavano timidi e guardinghi. La Toscana, gran ducale e non, era terra quieta, dove le sette non allignavano; e anche la polizia stava tranquilla, e si guardava dal dare corpo alle ombre. A Firenze, come vedremo, la Carboneria non fece la sua apparizione che nell’estate 1820, ed ebbe qualche diffusione soltanto l’anno dopo.

Queste le società segrete, così come abbiamo cercato di tracciarle; molto diverse da paese a paese, estremamente varie, reclutanti elementi disparatissimi; ma nell’insieme non molto potenti, fuorché nell’Italia meridionale, anche qui più numerose soprattutto perché meno combattute. I legami delle sette nelle varie parti d’Italia non erano grandi; pure un potere superiore si era venuto formando, con centri direttivi a Bologna, Milano e Torino in Italia, e poi il Congresso di Ginevra e il Gran Firmamento di Parigi, i quali tendevano a coordinare e dirigere l’azione di tutte le principali società segrete liberali d’Europa. E patrioti italiani operavano appunto a Parigi e a Ginevra. A Parigi soprattutto Luigi Angeloni di Frosinone, già membro del Corpo legislativo e tribuno della repubblica romana 1798-99 (il famoso Angelotti della “Tosca” di pucciniana memoria!), poi esule in Francia, complice nell’ottobre 1812 della congiura antinapoleonica del gen. Malet, imprigionato, liberato alla caduta dell’Imperatore. A Ginevra, invece cospiravano Gioachino Prati, apostolo dell’alleanza fra le sette d’Italia e quelle di Francia e di Germania; e soprattutto Filippo Buonarroti. È questa una singolare figura di cospiratore, che non è per solito abbastanza conosciuta. Nato nel 1761 a Pisa, nipote dell’omonimo archeologo, il quale a sua volta era pronipote del grande Michelangelo, Filippo Buonarroti mostrò fin da giovane carattere ardente e animoso; espulso dalla Toscana per i suoi eccessivi entusiasmi verso la rivoluzione francese, riparò in Corsica e a Parigi, dove prese la cittadinanza francese. Fu poscia amico del Robespierre e alla caduta di questi fu imprigionato come terrorista. Amnistiato nell’ottobre 1795, restò sempre alla estrema sinistra rivoluzionaria, che ormai tendeva, sotto la guida di Francesco Natale Babeuf, a un vero e proprio comunismo. Ghigliottinato il 27 maggio 1797 il Babeuf, il Buonarroti s’ebbe il confino in un villaggio del Nizzardo, finché nel 1806 ottenne di potersi trasferire a Ginevra, città dell’impero francese. Quivi visse dando lezioni di musica e d’italiano, sempre assai sorvegliato dalla polizia napoleonica, ma lontano ormai dalla politica attiva. E del resto le molte e diverse esperienze avevano fatto versare alquanta acqua nel suo vecchio rutilante vino rivoluzionario. Caduto l’impero napoleonico, e tornata Ginevra alla Svizzera, egli trovò un ambiente relativamente favorevole alle cospirazioni. Da anni del resto conosceva le sette; e ormai, abbandonato l’ideale comunistico, cospirava per la libertà dei popoli. Austero, probo, mite, animato da grande spirito di sacrificio, questo apostolo che aveva conosciuto esilio, prigione, confino, che tante volte aveva lottato colle strettezze economiche, nonostante l’età avanzata, si prodigava, amando d’uguale amore Francia e Italia, la Patria d’origine e la Patria adottiva. In seguito il Buonarroti si trasferì a Bruxelles, e poi a Parigi, dove chiuse gli occhi per sempre nel 1837.

Ci resta ora a dire dei piccoli moti o tentativi carbonari precedenti la rivoluzione del 1820-21. Il più noto è quello di Macerata del 24 giugno 1817: povera cosa in sé, ma pur notevole per le conseguenze e come indice d’una situazione. Esso si lega da un lato alle terribili condizioni economiche del paese, afflitto dalla carestia, dal tifo petecchiale, dalla siccità, cosicché i cospiratori speraron di trascinare le plebi affamate; e dall’altro all’attesa partenza delle truppe austriache dal confinante regno di Napoli, alle speranze di crisi per la morte, creduta spesso imminente, del Santo Padre, all’illusione che l’assetto europeo dovesse presto esser mutato da un congresso internazionale. E ci si illudeva anche sopra le pretese dei Borboni di Parma sul ducato e sulla Toscana, sopra il possibile accoglimento da parte dell’Europa dei diritti del figlio di Napoleone; assai frequenti erano in quest’epoca i progetti carbonari di riassetto dell’Italia. Si sapevano le mire austriache sulle Romagne durante il congresso di Vienna, e si sperava che lo Stato Pontificio potesse esser tolto al Papa e dato al Re di Roma, sotto l’alta sovranità e o il protettorato dell’Austria. Le Marche, più vicine al Napoletano, ossia al maggior centro carbonaro della penisola, erano in questo periodo anche più irrequiete delle Romagne. Nel febbraio 1816 eran scoppiati tumulti a Ripatransone e specialmente a Rimini, per il caro dei generi alimentari; Monsignor Pacca, intervenuto di persona, aveva fatto tornare la quiete affibbiando ai due principali istigatori, contadini braccianti, la galera a vita, senza speranza di grazia, a un terzo, suonatore di violino, venti anni, e facendo somministrare trenta colpi di verga sulle natiche, sulla pubblica piazza, a un quarto, che aveva disarmato un gendarme. (E si diffuse un distico fra il popolo: << Per far giustizia veramente esatta, – a Pacca il baston sul cazzo, non a Zavatta >>). Nel maggio si attentò alla vita del Presidente del tribunale di Fermo, nel settembre si ripeté il tentativo contro un aggiunto dell’alta polizia nella stessa città. Il malcontento era diffusissimo, e un moto sembrava aver probabilità di riuscita, tanto più che l’Austria forse non avrebbe visto di cattivo occhio dei torbidi, che, almeno pel momento, potevan portare a un accrescimento della sua influenza in Italia. Ma pure nemmeno ora mancaron le gelosie locali, le ambizioncelle; anzi parvero acuirsi quanto più sembrava vicina l’ora del rivolgimento e la raccolta delle spoglie dei vinti. Così mentre Bologna cercava fin dal 1816 di prender la direzione del movimento antipapale, Ancona se me mostrava gelosa, soprattutto per quanto riguardava le Marche, da qui sarebbe partita la sommossa. Comunque alla fine del 1816 già si facevan progetti fra le Vendite di Fermo e di Macerata e il Centro Guelfo di Bologna, per un’insurrezione; nella primavera dell’anno successivo le trattative continuarono. Paolo Monti, gran maestro della Vendita di Fermo, studiò insieme con Michele Mallio un piano definitivo e lo mandò a Bologna. Il rivolgimento avrebbe avuto inizio da Macerata coll’arresto delle autorità pontificie e dei principali reazionari; alla plebe malcontenta e famelica si sarebbe anzi concesso il sacco delle abitazioni di questi ultimi, nobili e proprietari fondiari in gran parte. Poi la rivoluzione, come una striscia di polvere, si sarebbe estesa alle altre parti delle Marche e alle Romagne; le terre sollevate avrebbero invocato dall’Europa un governo indipendente, unitario; l’utopia poteva diventar realtà, qualora si fosse consentito che re del nuovo regno fosse un principe austriaco, magari il Re di Roma, come s’è detto. Questo il programma massimo; in realtà ciò che ai rivoltosi premeva era d’esser liberati dal governo dei preti e dai molti signorotti laici ed ecclesiastici che colle rispettive clientele rappresentavano delle cricche odiose e un regime di dilapidazione del pubblico denaro d’ingiustizie continue. E la propaganda mirava a far sapere alla povera gente che il nuovo regime avrebbe fatto diminuire d’oltre il cinquanta per cento il prezzo del grano, del vino, dell’olio, e avrebbe proclamato l’abolizione dell’imposta sul macinato, e concesso l’aumento del soldo alla truppa; i ricchi avrebber dovuto pensare a sanare il deficit del bilancio, non la povera gente! Non per nulla, nel luglio 1817, il Delegato ecclesiastico di Ascoli Piceno scriveva: << Il popolo minuto e il contadino, per giudicar del governo, altro non osservava fuorché il prezzo de’ generi di prima necessità, in modo che si dice cattivo il Governo se vende caro il prezzo di detti generi, buono se i generi medesimi li vendono a minor prezzo >>. Pure la polizia era già sulle tracce del complotto! Il mantenere il segreto era per la setta la cosa più difficile; sebbene le polizie in genere, e quella pontifica in specie, non fossero un modello di organizzazione e di abilità, pur tuttavia nelle sette erano troppo numerosi gli elementi di scarto, o comunque  non abbastanza forti per tutto quello che di prudenza mista a volte ad audacia, intuito, circospezione, spirito di sacrificio, si sarebbe richiesto per simili imprese. Senza parlare dei traditori volgari e delle spie d’infimo rango, eran pure numerosi in esse il leggeri, gl’imprudenti, quelli che si affigliavano per semplice spirito di curiosità, per una certa voluttà romantica del mistero, del gesto pericoloso, per vanità, quelli che cercavano in esse un vantaggio immediato, piccoli borghesi spostati in cerca di uno stipendio o in attesa di un posto di favore  a rivoluzione compiuta, gente che aveva rancori privati da sfogare, e via di seguito. Senza parlare degl’inconvenienti che derivavano dall’interferenza di gradi gerarchici fra la gerarchia civile e quella segreta, così che un superiore in un pubblico ufficio poteva trovarsi inferiore nella setta e viceversa; inconveniente gravissimo quando la rivoluzione fosse riuscita e il rovesciamento delle gerarchie fosse divenuto frequente e manifesto. Chi fruga fra gli archivi di polizia vede tanto spesso con un senso di meraviglia e di disgusto, come la polizia fosse in generale bene informata, come avesse fra le mani cifrari, catechismi, parole d’ordine, frasi convenzionali, come spesso lasciasse agire i settari, per poi coglierli avendo un maggio corpo d’accuse contro di loro. E fa pena e muove sdegno il seguire l’opera delle spie che spesso invitavano degli ingenui o dei disgraziati ad entrare nelle sette, per poi denunciarli! … Quanto Giovanni Ruffini ha scritto intorno alle origini della Giovine Italia, setta che pure traeva origine da un’autentica figura di apostolo, può dirsi a maggior ragione di tante altre società segrete: << Siete mai stati vicini a  una di quelle decorazioni sceniche, che vedute da lontano fanno mirabili effetti? Avete osservato come guardandole da presso, l’illusione svanisce e non vi trovate innanzi che lacune, macchie informi, e pennellate in apparenza date a caso? Lo stesso può dirsi fino a un certo punto di una cospirazione. Veduta a una certa distanza, osservata nel suo insieme, nulla di più mirabile e poetico, che quella meravigliosa unione di tante volontà e di tante forze mosse da un solo spirito, la quale procede nelle tenebre, tra mezzo a difficoltà e pericoli di ogni genere, verso la più nobile e più legittima delle umane conquiste, la libertà e l’indipendenza. Ma, se dal contemplare il tutto si scende ad osservare particolari, addio poesia, e noi ci troviamo nella prosa più volgare. Quanto egoismo, quante piccinerie impacciano le molle di questo complicato meccanismo! Credetemelo, il sentiero d’un cospiratore non è sparso di rose … Un cospiratore deve ascoltare ogni specie di pettegolezzi, carezzare ogni sorta di vanità, discutere sul serio di sciocchezze, sentirsi sfinire sotto il peso del vaniloquio più sfacciato, della volgarità più ignobile e serbare un contegno inalterato e gentile. Un cospiratore cessa di appartenere a se stessi e addiviene il balocco del primo che incontra; deve uscire quando vorrebbe stare in casa, stare in casa quando vorrebbe uscire; ha da parlare quando vorrebbe tacere; da vegliare quando vorrebbe dormire. È, lo ripeto, una vita miserrima. Ha certamente i suoi conforti, pochi a dir vero, ma dolci, come sono le amicizie che si annodano talora con animi nobili e con cuori devoti al pubblico bene; il lembo argenteo che cinge la nube oscura, è la certezza che tutto questo lavorio agevola a mano a mano la strada verso un fine nobile e santo >>. Così dunque la storia delle società segrete è storia di eroismi e d’abnegazione, ma è pure storia di debolezze e di viltà, di dedizioni generose e di tradimenti volgari. Già nel gennaio 1817, per tornare al nostro più diretto argomento, un Luigi Boatti, ex cappuccino, arrestato con altri per gravi sospetti della polizia, ad Ascoli Piceno, senza che ancora gli venisse fatta alcuna pressione, dichiarò d’essere entrato due anni prima nella Carboneria, dietro gravissime intimidazioni di alcuni ufficiali murattiani, e di esserci rimasto per timore d’esser trucidato; ma che ora era ben lieto di poter parlare con piena libertà. E cominciò a spifferare nomi, a dar notizie del piano insurrezionale; fra i nominati c’eran Paolo Monti e Michele Mallio. Quasi contemporaneamente un Giuseppe Priola di Saluzzo, poeta comico e impiegato in qualità di usciere sotto il regno italico a S. Elpidio a mare (Ascoli Piceno), privato d’impiego dalla Restaurazione e stretto dalla miseria, si rassegnò ai primi di gennaio 1817 a divenire spia del governo, pur d’avere in compenso un posto qualsiasi. Il governo pontificio avvertì della trama il conte Saurau, governatore di Milano, e questi fece interrogare non pochi settari sudditi pontifici, dimoranti nel Lombardo-Veneto. Ormai Roma e Milano procedevano d’accorso, e l’Austria non dava il minimo appoggio, diretto o indiretto, ai patrioti marchigiani e romagnoli. Ai primi di giugno, ciò nonostante, la propaganda era poco attiva e poco prudente; si vociferava a più riprese di rivolta imminente. E il primo giugno, a titolo d’esperimento, veniva ferito il Priola, ormai da molti sospettato come un traditore. Manifestini alla macchia circolavano, annunziando prossima la fine degli oppressori, nonché dei fornai, affamatori della povera gente. Ma a tanto rumor di minacce non seguì che un ben miserando epilogo. La rivolta doveva finalmente scoppiare il giorno di S. Giovanni Battista, e un proclama era pronto per galvanizzare le popolazioni e trascinarle dietro ai primi insorti. Esso diceva: << Popoli Pontifici! Voi soffriste già abbastanza; la peste e la fame termineranno di mietere le vostre vite, e quelle dei vostri figli, se più tardate a porvi riparo. All’armi dunque, all’armi. Sia nostra divisa l’amor della Patria, carità pei vostri figli. Abbattere i despoti, obbligare i doviziosi, e soccorrere gli indigenti sia solo vostro oggetto. Voi non avete che un a mostrarvi, e l’ordine e la giustizia trionferanno. La storia vi prepara un eminente grado fra gli eroi. Popoli all’armi, viva solo chi ama la Patria, chi soccorre gli infelici. Si sono appresi a tal partito i popoli delle Marche e della Romagna. Fino dalla scorsa sera hanno abbracciato il progetto. E voi popoli ciechi, dormite? >>. Ma ben pochi arrivarono a leggere il generoso proclama! Dai dintorni e dalle campagna avrebbero dovuto giungere nella notte molti uomini di rinforzo, e si sarebbero radunati dinanzi ai monasteri delle Vergini e di Santa Croce, per riunirsi poi tutti quanti presso la porta dei Cappuccini, far massa e irrompere quindi nella città. Ma al momento buono, ben pochi si trovarono sul posto. Questi pochi pensavano già di sciogliersi, tanto più che nei giorni precedenti i posti di guardia eran stati rafforzati e l’attività della polizia fatta più intensa, quando uno dei congiurati, tal Pacifico Moschini, vetturale, prima di tornarsene indietro volle sparare dei colpi di fucile contro le sentinelle pontificie. Tali colpi così nel buio e a distanza non raggiunsero né ferirono alcuno, ma valsero a destare un certo allarme nel corpo di guardia. I congiurati allora si affrettarono a disperdersi col favore delle tenebre. Tutto pareva finito in una bolla di sapone: in Macerata nessuno si era accorto dei due colpi notturni di fucile; ma il 24 mattina si trovarono affisse in Ascoli, Tolentino, Foligno e altrove, copie del famoso proclama rivoluzionario. Esse servivano solo a far procedere ad arresti e a perquisizioni di persone sospette, durante le quali altre copie vennero alla luce. Le persone implicate o almeno sospette finirono col sommare a parecchie centinaia, ma tuttavia a Roma ne furono condotte solo una cinquantina per il regolare processo. E questo si svolse sotto la direzione dell’intransigente e fanatico Monsignor Pacca. Ormai il governo pontificio aveva elementi sicuri di giudizio. Altre delazioni importanti erano avvenute, fra cui quella del già ricordato Michele Mallio. Costui, nobile decaduto, letterato di qualche nome (da abate aveva preteso rivaleggiare con Vincenzo Monti, poi aveva commesso una tragedia Saira, sonoramente fischiata, quindi un poemetto in ottave, Il Trionfo della Religione nella Morte di Luigi XVI, e più tardi nel 1829, due anni prima di precipitare verso il nono girone, un poema Gerusalemme Distrutta, in cui inferociva contro la disgraziata città) privato del posto di capo sezione di prefettura ad Ancona, spinto come il Priola da strettezze economiche, non molto dopo il tentativo di Macerata, senza aspettare che la polizia finisse coll’acciuffarlo come capo carbonaro, profittando dell’antica conoscenza di un Cardinale, si presentò nascostamente all’autorità, spacciandosi per uno dei capi carbonari e offrendosi di offrire in segreto il governo, purché questi lo sollevasse dall’estrema miseria in cui giaceva, ragione prima e più vera della sua iscrizione alla setta. Nella seconda metà di settembre e nella prima di ottobre il novello Giuda fece un viaggio di perlustrazione per conto della polizia pontificia, già d’accordo con quella austriaca, nelle Romagne, a Modena, Parma, Milano, Genova e Torino. A Milano vide il Pellico, a Torino il gen. Gifflenga. Il processo di Roma andò assai per le lunghe, e solo nell’ottobre – novembre 1818 si ebbero le sentenze. In complesso trentaquattro condanne, di cui ben tredici alla pena di morte. Queste ultime furono però commutate da Sua Santità nella relegazione perpetua in una fortezza; e la galera perpetua inflitta pure ad altri dodici imputati, ridotta a dieci anni della stessa pena. Quasi tutti i condannati appartenevano alla media e piccola borghesia. E così finiva tragicamente questo primo tentativo liberale nello stato pontificio! … Altri processi si ebbero pure nel 1817 contro molti Carbonari di Sinigaglia e di San Genesio Marche, rei di associazione proibita, di macchinazione contro lo stato, e persino di eresia. E anche ora risultarono purtroppo frequenti esempi di debolezza fra gli arrestati.

Ma un altro episodio caratteristico riguarda il tentativo fatto dai Carbonari romagnoli nel 1818 per unirsi alla Toscana, tentativo ormai chiaramente messo in luce. Fallito il moto di Macerata, non pochi Carbonari continuarono a sperare che l’Austria mirasse a una occupazione delle Romagne, e che queste potessero venir divise tra l’Austria e la sua propaggine della Toscana. Nell’ottobre 1817 il Vicario di Rocca San Casciano, avvocato Scaramucci, avvertiva il governo proprio di queste voci e di questi desideri. Un mese dopo il governo toscano incaricava di andare a Forlì a raccoglier notizie il Signor Giuseppe Valtancoli. Costui, nativo di Montanone presso San Miniato, dopo aver avuto cariche ed impieghi sotto il governo francese ed essere entrato nella Massoneria a Livorno nel 1811, s’era poi ritirato a Portico, presso Rocca San Casciano, ove possedeva una villa e alcuni beni, ed era stato fatto Gonfaloniere di quella terra. Commerciava in legnami con Forlì, e aveva perciò numerose conoscenze nella città, ma era alquanto dissestato nei suoi affari, e avrebbe preferito un tranquillo e sicuro impiego governativo. E l’occasione parve ora presentarsi di servir bene il proprio Governo e averne poi in premio l’ambito posticino. Col pretesti di indurre un esiliato politico a costituirsi al Governo toscano, che non lo avrebbe rimesso nelle mani della polizia pontificia, egli fu a Forlì, ebbe contatti coi Carbonari del posto, e specialmente col prete Girolamo Amaducci, fervente patriotta, morto poi in carcere, in circostanze misteriose, nel 1823, e fu poco dopo iscritto da essi alla Carboneria. Ai primi di gennaio del 1818 il Vantancoli ebbe l’incarico dal Fossombroni (consenzienti pure gli altri colleghi, e, di buona o cattiva voglia, il capo della polizia Puccini), di studiare meglio la questione sul posto. Una deputazione romagnola s’offerse di venire a trattare a Firenze, e il 23 marzo i Ministri stabilivano che il Vantancoli la dovesse invitare a venire a Firenze. Il Vantancoli partì, e proseguì anzi fino a Roma, dove conobbe Pietro Maroncelli; ma i Carbonari ora già sospettavano di lui e decisero di non muoversi. Allora il Fossombroni li faceva rassicurare dallo Scaramucci, e il 14 maggio erano a Firenze quattro notabili romagnoli, e precisamente il conte Giuseppe Orselli di Forlì, il conte Francesco Ginnasi di Faenza, Mauro Zamboni di Cesena, già ufficiale napoleonico, e il negoziante Vincenzo Gallina di Ravenna. Il Puccini, pavido e pieno di scrupoli, ricevé, e molto freddamente, il solo conte Ginnasi; ma il Fossombroni invece fece loro un’accoglienza cordiale, e per due o tre mesi mantenne corrispondenza epistolare collo stesso Ginnasi, che pare dovesse considerarsi il capo della deputazione. Nel giungo però scoppiavano dissidi fra i Carbonari di Ravenna e Forlì da una parte, che avrebber voluto veder attuato al più presto il programma minimo d’unione alla Toscana, e quelli di Bologna e Ferrara (appoggiati dalle due gerarchie superiori della setta, i Guelfi e gli Adelfi) che avrebber voluto invece un’insurrezione d’accordo coi Piemontesi e coi Lombardo-Veneti ed erano ostilissimi all’Austria e alle sue propaggini; e inoltre speravano assai in un prossimo cambiamento dell’assetto europeo. Il dissidio si venne acuendo tanto, che i Carbonari di Forlì e di Ravenna tentarono persino, per un momento, di far parte per se stessi in una nuova Società Etrusca e poi forse nella Massoneria che avrebber voluto risuscitare; e il Fossombroni, se ancora non li lusingava, non faceva neppur nulla per sgannarli. Egli pure, probabilmente, credeva che l’Austria volesse prendersi Ferrara e Bologna (dove non pochi avrebbero accettato la sua dominazione come il male minore), lasciando alla Toscana Forlì e Ravenna, tanto più che in tal modo il congiungimento fra gli Stati di Casa d’Austria sarebbe divenuto un fatto compito. Ma l’Austria avrebbe dovuto urtare contro la volontà recisa della Francia e della Russia (e del resto già nel novembre 1817 il Metternich in un famoso Memoriale all’Imperatore sulla condizione dei vari Stati d’Italia, diceva d’esser lontano dalla convinzione che le Legazioni potesser costituire un felice acquisto per la Monarchia: Bologna sarebbe stata il centro dell’opposizione all’Austria in Italia, anche sa parte di coloro che ora la desideravano come il male minore), e si finì col non concludere nulla. Perciò verso la metà d’ottobre il Vantancoli riceveva l’ordine di calmare lentamente e con abilità i bollenti spiriti dei Romagnoli. Frattanto il Governo Pontificio correva ai ripari, e cominciavano gli arresti dei Carbonari. Ciò in parte spaventava, in parte esasperava i settari; alcuni proposero d’insorger subito, i più però furon del contrario avviso, soprattutto temendo uno scoppio d’anarchia popolare qualora la rivoluzione non fosse stata subito appoggiata e legalizzata da un governo ordinato e autorevole quale quello toscano. E proprio allora il 4-6 dicembre, il Vantancoli era capitato fra loro a Forlì, a Imola, a Faenza, a Ravenna sconsigliandoli completamente da qualunque moto. E così la speranza dei Romagnoli era definitivamente svanita! … Dalla Romagna la Carboneria aveva cominciato anche a prender piede nel confinante territorio veneto, e precisamente nel Polesine, ma la polizia austriaca riuscì a soffocare in sul nascere la propaganda, prima ancora che l’organizzazione settaria, nonché preparare seri rivolgimenti, avesse anche solo potuto estendersi e consolidarsi. Si ebber così, sul finire del 1818 numerosi arresti e relativi processi, che prendono il nome dal nucleo carbonaro di Fratta Polesine. Tali processi però si legano alla successiva azione giudiziaria cui sono uniti i nomi del Pellico, del Maroncelli, del Pallavicino, del Confalonieri, e preferiamo perciò trattarne in seguito. In conclusione, i successi delle sette in questo periodo posson sembrare assai scarsi; grande la stanchezza, lo scetticismo, la sfiducia, nonostante la generale crisi economica, lo scontento, l’ira mal celata. Nondimeno proprio per opera delle società segrete si ebbero nel 1820-21 i due notevoli rivolgimenti politici di Napoli e del Piemonte, soffocati entrambi soltanto dall’intervento straniero.

Lorenzo Pitaccolo con l’aiuto di Elisa Badone – 4A