Articolo realizzato con la collaborazione del dott. Stefano Cavaliere, direttore dell’Associazione Culturale don Vittorino Barale
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Percorrendo il borgo medievale di Masserano, dopo una lunga salita e un viale costeggiato da case, tra cui vi è anche la Chiesa della Santissima Annunziata, detta Collegiata, si giunge ad una piazza circondata sul lato sinistro da degli alberi: dietro questi alberi, un lungo palazzo dalla facciata bianca estremamente sobria, che ad un primo impatto può non suscitare interesse e portare il visitatore a proseguire il proprio percorso, senza soffermarsi su quella che è una delle meraviglie del Biellese. Palazzo Ferrero Fieschi, più noto come Palazzo dei Principi, deve il suo nome alla famiglia che lo abitò dalla fine del ‘500 alla fine del ‘700. Ma chi erano questi principi? La famiglia Fieschi era una famiglia genovese, discendente dai conti di Lavagna, e assieme ai Grimaldi, ai Doria e agli Spinola, si contendeva il controllo della Repubblica di Genova, fin dal XII secolo. Tra i gli illustri membri di questa casata, due pontefici: Innocenzo IV e Adriano V. I Fieschi erano guelfi, quindi alleati del papa nello scontro tra impero e papato, e per decenni l’importante diocesi di Vercelli (con i vasti territori dipendenti) fu nelle mani di membri di questa famiglia. Nel 1394, quando il casato fu costretto a fuggire da Genova, il Vescovo di Vercelli Lodovico Fieschi ottenne da papa Bonifacio IX che i feudi di Masserano, Crevacuore e Moncrivello fossero affidati alla propria famiglia ed è così che il fratello Antonio divenne il primo signore di Masserano. Nei secoli successivi i vari signori riuscirono a conquistare la benevolenza sia del papa, sia dell’imperatore, sia dei Savoia e nel 1506 papa Giulio II della Rovere, elevò Annibale Fieschi al titolo di Comites apostolici seu Palatini, ossia di conte. Nel 1532 subentrò la famiglia Ferrero-Fieschi: infatti con la morte di Ludovico Fieschi, il feudo pontificio passò nelle mani di Filiberto, membro della nobile famiglia biellese dei Ferrero, e che Ludovico aveva adottato nel 1517. Il nuovo conte proseguì la linea politica precedente e nel 1547 fu beneficiato da papa Paolo III Farnese con il titolo di marchese. A lui successe il secondogenito Besso, poco amato dalla popolazione locale, e alla sua morte il marchesato di Masserano passò al figlio Francesco Filiberto, sotto la reggenza della madre Claudia di Savoia-Racconigi, finché non raggiunse la maggiore età. E così eccoci giunti al 1597 (un anno dopo Francesco Filiberto otterrà il titolo di principe), anno in cui la vedova e il figlio di Besso decisero la costruzione di una residenza appena fuori dal centro del paese di Masserano. Alla costruzione e alla decorazione di muri e soffitti lavorarono artisti di grande fama e nel giro di pochi anni venne terminato il primo nucleo della reggia, costituito da due piani (il primo diviso in quattro stanze) e dal torrione. Ma ben presto il principe divenne impopolare presso la sua gente a causa delle tasse che aveva imposto per risanare le casse del principato, che lui aveva svuotato per aumentare il prestigio della propria casata agli occhi degli altri nobili italiani. Inoltre nel 1616-17 il principato venne occupato dall’esercito sabaudo, durante la guerra di successione del Monferrato, poiché Francesco Filiberto si era alleato con gli spagnoli e non con i Savoia. Così il principe fu costretto a fuggire e tornò solo nel 1618 in seguito alla fine della guerra. Il comportamento tirannico e i misfatti nei confronti della popolazione masseranese, generarono un tumulto che scoppiò a Masserano e a Crevacuore nel 1624: il principe fu costretto a fuggire, mentre il palazzo da poco costruito venne saccheggiato e devastato. A provvedere al restauro fu il figlio Paolo Besso, che fece inoltre ampliare il palazzo (1632-34). Un terzo ampliamento avvenne nel 1660 in occasione del matrimonio dell’erede del principe, Francesco Ludovico, con Francesca Maria Cristina Simiana di Pianezza, occasione in cui venne costruita una galleria lunga 41 metri, che termina con la cappella privata del principe. Nei decenni successivi i principi divennero sempre più impopolari presso il loro popolo e pian piano persero anche il sostegno dell’imperatore e del papa. I Ferrero-Fieschi presero a frequentare sempre di meno la loro residenza a Masserano preferendo quella di Madrid, perdendo di conseguenza anche il controllo del feudo. Nel 1767 il principe Vittorio Filippo vendette il principato di Masserano e il marchesato di Crevacuore al re di Sardegna Carlo Emanuele III per 400.000 lire, mantenendo solamente il titolo. In seguito al congresso di Vienna (1814-15) il titolo di principe di Masserano perse ogni valore e, quando nel 1835 la casata dei Ferrero – Fieschi si estinse, il palazzo divenne proprietà dei Ferrero La Marmora di Biella, che nel 1867 lo vendettero al comune di Masserano per 11.000 lire. Nel corso dei decenni il comune ha apportato alcune modifiche, spesso oggetto di critiche, e oggi una parte del palazzo è sede degli uffici comunali, un’altra della caserma dei Carabinieri. Nel 2007 è stato fatto un restauro parziale, per ripulire e conservare gli affreschi e i soffitti a cassettoni lignei. Fino ad arrivare al 10 aprile 2016, quando venne inaugurato il Polo Museale Masseranese a cura dell’Associazione don Barale, che gestisce il palazzo.
A condurre all’interno del palazzo è un portone verde in stile Luigi XVI, situato nel nucleo centrale dell’edificio, a sinistra del torrione (sulla parte alta di esso è ancora visibile lo stemma del principe Francesco Ludovico e della moglie). Si giunge così in un atrio, che un tempo fungeva da deposito carrozze. A destra un ampio scalone in pietra, situato all’interno del torrione, che porta al piano nobile; sul muro del torrione sono situate due lapidi: una dedicata a Pietro Marcandetti, detto il Generali, musicista masseranese a cui si deve l’invenzione del “crescendo” e che fu maestro di Gioacchino Rossini; l’altra ai masseranesi caduti in battaglia tra il 1848 e il 1938. Nel pianerottolo sono posizionati, invece, i busti di Giovanni Battista Cassinis, giurista, professore universitario e avvocato, e del poeta Corrado Corradini.
Il primo piano è costituito da una serie di sale di rappresentanza, affiancata da un’ala adibita agli appartamenti privati del principe. Il secondo piano, riservato ad altri alloggi privati, non è visitabile, come anche quello del torrione, per motivi di sicurezza. Dallo scalone si accede alla prima sala, detta delle Quattro Virtù Cardinali, dove sono esposti alcuni arredi della chiesa medievale di San Teonesto; a dominare la scena è l’ancona di legno d’orato costruita nel 1654 dallo scultore Bartolomeo Tiberino d’Arona, per ornare l’altare della chiesa; nella parte inferiore dell’ancona è rappresentata la Passione di Cristo e sulla cimasa la Resurrezione. Sono poi presenti anche le statue di San Bonaventura cardinale, San Francesco, San Domenico, San Diego e infine quella del titolare della chiesa, San Teonesto, soldato romano vissuto sotto Diocleziano (IV secolo d.C.) che si convertì al cristianesimo e per questo fu martirizzato. Il soffitto della stanza è a cassettoni lignei (dieci in tutto) contenenti dei rombi e decorati con motivi vegetali stilizzati. La fascia superiore delle pareti è decorata con un fregio continuo, che presenta al centro di ogni parete una cartella decorata con motivi pseudo architettonici con mascheroni e una conchiglia, e poi altre cartelle che figurano le quattro virtù cardinali. Un fregio simile a questo è ripreso anche nella parte bassa delle pareti, interrotto dalle finestre e dal camino in marmo rosso.
Passando nella seconda stanza, troviamo una decorazione analoga a quella della sala precedente: un fregio affrescato d’azzurro con girali bianchi corre lungo tutta la parete superiore, appena sotto il soffitto a cassettoni lignei (quattro cassettoni) dipinto a tempera. Su ogni parete, al centro di ogni fregio è presente una cornice retta da due putti, contenente una scena biblica. La fascia affrescata inferiore, invece, presenta motivi paesaggistici.
Giungendo nella terza stanza, a catturare l’attenzione è il grande Ritratto equestre del Principe Eugenio di Savoia – Soisson (membro di un ramo cadetto della dinastia sabauda e grande condottiero al servizio degli Asburgo d’Austria), che lo rappresenta dopo la battaglia di Mohàcs contro i Turchi. Il ritratto, olio su tela, è stato probabilmente realizzato nel XVIII secolo dal pittore fiammingo Karel de Moor ed è poi passato all’abate di Lucedio, Giuseppe di Trecesson, figlio naturale di Carlo Emanuele II di Savoia; da lui è poi passato, assieme ai ritratti di Vittorio Amedeo II e Carlo Emanuele III, alla sorella Cristina Ippolita, moglie del principe di Masserano Carlo Besso. I ritratti sono passati poi ai Ferrero – La Marmora e ora sono esposti a palazzo La Marmora di Biella. Il ritratto di Eugenio di Savoia si trova qui momentaneamente, come prestito da parte del marchese Mori Ubaldini degli Alberti La Marmora. Le pareti e il soffitto della sala sono decorati come le stanze precedenti. Da una porta laterale si accede ad una stanza non visitabile e da restaurare, che forse era la Sala del Trono.
Entrando nella stanza successiva, si passa al secondo nucleo del palazzo, costruito per volere del principe Paolo Besso: è la Sala degli Eroi e delle Eroine e deve il suo nome ai soggetti tratti dalla mitologia greca e latina, rappresentati nel fregio superiore dallo stimato artista milanese Carlo Francesco Nuvolone; a ornare lo zoccolo inferiore sono motivi vegetali con cornici contenenti vedute paesaggistiche. Sulla parete a destra (opposta alle finestre) è esposta la pala d’altare della chiesa di San Teonesto, tela realizzata dall’artista milanese, ma di origine olandese, Giovanni Antonio De Groot all’inizio del XVIII secolo. Ai lati della pala due aperture interrompono il fregio inferiore: a realizzare questo sfregio fu il comune nel XIX secolo, per rendere comunicanti questa sala di rappresentanza con gli appartamenti privati del principe. La stanzetta a destra è detta di “Aurora”, per via del tondo centrale presente nella volta a padiglione, che rappresenta la dea Aurora nell’atto di spargere i fiori, su cui passerà il carro del Sole al suo sorgere, che è rappresentato sul tondo della vela della volta, sopra la finestra, da dove entra la luce del sole; nel tondo opposto, invece è rappresentata la Luna che sorge e negli altri due la dea della caccia Diana e il mito di Dedalo e Icaro. I straordinari affreschi di questo soffitto sono contenuti entro cornici in stucco color oro, su sfondo verde. Molto probabilmente è opera del famoso artista milanese del periodo barocco, Ercole Procaccini il Giovane. L’altra stanzetta è detta di “Minerva” o “delle Arti” e presenta una decorazione simile alla stanza precedente, con la volta color rosso; negli angoli delle vele sono presenti le aquile bicipiti, simbolo imperiale, concesso dall’imperatore nel 1610 al principe di Masserano, testimonianza del fatto che i Ferrero-Fieschi fossero vicini sia al papa che all’imperatore. A terra è possibile osservare un frammento di quello che era un tempo lo straordinario pavimento.
Segue la sala più sontuosa di tutto il palazzo: la Sala dello Zodiaco. Luogo dove un tempo si svolgevano le cerimonie e venivano ricevuti i corpi diplomatici, ora è sede della sala consigliare del comune. Un fregio orna ancora una volta la parte alta delle pareti, ma qui tutto è più ricco e maggiormente straordinario: realizzato dal già nominato Ercole Procaccini il Giovane, il fregio è costituito da dodici cartigli incorniciati da opere in stucco, affiancati da putti e altre figure mitiche, il tutto delimitato sopra da un finto cornicione. I cartigli rappresentano ognuno l’allegoria di un mese dell’anno e di un segno zodiacale. Altrettanto sorprendente è il soffitto a cassettoni lignei, dipinto probabilmente dal genero del Procaccini: Federico Bianchi. I nove cassettoni recano delle cornici circondate da motivi floreali e vegetali, contenenti in tutto le dodici divinità dell’Olimpo. Lo zoccolo è anche qui decorato da un fregio dipinto. Le pareti sono ricche di tele di santi e altri personaggi illustri. A catturare l’occhio è il camino monumentale, detto delle Allegorie, in marmo nero sormontato da una tela rappresentante il Sacrificio di Marco Curzio, tratto dal Libro VII di Ab Urbe Condita dello storico latino Tito Livio (La leggenda narra che nel 362 a.C. nel Foro Romano si aprì una voragine apparentemente senza fondo. I sacerdoti interpretarono il fatto come un segno di sventura, predicendo che la voragine si sarebbe allargata fino ad inghiottire Roma, a meno che non si fosse gettato in quel baratro quanto di più prezioso ogni cittadino romano possedeva. Il giovane patrizio Marco Curzio, uno dei più valorosi guerrieri dell’esercito romano, convinto che il bene supremo di ogni romano fossero il valore e il coraggio, si lanciò nella fenditura armato ed a cavallo, facendo così cessare l’estendersi della voragine). Il quadro è racchiuso entro una cornice in stucco bianco e affiancato da due statue anch’esse in stucco: a destra (rispetto all’osservatore) l’Abbondanza, con in mano una cornucopia di frutti; a sinistra la Fortezza. Il tutto è al di sopra della mensola del camino, retta da due cariatidi in stucco bianco. A catturare l’attenzione è anche l’enorme varco nella parete di fronte alle finestre, fatto nel XIX secolo, per unire la Sala dello Zodiaco con la Sala di Venere, detta anche Gabinetto dell’Alcova, che un tempo era la camera da letto del principe, confermato dall’inventario sul palazzo del 1756; oggi invece ospita i banchi dei consiglieri comunali. Stupisce il soffitto a volta, interamente ricoperto da stucchi bianchi in stile barocco, con quatto cartelle laterali e una centrale raffigurante Venere dormiente. Molto probabilmente il letto era posizionato contro la parete verso cui guarda le dea. A realizzare questi superbi stucchi fu forse Giovanni Luca Corbellino da Lugano, che lavorò anche al Castello del Valentino. Prima di passare alla stanza successiva un ultimo sguardo allo stupendo cassettone in legno con intarsi in avorio, del ‘600, in stile provenzale, uno dei pochi mobili originari del palazzo.
Lorenzo Pitaccolo – V A
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